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gyorgylukacs

Relazioni pericolose

di Enzo Traverso

Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022

Bruno Ritter I rematori 2014Queste considerazioni sull’esistenzialismo giovanile di Lukács potrebbero essere estese a molte altre correnti di pensiero esaminate ne La distruzione della ragione. Valgono ad esempio per la critica di Weber alla razionalità occidentale, che Lukács stesso aveva incorporato nel proprio concetto di reificazione in Storia e coscienza di classe, un testo fondamentale del marxismo occidentale1. Valgono anche per Nietzsche, la cui appropriazione da parte dell’ideologia nazista non impedì a diversi studiosi marxisti o anarchici di considerarlo un pensatore stimolante. Sia Ernst Bloch che Herbert Marcuse accolsero le potenzialità emancipatrici di una rivolta dionisiaca contro la civiltà repressiva. Il pensiero di Nietzsche, ha sottolineato Marcuse, conteneva ben più di un rifiuto aristocratico della modernità e di una nefasta apologia della schiavitù; portava con sé anche “l’aria liberatrice” di una filosofia che tracciava la propria strada attaccando “la Legge e l’Ordine”2. Adorno e Horkheimer non ignoravano le ambiguità ­del nichilismo di Nietzsche, che già conteneva alcune premesse di un’ideologia “prefascista”, ma lo consideravano uno dei pochi, dopo Hegel, ad aver riconosciuto la dialettica dell’illuminismo3. E considerazioni analoghe valgono anche per Heidegger, il cui convinto sostegno al regime nazista non invalidava le molteplici direzioni del suo pensiero ontologico, in cui pensatori marxisti come Marcuse e Günther Anders hanno trovato preziose munizioni per la loro critica radicale della tecnologia e dell’alienazione capitalista. Adorno, che non esprimeva alcun compiacimento verso Heidegger nel suo Il gergo dell’autenticità (1964), non poteva accettare la tendenza di Lukács ad assimilare al fascismo tutte le forme di irrazionalismo che, in tempi diversi, erano affiorate in seno alla filosofia tedesca.

Il custode della dialettica hegeliana, egli scrisse, guardava in modo “non dialettico” a diverse tendenze filosofiche che, nonostante il loro irrazionalismo, combattevano l’idealismo accademico e si sollevavano “contro la reificazione dell’esistenza e del pensiero”, ossia ciò che lo stesso Lukács aveva posto al centro della sua critica4. In definitiva, assai poco dialettico era anche il disprezzo di Lukács per qualsiasi credenza religiosa, considerata come una forma pericolosa e potenzialmente reazionaria di irrazionalismo. A pochi anni di distanza da La distruzione della ragione, Lucien Goldmann pubblicava Il Dio nascosto (1958), uno studio sulla visione tragica di Pascal e Racine che si concludeva con una riformulazione marxista della “scommessa” (pari) pascaliana sull’esistenza di Dio5. Più che una “scienza” fondata su ßuna forma deterministica e positivistica di razionalismo, sosteneva Goldmann, il socialismo era una scuommessa basata su una fede secolare nelle potenzialità liberatrici degli esseri umani.

Il caso di Heidegger è interessante nella misura in cui illustra le connessioni che esistevano, durante la Repubblica di Weimar, tra il marxismo rivoluzionario e le ideologie    reazionarie. Se allarghiamo l’orizzonte e superiamo i confini di un’interpretazione puramente testuale – che rimane il metodo de La distruzione della ragione –, studiando questi dibattiti nella prospettiva della storia intellettuale, la traiettoria dell’“irrazionalismo” tedesco appare molto più complessa. Molti autori che Lukács vede come responsabili dello “svolgimento reale che condusse la Germania a Hitler”6, avevano incontrato in diverse occasioni i rappresentanti del pensiero critico, rivoluzionario e antifascista. Abbiamo già menzionato la partecipazione di Bloch e dello stesso Lukács, tra il 1912 e il 1914, al circolo di Heidelberg di un intellettuale conservatore e nazionalitista come Max Weber. Nel 1930 Walter Benjamin scrisse una lettera a Carl Schmitt per esprimergli la propria ammirazione nei confronti di Teologia politica (1922), un’opera che aveva ispirato il suo saggio sul dramma barocco tedesco. Secondo Scholem, Benjamin era attratto dalla “strana interazione tra la teoria reazionaria e la pratica rivoluzionaria”, e sapeva percepire “il brontolio sotterraneo della rivoluzione” negli autori più reazionari7. Adorno, dal canto suo, nel 1938 dedicò a Il tramonto dell’Occidente di Spengler un saggio acuto e provocatorio che metteva in luce le intuizioni di questo pensatore dell’irrazionalismo rispetto ai luoghi comuni di molti apologeti del Progresso. “Spengler appartiene a quei teorici dell’estrema reazione – concludeva Adorno – la cui critica del liberalismo in molti punti si è rivelata superiore a quella progressista”. Difendere la scienza e la ragione contro la barbarie era una posizione inoffensiva se non si comprendeva “l’elemento barbaro nella cultura stessa”8. Ricordiamo infine C.L.R. James, il quale ammise di essere diventato un marxista rivoluzionario dopo aver letto la Storia della Rivoluzione russa di Trotskij e Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler9.

