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acropolis

Paura 1/3. Filosofia e politica della paura

di Aldo Meccariello

immagine per la quarta di paura“La paura è il dolore provocato dalla rappresentazione di un male imminente” (Aristotele)

1. Prologo

«Qualche volta bisogna cercare di sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato. Parlerò sia pure brevemente del presente, e perfino un poco del futuro. Ma ci arriverò partendo da lontano».[1]

Guardare di sbieco il presente o guardarlo a distanza è forse questa la chiave che prendiamo a prestito dallo storico C. Ginzburg per leggere questo nostro tempo pandemico, difficile, inatteso, segnato dalla tirannide occulta e silenziosa del Covid-19. Se c’è un sentire diffuso oggi, questi è la paura, il male oscuro, insidioso da cui tutti vorremo stare lontani, l’emozione arcaica che spinge l’essere umano ad agire d’istinto dinanzi a una situazione di pericolo per badare alla sua sopravvivenza.

Per l’umanità stanno aumentando i rischi di catastrofe: prima le guerre di ieri e di oggi, poi il devastante inquinamento ambientale, ora le pandemie. Dinanzi a questi rischi e ai connaturati danni irreversibili, regna la paura. Il Covid-19 ha provocato la più grave crisi economica, politica, sociale e sanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale. La percezione è che l’umanità sia ri-precipitata davvero in tempi bui.[2]

La paura della morte, la più temibile delle paure e sempre incombente, è strettamente connessa alla paura delle guerre, che assomma in sé tutte le insicurezze e le minacce di annientamento e di cancellazione dei legami umani. Capita sempre di aver paura o aver avuto paura nella vita. Timore, insicurezza, angoscia, terrore e rischio, sono i termini che concorrono a definire la modalità perturbante della nostra esperienza.

Ma che cos’è la paura? La domanda ci turba, perché nomina una situazione che ci minaccia, un evento atavico che ci accompagna lungo il corso della vita e che puntella l’esistenza di ognuno come una specie di seconda natura, un demone invisibile, un’ombra. L’incertezza o il non sapere che cosa ci potrà accadere, questa è la paura. Nell’introduzione della Prima Giornata del Decameron, il Boccaccio, descrive la “pestifera mortalità” scoppiata a Firenze nel 1348:

«Dico dunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio pervenuti al numero di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in un altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata […]. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a maschi e alle femmine parimente o nella anguinaia e sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come un uovo, e alcune più e altre meno, le quali i volgari nominavano gavaccioli. E delle due parti del corpo predette infra breve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade a cui minute e spesse. E come il gavacciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a cui venieno […]. Nacque la paura»[3].

Dalla terribile pandemia del 1300, Boccaccio trae spunto per scrivere il suo Decamerone che per il lettore moderno incalzato dal coronavirus appare un viatico pandemico. Lo scrittore di Certaldo, da par suo, ci spiega anche com’è nata la paura nel pieno infuriare della mortifera pestilenza. Oggi la paura ai tempi del coronavirus dilaga e riapre le voragini della fragilità umana ed è diversa sia dalle paure interne (sin da piccoli c’è la paura del buio o dello stare soli, in età adulta c’è la paura della malattia o della morte) sia dalle paure esterne (che sono globali di fronte allo spettro della perdita del mondo o dinanzi a potenziali scenari apocalittici e alle più svariate sciagure come guerre o epidemie) perché mescola il pericolo con l’impotenza a difendersi.

L’uomo prova paura (come tutti gli animali) fin dai primordi della sua vita, a causa di fenomeni naturali come i fulmini, gli uragani, i terremoti, i maremoti, le eruzioni vulcaniche e altri eventi catastrofici. E sarebbe stata la paura dovuta a questi imprevedibili eventi che lo avrebbe indotto a ripararsi nei rifugi naturali, a usare il fuoco, a fabbricare utensili di difesa, a uccidere i nemici. Così scrive il sociologo Z. Bauman:[4]

Di là della generica affermazione che la paura è una tangibile sensazione/emozione che irrompe sempre nelle situazioni di pericolo (vero o presunto) in modo rapido e improvviso, Bauman evidenza il punto di vista dell’etologo che descrive la paura come un ricco repertorio di reazioni primordiali che l’uomo condivide con gli animali di fronte a una minaccia per la vita. A questa paura primaria si affianca una paura secondaria sedimentata nel tempo, che orienta in maniera indelebile tutto il nostro comportamento. Di fronte alla paura del Covid-19, nello spazio di pochi mesi abbiamo cambiato abitudini di vita, abbiamo consumato molte ore in casa che è diventata tana e rifugio per la nostra sopravvivenza o per la nostra salvezza. Ci siamo aggrappati alle mura domestiche per proteggere il nostro corpo dal contagio. Dinanzi alla paura della morte per contagio, ci siamo affidati alle misure del governo, sperimentando la situazione hobbesiana in cui l’individuo aliena ogni diritto a un sovrano assoluto.

