Print Friendly, PDF & Email

acropolis

Pòlemos, padre di tutte le cose, 2/5. Lukács e Bloch nella grande guerra

di Antonino Infranca

doc 20220516 27175688 e1653035378457La Prima Guerra Mondiale divise fisicamente Bloch e Lukács in forma definitiva, non torneranno ad incontrarsi mai più. Essi avevano dato vita a una vera e propria simbiosi intellettuale, alla maniera di Schelling e Hegel o Croce e Gentile. Da questa distanza fisica, poi comincerà anche una distanza ideologica, fino al momento del confronto critico nel 1935, venti anni dopo. Torneranno a scriversi soltanto dopo la Seconda guerra mondiale.

Come è noto entrambi furono profondamente avversi alla guerra, al punto che Bloch per evitare la chiamata alle armi si rifugiò in Svizzera e vi rimase per tutta la durata della guerra. Le motivazioni che spinsero Bloch all’esilio sono nel suo pacifismo. Lukács, invece, aveva motivazioni di ordine più strettamente politico:

A proposito della guerra non posso proprio dire altro che io fin dal primo istante fui contro. La mia posizione era allora più o meno che le armate tedesche e austriache avrebbero forse battuto i russi, e allora i Romanov sarebbero caduti. Fin li, tutto bene. Poteva anche darsi che l’esercito tedesco e quello austriaco venissero battuti dall’esercito anglo-francese e che sarebbero caduti anche gli Asburgo e gli Hohenzollern. Pure questo andava bene. Ma poi chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale? Qui si può vedere come la mia avversione per il positivismo aveva anche motivi politici[1].

Lukács rifiuta la guerra ma non sa cosa proporre in sostituzione delle sue conseguenze, perché egli intuisce che questa è una nuova forma di guerra, è una guerra universale, che avrà conseguenze universali. Si ritrova in quella che Hegel chiamò la “mera negatività”. Gli era chiaro che la guerra era una forma di dipendenza della monarchia asburgica e con essa della società civile ungherese rispetto al Reich tedesco e alle sue mire di espansionismo imperiale in Europa.

Lukács non voleva perdere quel rifugio personale che si era creato tra i libri e nella comunità con i suoi amici intellettuali, quella scelta per l’opera. Adesso la politica, continuata con i mezzi bellici, lo strappava dalla sua torre d’avorio e lo costringeva a dare una risposta ad una questione vitale: andare o no sotto le armi?

Fino al 1914 Lukács era stato un giovane intellettuale impegnato nella costruzione della sua carriera e ribelle all’ambiente borghese di formazione, chiuso nel suo mondo spirituale[2]. A differenza di Bloch la risposta di Lukács non era dettata da una convinzione ideologica, lui non era e non sarà mai pacifista, ammetteva e ammetterà l’uso della violenza contro la violenza. Non vedeva però nei paesi dell’Intesa una minaccia diretta alla sua vita, non aveva motivi per combatterli, e non era un fanatico nazionalista ungherese. La guerra lo lanciava in una vicenda condivisa da decine di milioni di esseri umani, in cui si giocava la vita, in cui la rivolta individuale non serviva a nulla, bisognava trovare una comunità, una relazione reciproca, con gli altri, un progetto comune per rovesciare la tragica, mortale, situazione esistente. Semmai è il suo amico intimo, Bela Balázs, che reagisce alla guerra e sprona Lukács a porsi a capo di un movimento intellettuale pacifista con forti connotati etici, quasi religiosi, per combattere la guerra sociale[3]. Emerge qui il carattere sociale della guerra.

La prima risposta di Lukács alla chiamata alle armi è il sotterfugio individuale: Karl Jaspers gli firma un certificato medico che gli permette di evitare la chiamata e rimanere a Heidelberg immerso nei suoi progetti intellettuali. C’è però, un cambiamento di prospettiva: Lukács abbandona il progetto di scrivere una grande estetica –ci rimangono i due grandi manoscritti de La filosofia dell’arte e dell’Estetica di Heidelberg– e passa ad interessarsi a Tolstoi e a Dostoevskij e alla figura del rivoluzionario russo, narodniki, anarchico, socialisteggiante. Progetta di scrivere un grande saggio su Dostoevskij, di cui la prima parte è la Teoria del romanzo, del saggio propriamente su Dostoevskij ci rimangono degli appunti, pieni di riferimenti politici; dai due scrittori russi assume l’idea che il sistema capitalistico è sostanzialmente inumano. Lukács riflette sull’azione violenta che rovescia l’esistente e apre la prospettiva della liberazione. Comincia a delinearsi un mondo nuovo, la comunità russa, manca ancora una definizione e una prospettiva precise del nuovo da realizzare a livello politico e sociale: manca una vera utopia come forma dirompente, come tensione al superamento definitivo della realtà capitalistica. Si tratta dell’utopia russa, che egli preferisce alla democrazia borghese, che dà luogo al romanzo rivoluzionario. È la svolta etica della sua vita, che lo porterà in seguito all’adesione al movimento comunista, ma è ancora convinto che una presa di posizione intellettuale sia sufficiente per affrontare le questioni pratiche della vita, anche quelle tragiche di una guerra.