Quando si parla di “relazioni pericolose”, non si può fare a meno di evocare Heidegger. Nel 1929, la famosa disputa di Davos tra Cassirer e l’autore di Essere e tempo svolse un ruolo significativo nella formazione intellettuale di Marcuse, Adorno e Horkheimer10. Marcuse era stato discepolo e assistente di Heidegger all’Università di Friburgo tra il 1928 e il 1930. Egli aveva trovato in Essere e tempo l’elemento ontologico che mancava al marxismo classico, ma ne rifiutava l’esistenzialismo. L’esistenzialismo heideggeriano, sosteneva Marcuse, non oltrepassava i limiti della metafisica e quindi sfociava in un’ontologia concepita come condizione astratta e atemporale di mortalità” (Sein-zum-Tod) anziché come forma storicamente concreta di alienazione nel capitalismo moderno. Marcuse cercò allora di trascendere l’ontologia di Heidegger inscrivendola in una teoria hegeliano-marxista della storia e in una critica storico-materialistica del capitalismo. Adorno, da parte sua, non identificava Heidegger con una forma reazionaria di irrazionalismo ma riteneva che, partendo da una legittima critica del cartesianesimo, il filosofo di Friburgo fosse giunto a un inaccettabile rifiuto dell’Illuminismo, proseguendo così l’esistenzialismo di Kierkegaard. Horkheimer aveva trovato in Essere e tempo un sano contrappeso alla cupa visione di Max Weber della modernità come “gabbia d’acciaio” razionale, ma non era soddisfatto dell’ontologia di Heidegger, una forma di “esistenzialismo solipsistico” che ignorava sia la storia che il capitalismo. Come suggerisce Mikko Immanen, i fondatori della Scuola di Francoforte usarono la filosofia di Heidegger mettendo la sua critica conservatrice al servizio di “fini progressisti”11. Una convergenza era impossibile a causa dei presupposti metafisici di Heidegger, del suo antimarxismo e del suo antisemitismo, ma le loro divergenze non apparivano così chiaramente negli anni di Weimar.

Come suggeriscono queste osservazioni critiche, lo “svolgimento reale che condusse la Germania a Hitler” fu probabilmente meno lineare di quanto descritto ne La distruzione della ragione. Il nazismo non fu il risultato di una concatenazione teleologica. Nonostante i suoi limiti, il libro di Lukács possiede tuttavia una forza critica incitabile, qualcosa di paragonabile al Doctor Faustus di Thomas Mann o all’Hitler di Hans-Jürgen Syberberg, e i suoi argomenti meritano di essere considerati. Dopo tutto, ciò che è in gioco nella sua opera è la genealogia come metodo di analisi storica. La seduzione esercitata da La distruzione della ragione è l’altra faccia della grandezza del cataclisma che si concluse nel 1945 e che il libro rispecchia come una sorta di ultimo atto d’accusa filosofico. Non c’è dubbio che il concetto stesso di irrazionalismo – sia la sua definizione che la sua rappresentazione nella nostra coscienza storica – non significa la stessa cosa prima e dopo la cesura del nazionalsocialismo. Ciò vale naturalmente anche per altre esperienze storiche. Roger Chartier ha ragione di sottolineare che fu la Rivoluzione francese a inventare l’Illuminismo12, ossia che questo evento epocale aveva messo in una prospettiva diversa un insieme di idee e concetti che prima non apparivano così profondamente correlati e intrecciati in una corrente dal profilo distinto. Anche la storia dell’antisemitismo ha assunto un significato diverso dopo l’Olocausto, un genocidio che ha rivelato le potenzialità omicide di un movimento e di un’ideologia solitamente considerati come un pregiudizio arcaico. Tuttavia, questo non significa che i philosophes del XVIII secolo stessero consapevolmente preparando l’esecuzione di Luigi XVI, che le loro opere tendessero logicamente a un esito rivoluzionario, oppure che Wilhelm Marr, Adolf Stoecker e Edouard Drumont avessero preparato un piano di sterminio degli ebrei. Allo stesso modo, un marxista non può ignorare lo stalinismo nel XX secolo, ma ciò non significa che il pensiero di Marx sia stato un passo avanti sulla strada del Gulag. Simili considerazioni elementari vengono in mente quando leggiamo l’accusa mossa da Lukács contro Schelling, Nietzsche, Dilthey, Scheler, Weber, Heidegger e molti altri pensatori tedeschi. Definire Nietzsche e Paul de Lagarde “antenati” di Hitler suscita qualche perplessità. Secondo Lukács, non importa se Dilthey e Simmel furono “precursori coscienti del fascismo o meno, semplicemente perché, indipendentemente dalle loro intenzioni, le loro opere non sfuggono alla “dialettica oggettiva dello svolgimento stesso”13. Ma ciò significa ridurre la dialettica a teleologia e la storia intellettuale a una forma di causalità deterministica.