La paura non cessa quando ci sentiamo sicuri, poiché essa si alimenta anche di suggestione e immaginazione. Per contrastare la paura non bisogna chiudersi nelle proprie ansie e angosce. Talvolta l’eccessiva voglia di sicurezza spegne la leggerezza dell’essere, il desiderio e l’entusiasmo perché ci scopre vulnerabili.

 

2. Grand Hotel Paura

Proviamo a immaginare il nostro mondo pulsionale similmente a una magnifica suite denominata Grand Hotel Paura[5] da cui facciamo fatica a uscire o a varcarne la soglia. La nostra vita è tutt’altro che priva di paure, e il contesto liquido-moderno in cui essa è immersa è tutt’altro che esente da pericoli e minacce. L’esistenza umana è percorsa da una lotta contro la paura. Essa può essere vista soprattutto come ricerca e verifica continua di stratagemmi ed espedienti che ci consentano di scongiurare, anche se solo temporaneamente, l’arrivo di pericoli imminenti che siano catastrofi naturali o umane.

L’umanità del terzo millennio probabilmente dovrà abituarsi a convivere con insicurezze, rischi e crisi di ogni genere: desertificazione, distruzione dell’ecosistema, virus letali che infestano il pianeta. Il futuro sembra profilarsi carico d’incognite soprattutto per le nuove generazioni. L’emergenza pandemica di questi tempi continua a produrre paure irrazionali, frammentazioni sociali che mettono in crisi i valori essenziali della collettività. Il sociologo U. Beck aveva parlato di una società del rischio[6] che segnerebbe l’inizio di una seconda modernità: «Come eliminare la paura quando non siamo in grado di eliminare le sue cause? Come vivere sul vulcano della civiltà senza dimenticarlo volutamente, ma anche senza essere soffocati dalle paure prima ancora che dai suoi vapori?».[7]

 

3. Cambiamenti epocali: G. Anders

“Siamo sul vulcano della civiltà”. Una metafora potente che sarebbe piaciuta al nostro Leopardi ma che è stata ampiamente argomentata da G. Anders, il pensatore più estremo e più lucido del ’900, il filosofo dell’esagerazione, il creatore del panico come è stato chiamato dai suoi innumerevoli detrattori. Nella sua opera L’uomo è antiquato, il filosofo tedesco indica un nome e una data d’inizio: Hiroshima, agosto 1945, l’esplosione della prima bomba atomica. Qui si apre il vero mutamento d’epoca, e si spalancano le porte dell’Apocalisse che l’umanità angosciata ancora non vuole vedere, inibita dal diniego e dall’autoinganno. “Creare panico” per denunciare il rischio di nuove catastrofi atomiche e/o naturali: questo l’imperativo andersiano, la sua ossessione etica.

Solo la paura commisurata alle conseguenze tragiche di una simile eventualità è in grado di far aprire gli occhi a un mondo abitato da uomini sempre più apatici, incapaci di leggere i segni di una catastrofe annunciata. Scrive Anders: «L’epoca del mutamento d’epoca è finita dal 1945. Ormai viviamo in un’era che non è più un’epoca che ne precede altre ma una «scadenza», nel corso della quale il nostro essere non è più altro che un «esserci-ancora-appena».[8]

Ma il desiderio di onnipotenza umana è una dannazione, più che una liberazione, per gli uomini dell’era atomica che vogliono ritornare a provare sentimenti umani. Ciò che rende irrealizzabile questo sogno del Titano-Uomo è proprio l’irrevocabilità delle nostre conoscenze tecnico-scientifiche poiché «noi non viviamo nell’era del materialismo […] ma nella seconda era platonica […] Nel 1945 non siamo entrati nell’era atomica perché avevamo fabbricato tre bombe atomiche, ma perché possedevamo la ricetta non fisica per realizzarne innumerevoli altre».[9]

Rispetto alle idee del cielo di Platone, il numero delle idee attuali è infinito e infinitamente crescente a causa dell’inflazione d’invenzioni. L’onnipotenza è diventata pericolosa da quando si è trasferita nelle nostre mani. Non esiste ancora una piena consapevolezza dell’imminenza di un’Apocalisse che può cancellare l’uomo dalla faccia della terra. Al posto della proposizione «Tutti gli uomini sono mortali» è subentrata oggi la proposizione: «L’umanità intera è eliminabile».[10]

Se le epoche precedenti scomparivano per fare posto ad altre, questa possibilità è preclusa all’epoca contemporanea che si presenta come epoca della fine. «Siamo i primi Titani, perciò siamo anche i primi nani o pigmei − o come altro ci si voglia chiamare, noi esseri a cui è posta una scadenza collettiva – che non siamo più mortali come individui, ma come gruppo; la cui esistenza è sottoposta a revoca».[11]

La creazione della bomba nucleare è lo spettro che Anders evoca in alcune dense pagine de L’uomo è antiquato. L’orrore di Hiroshima cambia i connotati della condizione umana, trasforma il problema morale fondamentale. Alla domanda «Come dobbiamo vivere?» si è sostituita quella: «Vivremo ancora?». All’uomo senza mondo si sostituirà un mondo senza uomo. Il futuro è già finito.[12] Della storia non c’è più traccia. Il motivo che restituisce il senso della sua opera è la visione apocalittica di un «mondo senza uomo».