Nella Teoria del romanzo emerge prepotentemente lo stato d’animo di Lukács di fronte alla guerra: la situazione reale di quel momento storico non è più sostenibile, la totalità classica, la totalità greca, si è fratturata di fronte alle forze dirompenti del mondo borghese. Però la forte sensibilità critica dell’esistente, la spinta al rinnovamento rivoluzionario sono solo accenti. In fondo, però, lo scoppio della guerra induce Lukács a cambiare totalmente il suo giudizio sulla cultura tedesca: condanna l’adesione entusiasta di Max Weber e di Gerog Simmel alla guerra – condanna condivisa anche da Bloch. Sostanzialmente Lukács abbandona il progetto di integrazione nella cultura accademica tedesca, comincia a riconsiderare sotto una nuova luce lo sviluppo della cultura tedesca non più come un mondo in cui si potesse affermare una nuova concezione della società e dell’individuo, piuttosto come il laboratorio di sviluppo di una egemonia culturale sull’Europa. La delusione è tale da spingerlo a guardare ad oriente, la direzione del nuovo giorno, per attendere il sorgere di una nuovo progetto sociale. Per adesso ad oriente vede solo la comunità contadina russa, la comunità spirituale e di lavoro.

Gli stessi accenti sono rintracciabili in Spirito dell’utopia, in particolare nel paragrafo “Lineamenti fondamentali del volere artistico” (pp. 23-27). Anche per Bloch, Dostoevskij fornisce una prospettiva etica ed estetica, che divengono una prospettiva politica, «un rivolgimento, una rinascita»[4]. Nel misticismo di Dostoevskij Bloch cerca e trova gli stessi motivi che vi aveva rintracciato Lukács. Però in Lukács scatta una maggiore rilevanza dell’interpretazione etica di Dostoevskij, invece in Bloch c’è la tendenza a restare entro i confini della dimensione estetica. D’altro canto l’intero Spirito dell’utopia presenta questa particolarità e anche la prospettiva politica che ne nasce e che emerge assai nettamente è pregna di esteticità.

Bloch che già prima della Grande Guerra si era dichiarato marxista, rompe con Weber e Simmel a seguito proprio dello scoppio della guerra, della loro adesione incondizionata alla guerra e alla sua fuga in Svizzera. In una lettera a Lukács, Bloch confessa che la guerra lo ha spinto ad abbandonare «il mio precedente umore di fondo, conservatore-prussiano»[5], La condanna di Bloch della guerra si basa sulle motivazioni propagandistiche tedesche, sulla dichiarata volontà di potenza della Germania, sul dispregio del liberalismo e costituzionalismo inglese, sul nazionalismo guglielmino. All’inizio dello Spirito dell’Utopia Bloch così definisce la guerra: «Mai scopo di guerra fu più buio di quella della Germania guglielmina; una soffocante coercizione, proclamata dai mediocri, dai mediocri sopportata; il trionfo dell’imbecillità, protetto dal gendarme acclamato da intellettuali incapaci persino di fare della retorica»[6].

A questo clima di militarismo diffuso, Bloch reagisce ipotizzando la stesura di un’opera di etica incisiva e profonda. Bloch riconosce quanto lui e Lukács «quanto poco noi uomini onesti e poveri, che sappiamo cosa significhi essere “moderni”, quanto poco noi uomini massimamente avanzati siamo ancora impregnati di Gesù»[7]. Scriverà lo Spirito dell’Utopia, che funge da detonatore di sentimenti e stati d’animo fino ad allora “rattenuti” e con essi compaiono i temi della morte e dell’Apocalisse, certamente ispirati alla Guerra, ma intesi utopisticamente come la rifondazione di una nuova comunità.