Se, infatti, la prima riflessione andersiana era indirizzata allo scenario di estraniazione e di alienazione dell’uomo moderno in un «mondo-che-appartiene-ad-altri», la consapevolezza dell’esistenza dei nuovi e sofisticati mezzi di distruzione di cui l’umanità dispone, dischiude un orizzonte ontologico ben diverso: quello di un paesaggio spettrale. Con l’esautorazione dell’uomo e sotto il dominio della tecnica, l’orizzonte si restringe dopo la storia e prima dell’apocalisse in quello di una “scadenza”, di un “termine” che conosce ormai solo la durata incerta, nessun tempo regolato. La diagnosi della fine della storia intende dunque sia il tempo della fine nel senso di una post-histoire sia la fine dei tempi cioè l’annientamento dell’uomo e del mondo.

Ѐ dunque la consapevolezza della contingenza non solo della nostra vita individuale, ma di quella dell’umanità e del mondo intero, che ci può insegnare ad avere paura. Il tempo della fine (Endzeit) sembra sempre più vicino. Al contrario del teologo cristiano, che anelava all’Apocalisse come liberazione e inizio di un nuovo mondo, il pensatore tedesco si propone come scopo quello di “spostare” questa fine, prolungando il più possibile quella che rimane per lui “l’ultima epoca”. Solo la voracità dell’homo faber e poi dell’homo creator ha prodotto squilibri ecosistemici, e dissesti globali innescando una spirale distruttiva e autodistruttiva.

Analizzando questa scissione tra l’artefice e il mondo degli artefatti, il pensatore tedesco ridescrive la conditio humana plasmata e dominata dal dominio della tecnica attraverso un processo di metamorfosi da homo faber, a homo creator e a homo materia. Se lhomo faber è quello della nascita della tecnica, è l’uomo che si congeda dagli dei, «con la denominazione di homo creator intendo il fatto che noi siamo capaci, o meglio, che ci siamo resi capaci, di generare prodotti dalla natura, che non fanno parte (come la casa costruita con il legno) della categoria dei “prodotti culturali”, ma della natura stessa».[13]

In altri termini, l’uomo è capace di produrre physis per mezzo della techne, vale a dire prodotti naturali, vere e proprie «seconde nature». Basti pensare all’esempio del Plutonio, introdotto in natura come novum dall’uomo «come il veleno più terribile che c’è ora nella natura». Tuttavia la metamorfosi più mostruosa dell’umano è il passaggio da homo creator a homo materia: «La trasformazione dell’uomo in materia prima è invece cominciata (a prescindere dai tempi dei cannibali) ad Auschwitz. È noto che dai cadaveri degli internati dei lager (che, a loro volta, erano già dei prodotti) […] si estraevano, questo è noto, i capelli e i denti d’oro. […] Ho visto con i miei occhi sacchetti pieni di denti. […]».[14]

Di fatto si può dire che in questi casi l’homo creator e l’homo materia vengono a coincidere, dove però, ovviamente, creator e materia non coincidono mai a livello personale ma l’uno funge da creator e l’altro da materia. L’“homo materia” è creare da esseri viventi altri esseri viventi: inseminazione artificiale e clonazione della vita in provetta, sono le enormi possibilità della genetica che costituiscono uno scacco per l’essere umano e per la sua dignità. La creazione di nuovi generi e nuove specie ha innescato un processo inarrestabile che sta rendendo l’uomo un essere superfluo. Oggi più che mai gli esseri umani devono prendere consapevolezza del pericolo, unire le proprie forze e fronteggiare vecchie e nuove paure globali.

Le nuove forme di paura sono anzitutto la conseguenza degli effetti devastanti che la globalizzazione economica ha avuto sui cosiddetti paesi in via di sviluppo e in modo tutto particolare sulle popolazioni poverissime del pianeta. Gli squilibri economico-sociali di vaste aree del pianeta, la de-regolazione dei mercati finanziari, le lobbies militari-industriali, lo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali e la distruzione dell’ambiente, stanno provocando l’eclisse irreversibile della civiltà.

Il Covid-19, per esempio, ha sfondato la barriera quasi invalicabile tra specie diverse ed è diventato, in tempi rapidissimi, tra i virus più temuti del mondo. La morte avanza inflessibile minuto dopo minuto e la paura di morire e di veder morire i propri cari è il pane quotidiano di una buona parte dell’umanità che vive nell’insicurezza. Ma sono molti coloro che alla fine preferiscono rinunciare alla vita: la morte fa meno paura. L’umanità deve ora prendere coscienza della sua vulnerabilità e lo può fare esercitando la libertà di provare paura. Ancora una volta Anders lancia un’ennesima provocazione:.[15]