Quello che però colpisce in entrambi è che la questione della guerra è relegata alla reazione che ebbero gli intellettuali tedeschi, cioè all’adesione entusiastica alla guerra. In entrambi i filosofi manca un’analisi della guerra, delle classi sociali spinte a combattere contro voglia e contro se stesse, cioè operai contro operai, contadini contro contadini, come invece aveva sostenuto Lenin proprio allo scoppio della guerra. Ciò colpisce soprattutto in Bloch, che si dichiarava marxista, mentre Lukács leggeva Marx “con lenti simmeliane e hegeliane”, cioè non era ancora un lettore maturo di Marx. La reazione dei due è sostanzialmente da intellettuali: Bloch pensa ad un’etica e Lukács scrive un saggio, non più pubblicato, sugli intellettuali tedeschi e la guerra. Bloch, almeno, è colpito dalla situazione etica del problema della guerra, Lukács conduce un analisi quasi di sociologia della cultura e rifiuta l’analisi etica:

Le prese di posizione intellettuali rispetto alla guerra, e anche queste devono essere soltanto comprese, non esaminate in base alla loro giustezza; i presupposti etici vengono tirati in ballo solo in quanto contribuiscono alla comprensione di queste prese di posizione; non può pertanto essere qui trattato in modo esauriente — per motivi che non necessitano di essere esposti — ciò che riguarda le loro conseguenze puramente etiche[8].

Lukács non spiega neanche perché le motivazioni etiche favorevoli alla guerra degli intellettuali tedeschi non debbano essere analizzate. Se l’avesse fatto, probabilmente, Lukács si sarebbe sentito eccessivamente coinvolto con la realtà materiale, con la vita e la morte, con il tipo di morte che i soldati incontravano nelle trincee. Ciò che infastidisce Lukács è «un entusiasmo affatto generico, spontaneo, che però manca di ogni contenuto chiaro e positivo»[9] degli intellettuali tedeschi, che tralasciano le motivazioni concrete e pratiche della guerra, che hanno trascinato la Germania in guerra, e si lanciano nell’avventura bellica con l’unico motto di incitamento: “tener duro”.

In fondo gli intellettuali tedeschi hanno reagito come semplici cittadini: sono stati tanto ammaliati dalle sirene del nazionalismo, dalla propaganda favorevole alla guerra, che allo scoppio della guerra si sono fatti prendere dall’entusiasmo che infastidisce Lukács[10]. Essi sentono di vivere un’esperienza assolutamente tedesca, incomunicabile e incomprensibile ad altri popoli; i tedeschi si sentono di travalicare tutti i valori etici esistenti, perché sono attirati dalla sacralità della guerra[11].

L’analisi che fa Lukács mette in luce elementi sostanzialmente irrazionali, gli stessi che denuncerà poco meno di quaranta dopo ne La distruzione della ragione. D’altronde questa sottovalutazione irrazionale i tedeschi lo rivivranno nei confronti della presa del potere del nazismo, a dimostrazione che la volontà di egemonia -potenza la chiamerebbe Nietzsche, ma preferisco egemonia, che è cosa più concreta- affascina il popolo tedesco. D’altronde il nazismo riprese la volontà guglielmina di egemonia sull’Europa. Alla volontà di egemonia si unisce la novità, che affascina gli esseri umani più ingenui, e fra questi anche gli intellettuali tedeschi, come ad esempio Simmel, che Bloch criticò fino ad accusarlo di avere trovato il suo assoluto nella trincea tedesca.

Il nuovo, agognato dagli intellettuali, ha però

solo una determinatezza: deve essere una unità, il superamento di tutte le differenziazioni disgreganti. (..) Deve scomparire l’isolamento, che tutti avvertono in maniera così opprimente di fronte alla guerra, della cultura e dei portatori della cultura, deve sorgere una comunità di tutti. O, più precisamente (e con riferimento ancora più forte alla situazione specifica dell’intellighenzia): deve finire l’individualismo esasperato che non solo separa gli intellettuali come ceto dagli altri gruppi, ma anche separa e isola così nettamente ogni singola, vera personalità da tutte le altre, bisogna far posto a una comunità nuova, solidale[12].

La comunità nazionale che si forma mediante la guerra, riporta gli intellettuali tra il popolo, come era romanticamente auspicato da Fichte nella sua chiamata alla liberazione dall’occupazione napoleonica della Germania. È lo stesso isolamento che Lukács penserà di superare in altro modo.

La nuova comunità nazionale si fonda su un nuovo valore, il cameratismo, che sarà anche uno dei valori fondativi del nazismo e di tanti altri movimenti di estrema destra; ma il cameratismo non è un valore etico, ma una condizione di esistenza: si vive insieme nello stesso spazio e nello stesso tempo e ci si veste con gli stessi vestiti e ci si comporta con le stesse regole. È troppo estrinseco perché Lukács lo accetti, è una moderna forma di barbarie. Lukács è giustamente preoccupato di questa nuova condizione sociale ed umana. In quegli anni, nella Teoria del romanzo, denuncia la rottura della totalità greca, della forma di comunità antica. Ma anche Bloch sostiene in Spirito dell’utopia che vi è frattura tra l’uomo e il mondo. Per Lukács è il romanzo, per Bloch la musica possono ricreare una nuova totalità; le forme artistiche sono mezzi per una filosofia della storia utopica. Ma per Lukács la totalità greca è una dimensione ormai perduta, perché appartiene al passato. Per Bloch è possibile fondare una nuova comunità, è un non-ancora divenuto, in cui l’arte stia al centro della vita, per cui l’artista è più di uno specialista. Bloch è, come ha confessato in una lettera citata prima, legato al mito dell’egemonia spirituale della Germania sull’Europa, egemonia che ha nella filosofia e, soprattutto, nella musica i suoi mezzi di affermazione.

La guerra fa nascere un nuovo tipo umano: l’eroe tedesco di guerra, che non è uguale agli altri, non si sacrifica per gli altri:

l’eroe di questa guerra è. Nel compimento più modesto, più impersonale e meno appariscente possibile del dovere, egli fa ciò che richiede il momento, senza pensare se la sua azione rappresenti oggettivamente qualcosa di decisivo oppure di episodico, senza domandarsi se con essa la sua personalità venga circondata dallo splendore della gloria, sia pure al prezzo della morte[13].

L’eroe tedesco obbedisce senza alcuna responsabilità per i modi e le conseguenze della sua azione. Egli è nel suo atto, è la perfetta realizzazione dell’Io fichtiano. In una lettera a Paul Ernst Lukács scrive: «in quanto il prussiano sentimento del dovere, che riempie ed eleva le nature povere, che le trasforma in eroi»[14]. L’eroe anonimo è una natura povera e l’unico modo di elevarsi sulla propria povertà di spirito, diventare eroe di guerra. A questo eroe anonimo si chiede di possedere e di mettere in atto un miscuglio di eroismo e di disciplina:

è in virtù della disciplina, dell’impegno totale di ogni personalità – per cui occorrono cognizione di causa altamente differenziata tipologicamente e personalmente, attitudine all’intervento, capacità di scorgere e giudicare situazioni completamente nuove – che il coraggio eroico può trasformarsi in azioni (…) astuzia, capacità di adattamento, fredda perseveranza, repressione degli istinti spontaneamente dominanti e dell’aggressività, essere sempre pronti, se non lo si fa, al disprezzo di ogni gloria eroica[15].

Queste sono le caratteristiche della disciplina di partito di cui parlerà qualche anno dopo, quando aderirà al movimento comunista. È l’antiumanità di cui parlerà in Pensiero vissuto. Inoltre la guerra assumerà per Lukács un carattere totale: «La vita veniva assorbita da essa, che si consentisse o dissentisse da tale assorbimento». Inoltre Lukács si ribella all’idea di diventare un criminale, di uccidere altri esseri umani. In Pensiero vissuto scrive:

Si doveva diventare individualmente omicidi, criminali, vittime, ecc. per far in tale maniera continuare ad esistere questo. Io rifiutavo tutto ciò con veemenza, ma questo radicalismo non aveva nulla in comune con umori pacifisti. Non ho mai visto nella violenza come violenza astratta un male in sé antiumano[16].

La guerra porta, dunque, a uno svuotamento dell’umanità dell’uomo; in entrambi i fronti si trovano a combattersi uomini svuotati della loro umanità, perfetti automi al servizio del sistema di produzione capitalistico e del mondo morale ipocrita borghese. La guerra è combattuta da una massa anonima di subordinati o di vittime che combattono con il loro eroismo tipico, cioè anonimo, senza speranza. Fra l’altro si combatte vicini al nemico, che è nelle stesse condizioni, anche lui vittima anonima del sistema dominante. Può avvenire, però, il rovesciamento di questa situazione e Lukács ricorda i numerosi casi di cameratismo fra trincee rivali, con pronto intervento repressivo dei comandi militari, in questo caso concorsi nell’impedire il manifestarsi dell’appartenenza alla genericità umana da parte dei soldati. In fondo i soldati sono proletari comandati da borghesi, la differenza di classe è tra alto e basso e non vi è la differenza nazionale che è orizzontale. I proletari si possono scoprire uguali anche se indossano divise diverse. Lukács coglie questa situazione nonostante che lui stesso ammetta in Pensiero vissuto che non era in grado di cogliere tutta la complessità che la guerra implicava in se stessa. La guerra imponeva prese di posizione nuove, perché