In gioco non è più solo la libertà ma la stessa sopravvivenza del genere umano. Solo se riattiviamo la paura possiamo riprendere in mano qualche chance di futuro e sottrarci a quei meccanismi anestetizzanti che ci hanno portato alla piena cecità di fronte all’Apocalisse.[16] Se la paura nel modello hobbesiano genera la comunità politica a cui gli individui si affidano per la propria sopravvivenza, per Anders la paura provoca il risveglio per l’umanità dinanzi alla soglia dell’abisso. Sopravvivere è il nuovo imperativo categorico per la politica del futuro. Il compito preliminare, però, è re-imparare ad avere paura: «Il tetto che sta per crollare diventa il nostro tetto. Come morituri ora siamo veramente noi. Per la prima volta lo siamo effettivamente».[17]

 

4. Responsabilità ed euristica della paura: H. Jonas

A questo punto è quanto mai utile approfondire l’apporto di H. Jonas col suo Prinzip Verantwortung (Principio responsabilità, 1979), un compendio filosofico-antropologico sulla paura che si colloca come un principio equidistante da quello blochiano di speranza e quello andersiano di disperazione, e si attesta nella difesa del già-sempre, perché alla luce delle nuove e imprevedibili conquiste della tecnica, occorre mantenere i nervi saldi e assumere la responsabilità come un nuovo obbligo e un nuovo imperativo categorico: si tratta di concepire una filosofia alternativa, un nuovo Tractatus technologico-ethicus, che eviti sia il principio speranza altamente problematico[18], perché proietta troppo nel futuro le attese finendo di dimenticare il presente sia il principio disperazione che un principio di radicale rassegnazione.

Anche per Jonas, come per Anders, va riattivata la paura a cui si deve riconoscere l’importanza strategica nel predisporre gli uomini all’imperativo ineludibile della sopravvivenza. Se quindi la novità del nostro agire esige un’etica nuova di estesa responsabilità, proporzionata alla portata del nostro potere, essa richiede, proprio in nome di quella responsabilità, anche un nuovo genere di umiltà: un’umiltà indotta, a differenza che nel passato, non dalla limitatezza, ma dalla grandezza abnorme del nostro potere di fare rispetto al nostro potere di prevedere, valutare e giudicare.[19]

Dinanzi al pericolo che scaturisce dalle smisurate dimensioni della Tecnica, osserva il filosofo tedesco, s’impone in primo luogo un atteggiamento di umiltà e in secondo luogo un dovere che spinge «in prima istanza verso un’etica della conservazione, della salvaguarda, della prevenzione e non del progresso e della perfezione»[20]. Pertanto, il principio responsabilità non potrà che essere un imperativo metafisico, trascendentale, non motivato da contingenze di ordine immediato. Jonas elabora un’etica globale, oltre gli steccati e recinti delle etiche tradizionali, che pone al centro la questione della tecnica e le tematiche ambientali ad essa connesse.

Il nuovo imperativo etico a differenza di quello kantiano, evoca «una coerenza, di tipo metafisico e non logico, non dell’atto in sé, ma dei suoi “effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire”, e l’“universalizzazione” non è più ipotetica (“se qualcuno facesse così…”), «al contrario, le azioni sottoposte al nuovo imperativo, ossia le azioni della collettività, si universalizzano di fatto nella misura in cui hanno successo».[21] Il suo orizzonte resta, però, kantiano perché la reale autenticità della vita risiede propriamente nell’intreccio di responsabilità e libertà di cui l’uomo deve farsi carico per garantire la sopravvivenza alle generazioni future. La responsabilità assurge a modalità fondamentale della vita etica per stabilire un contatto con le generazioni future già nel presente.

Il problema è che il pericolo non investe più esclusivamente la nostra autoconservazione, ma il destino delle generazioni future. Jonas invoca un’euristica della paura[22] che significa saper prefigurare il pericolo attraverso un pensiero anticipante: la paura per Jonas non è un’emozione, intesa come reazione corporea e psicologica irriflessa, ma una forma di pensiero valutativo che compone la responsabilità. La paura, infatti, non è solo la forza positiva che induce all’azione, ma la condizione conoscitiva dell’oggetto della nostra responsabilità; è ciò che spinge a interrogarci sul significato di “umanità” e sulle condizioni di vita che noi vorremmo realizzare per l’intera umanità.

«Non permettere che la paura distolga dall’agire, ma piuttosto sentirsi responsabili in anticipo per l’ignoto costituisce […] proprio una condizione della responsabilità dell’agire […] Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità, non intendiamo la paura che dissuade dall’azione, ma quella che esorta a compierla; intendiamo la paura per l’oggetto della responsabilità».[23]

Le nuove forme e le nuove dimensioni dell’agire esigono un’etica della previsione e della responsabilità in qualche modo proporzionale ai vertiginosi sviluppi della tecnica.[24] Il primo comandamento è l’esistenza dell’umanità di fronte alla triplice la natura del rischio: in primo luogo la catastrofe nucleare; in secondo luogo il collasso ecologico; in terzo luogo il rischio di una manipolazione genetica che può condurre a una perdita dell’unità e dell’integrità del genere umano.