essa svelava il falso, l’inumano di quella statica che allora in me minacciava di bloccarsi in sistema: infatti l’antiumanità come centrale forza motrice della nostra vita, per me inconsapevole nelle mie prime iniziali costruzioni di filosofia, acquistò in esse una figura talmente dominante, imperante su tutto, che era impossibile sfuggire al confronto spirituale. Tutte le forze sociali che dalla prima giovinezza odiavo, e che avevo cercato di distruggere spiritualmente, si univano per produrre la prima guerra universale e insieme universalmente priva di idee, avversa alle idee[17].

L’uniformità tra le classi dominanti, borghesi, europee spiega perché Lukács auspicasse la caduta sia della monarchia dei Romanov, sia quella degli Hohenzollern, sia quella degli Asburgo, ma poi sarebbe subentrata la democrazia capitalistica occidentale, per lui ben peggiore di quelle, perché capace di uccidere Jaurés o di montare il caso Dreyfus. Sia Lukács sia Bloch, nella condanna di tutti i sistemi politici esistenti fino al 1917, manifestano la loro sostanziale estraneità al mondo esistente; il loro chiudersi in un mondo utopico passato (Lukács) o non-ancora-divenuto (Bloch).

L’estraniazione è la condizione dell’uomo moderno e la guerra rappresenta l’apice di tale estraniazione. Il mondo esterno è la prigione dell’individuo moderno, la trincea è il luogo della sua esecuzione a morte. Pur potendo dominare con la ragione la natura e la società, in fondo l’individuo è travolto e sottoposto alle loro leggi e ai loro meccanismi. «L’individuo epico, l’eroe del romanzo, è la creatura di questa estraneità al mondo esterno» afferma Lukács in Teoria del romanzo (p. 80). L’individuo può soltanto rifuggire dal mondo esterno in se stesso, nella sua esperienza esistenziale, ed è quello che tentano di fare i due filosofi, rifugiandosi in Svizzera (Bloch) o nella burocrazia militare (Lukács). È necessaria, però, una guida etica nel divenire della propria soggettività, nel sottrarsi alla convenzionalità borghese e contro l’estraniazione.

Eppure la questione etica non manca di esser presente in Lukács. In una lettera a Paul Ernst, Lukács fa riferimento allo Stato etico hegeliano come una delle forme di potere, un pericolo contro cui confrontarsi con mezzi etici: «Sono un potere anche più irresistibile, giacché contro di essi possiamo lottare solo sul piano della meccanica, mentre qui abbiamo a disposizione mezzi etici (parlo naturalmente in termini filosofici ed etici per me; la questione pratico-politica è molto intricata)»[18].

In un’altra lettera ribadisce che lo Stato può essere una parte del Sé, ma il Sé è astratto. Il Sé non può diventare un’anima, perché esso è un particolare, mentre l’anima è l’universale e si dirige all’intera umanità e non può accettare la guerra, perché essa risponde all’imperativo: “Non uccidere”. Soltanto il politico rivoluzionario può infrangere questo imperativo, non può farlo lo Stato, che è servizio, quindi un particolare, e non è l’universale. Si ripromette di analizzare la questione nel suo libro su Dostoevskij, “nelle parti non estetiche”. La questione centrale dello scambio epistolare tra i due intellettuali è l’anima. Per Lukács deve essere libera da ogni relazione pratica e reale –“spirito oggettivo” o “servizio militare obbligatorio”-, deve poter agire nel vuoto reale, addirittura citando Hebbel -«E se Dio fra me e il mio atto ponesse un peccato, che cosa sono io per sottrarmi ad esso?»- ammette la possibilità del peccato, della violenza, per liberarsi da ogni condizione di esistenza che può spingere al peccato stesso, alla distrazione dalla purezza intellettuale, che, a sua volta, è la condizione per la comunicazione tra anima e anima[19].

Due anni più tardi, sempre riflettendo sulla questione del potere, Lukács scrive a Gustav Radbruch, riconosce che la questione del potere è un tema di storiografia politica e dalla questione del peccato si sposta su quello della “colpa”[20]. Lentamente la questione della guerra si sposta sul campo della politica.


NOTE
Avvertenza: cliccando sul numero della nota che trovate nel testo vi si propone il testo della nota. Cliccando sul numero della nota nelle note vi si propone il testo al quale fa riferimento la nota.
[1] G. Lukács, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, interv. di I. Eörsi e E. Vezer, ed. it. a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 53.
[2] Un suo amico, Gottfried Salomon, definisce “mistico” il mondo spirituale di Lukács in una lettera del 3 luglio 1914, proprio nei giorni in cui la tensione bellica cresceva fino a portare alla guerra (Cfr. G. Lukács, Epistolario 1902-1917, a cura di E. Karadi e E. Fekete, tr. it. A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma, 1984, p. 345). In generale nelle lettere del periodo sono del tutto assenti accenni alla guerra imminente.
[3] Cfr. G. Lukács, Epistolario, cit., lettera del 18 febbraio 1915, p. 351.
[4] E. Bloch, lettera del 22 ottobre 1916, in G. Lukács, Epistolario, cit., p. 387.
[5] E. Bloch, lettera della fine di maggio 1915, in Idem, p. 362.
[6] Idem, p. 4
[7] E. Bloch, lettera del 1 novembre 1916, in Idem, p. 390.
[8] G. Lukács, “Gli intellettuali tedeschi e la guerra”, in Id., La responsabilità sociale del filosofo, tr. it. V. Franco, Fazzi, Lucca, 1989, p. 15. Il saggio fu scritto nella seconda metà del 1915, quindi un anno dopo l’inizio della guerra.
[9] Ibidem.
[10] Lukács ricorda nella sua autobiografia: «Un certo punto mi capitò casualmente tra le mani un libro pubblicato in onore di Simmel, dove c’era una parte delle sue lettere e fra queste una lettera a Marianne [Weber], datata agosto 1914, in cui egli scriveva che se Lukács non era in grado di capire la grandiosità di quella guerra, non c’era niente da fare, perché quella guerra poteva essere capita solo intuitivamente» (G. Lukács, Pensiero vissuto, cit., p. 54). Lo stesso Simmel ammetteva che la guerra non poteva essere compresa con categorie della ragione, ma dell’intuizione, l’intuizione che utilizzò Fichte per i suoi Discorsi alla nazione tedesca, l’intuizione produttiva che permette di cogliere il nuovo nell’esistente. Lukács confessa in Pensiero vissuto (cfr. p. 209) che egli usò il Fichte della “compiuta peccaminosità” per giudicare la guerra, insieme all’Ady di “ugocsa non coronat”, cioè all’atteggiamento di sdegnoso rifiuto della realtà, anche se questo rifiuto non era seguito da un’azione pratica di impegno a modificare la realtà. «Etica di sinistra insieme con gnoseologia di destra: caratteristica del marxismo conseguito in questo periodo» (cfr. p. 209) questo è il suo commento su quell’epoca della sua vita. Anche Bloch fa riferimento a Fichte riguardo alla guerra, proprio in una lettera a Lukács (cfr. lettera di fine maggio 1915, in G. Lukács, Epistolario, cit. p. 363) a conferma del fatto che i due si riferirono a Fichte per comprendere lo scoppio della guerra.
[11] Il superamento dei valori etici esistenti e la sacralità della guerra sono temi che un interlocutore di Lukács, Hans von Eckhardt, presenta al filosofo ungherese in una lettera del 22 ottobre 1914 (Cfr. G. Lukács, Epistolario, cit., pp. 347-350), temi ai quali molto significativamente Lukács non dà alcuna risposta.
[12] G. Lukács, “Gli intellettuali tedeschi e la guerra”, cit., p. 16
[13] Idem, p. 18.
[14] G. Lukács, Epistolario, cit., lettera del 4 maggio 1915, p. 361.
[15] G. Lukács, “Gli intellettuali tedeschi e la guerra”, cit., p. 18.
[16] G. Lukács, Pensiero vissuto, cit., p. 208.
[17] Idem, cit., pp. 207-298.
[18] G. Lukács, Epistolario, cit., lettera del 14 aprile 1915, p. 357.
[19] Cfr. Idem, lettera del 4 maggio 1915, pp. 359-360.
[20] Cfr. Idem, lettera dell’11 marzo 1917, p. 407. In questa stessa lettera Lukács fa riferimento al suo saggio “incompiuto” su “Gli intellettuali tedeschi e la ««guerra”.

Add comment

Submit