Se confrontiamo queste schematiche considerazioni sul capolavoro di Jonas con la posizione andersiana, anche qui la lontananza tra i due autori è nettissima benché vi siano tratti comuni, come la condivisione del sentimento della paura e della sua percezione. Non avere paura della paura è il filo conduttore che lega questi due grandi pensatori tedeschi, G. Anders e H. Jonas, anche se seguono due direttrici diverse: la paura per Anders è lo strumento della riattivazione del sentire e della ricomposizione del dislivello prometeico, mentre per Jonas l’euristica della paura è uno strumento di ricerca che permette agli uomini di scoprire, attraverso la minaccia di uno stravolgimento dell’identità umana, il bene da salvaguardare: « […] soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare; abbiamo bisogno della minaccia dell’identità umana – e di forme assolutamente specifiche di minaccia – per accertarci angosciati della reale identità dell’uomo».[25] Ad esempio, se non vi fosse l’omicidio, non conosceremmo la sacralità della vita.

Ma per entrambi l’etica diviene impegno personale nella promozione della sopravvivenza; diviene essenzialmente mobilitazione individuale e sociale per una più attenta valutazione del senso e della portata dello sviluppo tecnologico, e perciò impegno per il contenimento di una potenza che rischia di dissolvere l’essere umano e l’intera natura.

 

5. Il potere della paura: Hobbes, Foucault, Canetti

“Tu hai paura di tutto ciò che non viene dopo la morte” (Elias Canetti)

Hobbes. Nei tempi del lockdown, la paura ha regnato sovrana, e quanti dibattiti politici, culturali, ideologici che hanno imperversato sui media e sui giornali non hanno chiamato per il loro nome la paura generalizzata che la pandemia aveva innescato. Il virus onnipotente e invisibile ha bussato alle porte serrate delle abitazioni e le mura domestiche hanno protetto dal contagio e dal pericolo. Lo stato di paura si è diffuso nelle coscienze degli individui tramutandosi in una fobia collettiva. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo.

Per Hobbes, la salute pubblica è stata appaltata al Leviatano, la creatura artificiale che si erge di fronte a coloro che con il loro patto l’hanno creato − coloro di cui è fatto − come un oggetto che incute soggezione e impone obblighi: sorveglianza, quarantena, controllo dei movimenti, vaccinazioni obbligatorie, uso sistematico delle mascherine e distanziamento sociale sono stati e sono i dispositivi per la gestione dell’emergenza di cui le autorità pubbliche hanno fatto uso in abbondanza.

Si è profilata la nuova normalità in nome della salute pubblica e della sicurezza; ciascun cittadino è chiamato alla responsabilità individuale e alla responsabilità per gli altri con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita. Le macchine sostituiscano ogni contatto − ogni contagio − fra gli esseri umani. Lo stato d’emergenza porta con sé una potenziale sospensione della democrazia.

«Attraverso questa autorità di cui è stato investito da ogni singolo individuo nello Stato, esso [il Leviatano] è in grado di usare a tal punto il potere e la forza che gli sono stati conferiti, da piegare col terrore la volontà di tutti e fare in modo di indirizzare la volontà di ognuno al mantenimento della pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni».[26]

Le riflessioni di Hobbes sulla paura si concentrano in quest’opera che segna la nascita della filosofia politica moderna. Lo Stato moderno emerge da un patto nato dalla paura perché gli uomini temendo di sopraffarsi reciprocamente trovano un accordo, stipulano un pactum per delegare il loro potere a un’autorità superiore che garantisca pace e sicurezza. Nell’Europa lacerata dalle guerre di religione, nell’Inghilterra dilaniata dai contrasti tra sovrano e Parlamento, la pace appariva a Hobbes il bene supremo, meritevole di qualsiasi sacrificio. L’aggressione genera prima la paura, poi l’impulso a uscire dalla paura attraverso un patto basato sulla rinuncia di ciascun individuo ai propri diritti naturali. La vita associata trae così la propria legittimazione dalla paura che si rivela fondativa di un mondo umano sostenibile.

Hobbes non parla del terrore che la tradizione poneva alla base dei regimi dispotici, ma di quella sana paura che salda l’istinto di autoconservazione alla società di sicurezza attraverso un calcolo razionale e utilitaristico tanto elementare quanto efficace: non ci può essere sopravvivenza senza sicurezza. Se proviamo invece a rovesciare il ragionamento: si potrebbe configurare sulle tracce del pensatore inglese uno scenario distopico molto simile a quelli descritti da tanta letteratura novecentesca in cui gli individui tiranneggiati da un potere totalitario sono controllati in ogni momento della loro giornata.

«Ma qualcuno potrebbe sostenere che Hobbes ci aiuta a immaginare non solo il presente ma il futuro: un futuro remoto, non inevitabile, e tuttavia forse non impossibile. Supponiamo che la degradazione dell’ambiente aumenti fino a raggiungere livelli oggi impensabili. L’inquinamento di aria, acqua e terra finirebbe col minacciare la sopravvivenza di molte specie animali, compresa quella denominata Homo sapiens sapiens. A questo punto un controllo globale, capillare sul mondo e sui suoi abitanti diventerebbe inevitabile. La sopravvivenza del genere umano imporrebbe un patto simile a quello postulato da Hobbes: gli individui rinuncerebbero alle proprie libertà in favore di un super-Stato oppressivo, di un Leviatano infinitamente più potente di quelli passati. La catena sociale stringerebbe i mortali in un nodo ferreo, non più contro 1’«empia natura», come scriveva Leopardi nella Ginestra, ma per soccorrere una natura fragile, guasta, vulnerata. Un futuro ipotetico, che speriamo non si verifichi mai».[27]

Non prometterebbe nulla di buono, come rileva C. Ginzburg, questo futuro ipotetico. Semmai, oggi in piena pandemia, vale la potente intuizione hobbesiana che siamo tutti uguali nella debolezza e nella vulnerabilità. E se la paura fosse la precondizione di un’etica del futuro che sappia congedarsi dagli effetti nefasti della mitologia della potenza dell’uomo prometeico?

Foucault. Qui è interessante far interagire il paradigma hobbesiano del potere con quello foucaultiano. In un passo da Sorvegliare e punire, leggiamo: «La peste come forma, insieme reale e immaginaria, del disordine ha come correlativo medico e politico la disciplina. Dietro i dispositivi disciplinari si legge l’ossessione dei “contagi”, della peste, delle rivolte, dei crimini, del vagabondaggio, delle diserzioni, delle persone che appaiono e scompaiono, vivono e muoiono nel disordine».[28]

La disciplina è rimedio e antidoto all’epidemia come disordine reale e simbolico perché risponde a due esigenze: massima osservanza della legge e massima capacità di rendimento. Efficacia ed efficienza sono le due caratteristiche del modello disciplinare che è l’espressione del potere nello svolgimento della sua introiezione sociale. Lo Stato è pensato come un Dio che è ovunque e ti vede, ma non si lascia intra-vedere. Lo Stato è pensato come un Dio che è ovunque e ti vede, ma non si lascia intra-vedere.

Il sistema del potere, simboleggiato nell’agghiacciante Panopticon, è pensato come invasivo e pervasivo contemporaneamente. Per Foucault invece, la salute pubblica è appaltata allo stato disciplinare. Il processo porta a una nuova visione dell’individuo nello Stato: non più persona, nel bene e nel male ma complesso di comportamenti. Lo Stato nella sua organizzazione è pensato da Foucault in termini di sicurezza e ha la necessità di porre un codice di comportamento fitto e uniforme in modo tale che possa più facilmente organizzare il suo stesso potere. In questo modo bisogna effettivamente porre una “uguaglianza” tra tutti gli uomini[29] per una sorveglianza capillare che permette di qualificare, classificare e punire: sicurezza e sopravvivenza, paura e morte entrano a far parte dell’orizzonte del pensiero politico. Tutto questo lo viviamo ancora oggi.

Rispetto a Hobbes, il pensatore francese procede a uno slittamento della società e dello stato verso un patto di sicurezza che non è privo di costi in termini di potere e di diritti né privo di possibili contestazioni. Lo spazio politico che si apre è preoccupante perché in gioco torna prepotentemente, assieme a quella della sicurezza, la questione della paura. Non si può non notare l’attualità di queste affermazioni che trovano conferma nella coppia sicurezza-paura[30] propulsiva nella formazione delle decisioni pubbliche in tempi di pandemia.

La tematica del potere costituisce il filo rosso degli scritti foucaultiani degli anni Settanta: il potere non è qualcosa che si possiede, non è un bene, non è subito o esercitato in assoluto da qualcuno. Il potere è un insieme di disposizioni, di manovre, di tecniche che modellano corpi, sessualità, famiglie, legami sociali. Secondo i canoni della governamentalità foucaultiana, il potere dello stato moderno è il lascito ereditario dell’antico potere pastorale della Chiesa: potere di conduzione e di cura delle anime disperse e impaurite, da guidare e dirigere.

È proprio lo strutturale rapporto antinomico tra bisogno di sicurezza ed esercizio della libertà a tracciare l’orizzonte moderno della politica: nessuna prestazione di sicurezza collettiva potrà mai efficacemente adempiersi in assenza di adeguate restrizioni delle libertà individuali. Lo spettro della pandemia ha messo in atto dispositivi di sorveglianza, soprattutto, nel periodo del lockdown, e di controllo della vita dei singoli cittadini. La lettura foucaultiana dell’epidemia è lucidamente analizzata da G. Astone in questo passo:

«Corpo e casa, in quanto soglie fondamentali per la biopolitica contemporanea, ci permettono di accennare a un discorso filosofico antropocenico, e dunque epocale, di natura radicalmente diversa rispetto al contesto ambientalista e tecnico-scientifico. Antropocenica è la dimensione politica dell’esistenza contemporanea, un’esistenza-in-emergenza disposta potenzialmente a tutto per “salvarsi”. È lecito chiedersi, a partire da queste due soglie (da cui si parla, mediante una voce, e da cui si scrive, mediante un computer), che stile di vita potrebbero adottare gli esseri umani in società ad alveare: intrappolati in delle arnie artificiali, il volo/movimento è consentito solo per delle funzioni operose e le vie del cielo sono pattugliate 24 ore su 24. Il movimento è ridotto all’essenziale e l’essenziale è, in fin dei conti, la produzione. La sedentarietà coatta che un’epidemia influenzale di massa consente d’imporre, da questo punto di vista, non fa altro che realizzare una condizione latente di atomizzazione della vita e sclerotizzazione del movimento: la selezione fra ciò che è lecito a un corpo, in uno stato d’emergenza, e ciò che non lo è sembrerebbe aprire a paradigma estrattivo del potere, che divide gli spazi-tempi sociali irrinunciabili in cluster produttivi e capsule di consumo, individuando nel ‘tra-‘ del transito ciò che andrà sempre più sacrificato e da sottrarre alla scelta».[31]

La sicurezza, come aveva intuito Foucault, è diventata la questione centrale e paradossale delle società contemporanee: le nostre vanno diventando sempre più società di sicurezza e, di conseguenza, di prevenzione. Ma essere protetti non significa anche essere minacciati?[32]

− Canetti. «Non è che gli uomini non vedano nulla dinanzi a sé. Ma il futuro si è spaccato in due; sarà così, oppure così; da una parte tutta la paura, dall’altra tutta la speranza. Su questo non si ha più modo di pesare, neppure dentro di noi. Futuro dalla lingua biforcuta, Pizia nuovamente in onore».[33]

Non c’è pagina o saggio o racconto di Elias Canetti (1905-1994) che non si misuri col corpo e con le sue paure. Canetti è un autentico pensatore della paura che ha diagnosticato il più radicale disagio della civiltà sul versante antropologico. L’uomo è dapprima un corpo che mangia, che dorme, che è in piedi, che giace, che è in quiete o in movimento, che, infine, si dissolve. È per mezzo del suo corpo che appare e scompare al mondo e all’universo. Per questo motivo, dietro l’esistenza di ogni essere umano si nasconde la paura e l’orrore della morte che provoca il processo di invecchiamento e di putrefazione del corpo.

Per allontanare questa paura della morte, il singolo, minacciato nella sua identità, tende a creare margini di sicurezza tra il proprio corpo e quello degli altri esseri viventi visti come portatori di pericolo e di contagio. Tale atteggiamento è il segno tangibile della sopravvivenza che è la situazione-limite della condizione umana, la sua cifra biologica. L’uomo è terribilmente solo dinanzi alla paura della morte, il suo agire ruota e deriva dall’inutile tentativo di schivarla.

«Dallo sforzo dei singoli per allontanare da sé la morte è sorta la mostruosa struttura del potere. Si richiesero innumerevoli morti perché continuasse la vita di un singolo. La confusione che ebbe origine allora si chiama storia. Qui dovrebbe cominciare il vero illuminismo, che fonda il diritto di ogni singolo a far continuare la sua vita».[34]

Afferrare alla gola la paura umana è il grande tema della multiforme opera canettiana. «Già nelle forme di vita inferiori quel momento ha qualcosa di decisivo. Vi sono contenuti i più antichi terrori: lo riviviamo nei sogni, lo evochiamo con la fantasia, tutta la nostra vita nella civiltà altro non è che un solo sforzo per evitarlo»[35]; la paura ispirata dall’eventuale contatto con l’ignoto è inscritta così profondamente nel bilancio emotivo di ciascun uomo da non abbandonarlo mai. Ogni essere umano è letteralmente assalito dal timore di entrare in contatto con ciò che non conosce: il virus ridisegna le nozioni di paura e identità che sembrano quasi sovrapporsi tra loro.

«Fra tutte le sciagure subite fino a oggi dall’umanità, le grandi epidemie hanno lasciato di sé un ricordo singolarmente vivo. Esse agiscono con la fulmineità delle catastrofi naturali […] Un’epidemia di peste ha invece effetto cumulativo: dapprima solo pochi ne sono colpiti; poi i casi si moltiplicano; dappertutto si vedono dei morti, ed ecco che i morti sono più numerosi dei vivi».[36]

L’epidemia provoca un diffuso sentimento di paura della morte. Paura e morte: il binomio che lo scrittore trae dallo studio avido dell’opera di Thomas Hobbes. Del pensatore inglese, Canetti diceva infatti che egli sapeva che “cosa è la paura”. Il suo “calcolo” la svelava. «Tutti coloro che sono venuti dopo (Hobbes) – continua Canetti – e che provenivano dalla meccanica e dalla geometria, non hanno fatto che prescindere dalla paura; così questa è dovuta di nuovo rifluire nell’oscurità, dove continua a operare, indisturbata e innominata».[37]

«Hobbes sta veramente da solo come pensatore. Vi sono poche correnti psicologiche dei secoli seguenti, delle quali non potrebbe essere rivendicato come precursore. Egli ha conosciuto, come ho già detto, la grande paura, ed è riuscito a esprimerla con la stessa totale chiarezza che usava con tutte le altre cose che trattava. La sua religiosa empietà è stata una fortuna senza pari; la sua paura non si è lasciata neutralizzare da facili promesse».[38]

Hobbes e Canetti sono i soli pensatori dell’Occidente che hanno penetrato gli abissi della paura, sondandone anfratti e fondali e mimandone la lingua. Se per Hobbes, essa agisce come passione societaria capace di promuovere la vita e di fondare, in alleanza con la legge naturale, quella convivenza pacifica e duratura che ne è l’indispensabile condizione, per Canetti la paura vieta di entrare in contatto con gli altri che solo la massa riesce a capovolgere nel suo opposto. La paura caotica scatenata dalla pandemia[39] si rivela così nel suo volto estremo, che è quello di gestire la vita umana fino alla soglia inevitabile della morte.


NOTE
[1] C. Ginzburg, Paura reverenza terrore, Adelphi, Milano 2015, p. 53.
[2] H. Arendt, L’umanità in tempi bui, Cortina, Milano 2006.
[3] G. Boccaccio, Decameron, Rizzoli, Milano 2013, p. 161.
[4] Z. BAUMAN, Paura liquida, Laterza, Bari 2017, p. 5.
[5] L’espressione mima la definizione di G. Lukacs, Grand Hotel Abisso. Il filosofo ungherese giudicava i francofortesi residenti in una lussuosa suite del metaforico Grand Hotel Abyss, nel quale potevano dedicarsi a contemplare l’abisso che si apriva sotto di loro, la crisi della modernità che stavano attivamente accelerando, seduti in comode poltrone “tra pasti eccellenti e intrattenimenti artistici”.
[6] U. Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2005.
[7] Ibid, p. 100.
[8] G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. 2, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 14.
[9] Ibid., p. 30.
[10] Ibid., vol. 1, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 229.
[11] Ibid., p. 225.
[12] G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. 2, cit., p. 257.
[13] Ibid., p. 15.
[14] Ibid, p. 16.
[15] G. Anders, L’uomo è antiquato, vol.1, cit., p. 250.
[16] Cfr. E. Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp.187-219.
[17] Anders, L’uomo è antiquato, vol.1, cit., p.288.
[18] H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2019, p. 278. Cfr. anche p. 281. Il capitolo VI del libro si trova alle pp. 225-291 e meriterebbe di essere analizzato più attentamente per quel che riguarda il rapporto tra il Prinzip-Hoffnung di Bloch e il Prinzip-Verantwortung di Jonas. Sul pensiero di quest’ultimo cfr.: S. Mancini, Umano e non umano tra vita e storia. Lévi-Strauss, Jonas e la ragione dialettica, Mimesis, Milano 1996, pp. 99-128; F. Toscani, La tecnica e la cura del tutto. L’etica della responsabilità di Hans Jonas, in S. PIAZZA, F. TOSCANI, Cultura europea e diritti umani, Cleup, Padova 2003, pp. 153-163.
[19] H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 29.
[20] Ibid., p. 178.
[21] Ibid., p. 17.
[22] Ibid., p. XXVII.
[23] Ibid., p. 85.
[24] Ibid., p. 24.
[25] Ibid., p. 35.
[26] T. Hobbes, Il Leviatano, vol. 1, UTET, Torino 1955, cap. XVII, p. 214. Cfr. C. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore, cit., «Si dice di solito che Hobbes inaugura la filosofia politica moderna proponendo per la prima volta un’interpretazione secolarizzata dell’origine dello Stato. La lettura che ho proposto qui è diversa. Per Hobbes il potere politico presuppone la forza, ma la forza da sola non basta. Lo Stato, il Dio mortale generato dalla paura, incute terrore: un sentimento in cui si mescolano in maniera inestricabile paura e soggezione. Per presentarsi come autorità legittima lo Stato ha bisogno degli strumenti (delle armi) della religione. Per questo la riflessione moderna sullo Stato s’impernia sulla teologia politica: una tradizione inaugurata da Hobbes» (p. 76).
[27] C. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore, cit., p. 80.
[28] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1993, p. 215.
[29] Ibid., p.202.
[30] M. Foucault, La “governamentalità”, nella rivista “aut aut”, nn. 167-168/1978, pp. 12-13. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005.
[31]Cfr. G. ASTONE, https://www.archeologiafilosofica.it/pandemia-e-soglia-per-una-lettura-foucaultiana-del-corona-virus/.
[32] T. Pitch, La società della prevenzione, Carocci, Roma 2006. Cfr. R. CASTEL, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2011.
[33] E. CANETTI, La provincia dell’uomo, Adelphi, Milano 2006, p. 97.
[34] E. CANETTI, La provincia dell’uomo, cit., p. 365.
[35] E. CANETTI, Massa e potere, Adelphi, Milano 2014, p. 244.
[36] Ibid., p.330.
[37] E. Canetti, La provincia dell’uomo, p. 158.
[38] Ibidem.
[39] Cfr. B. DE SOUSA SANTOS, La crudele pedagogia del virus, Castelvecchi, Roma 2020, p. 13.

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