Karl Löwith aveva affrontato la controversa questione della prefigurazione nietzschiana del nazionalsocialismo in termini più sfumati. Nonostante il suo desiderio di eternità l’autore della Genealogia della morale apparteneva al suo tempo, che era l’epoca di Bismarck e non quella di Hitler. Si tratta di un fatto innegabile, al pari della constatazione che Nietzsche divenne un “catalizzatore” per la cultura del Terzo Reich. Così, spiega Löwith in Da Hegel a Nietzsche (1941):

Il tentativo di scaricare Nietzsche di questa “colpa” spirituale ovvero di farlo valere contro ciò che egli effettivamente ha determinato è altrettanto privo di fondamento quanto lo sforzo contrario di farne l’avvocato di una causa in cui egli è giudice. Entrambi i tentativi cadono di fronte alla visione storica, per cui coloro che “preparano la via” hanno sempre indicato ad altri la strada che essi stessi non percorsero14.

Un anno dopo il saggio di Löwith, Marcuse pubblicò La nuova mentalità tedesca (1942), un lungo articolo in cui prendeva le distanze dalle genealogie dell’ideologia nazista allora di moda. “Sono stati fatti numerosi studi che rintracciano le radici del nazionalsocialismo nella filosofia e nella letteratura tedesca a partire da Lutero, Herder o Nietzsche”, egli scrisse, osservando che il loro scopo era dimostrare che “le radici del nazionalsocialismo si trovano ovunque nella storia tedesca a partire dalla Riforma”. Il problema è che “quasi ogni autore tedesco” potrebbe essere “individuato” come precursore e, allo stesso tempo, come critico di alcune concezioni naziste15. I precursori appaiono solo retrospettivamente. Thomas Mann, che aveva inventato il personaggio di Adrian Leverkühn in Doctor Faustus, scrisse che Nietzsche non aveva creato Hitler; era stato il nazismo a creare il proprio Nietzsche16.

Sarebbe facile – e neppure sbagliato – considerare il libro di Lukács come la prefigurazione di diverse dispute future sul rapporto tra Nietzsche, Heidegger, Schmitt e il nazionalsocialismo, considerandolo come il padre scomodo e imbarazzante di tanti procuratori, da Victor Farias a Richard Wolin, da Emmanuel Faye a Domenico Losurdo e Yves-Charles Zarka17. L’appropriazione di Nietzsche da parte dell’ideologia nazista o l’adesione di Heidegger e Schmitt al regime di Hitler sono fatti inconfutabili e non avrebbe senso sminuirli, spiegarli come malintesi o errori contingenti, magari distinguendo ciò che può essere salvato da ciò che deve essere rifiutato nelle loro opere. Queste dispute sono di solito piuttosto sterili. Il problema è che, senza ignorare o rimuovere questa sgradevole eredità, molti pensatori critici – compresi quelli marxisti furono capaci di pensare con e attraverso i materiali altamente infiammabili forniti dalle critiche di Nietzsche, Heidegger e Schmitt alla modernità, all’universalismo, all’umanesimo, alla democrazia e alla razionalità18. È nello stesso tempo con e contro Heidegger che Anders e Marcuse hanno interpretato l’avvento del tardo capitalismo; ed è con e contro Weber che Lukács passò dal romanticismo al marxismo. Evocando un incontro impossibile e necessario tra Marx e Schmitt, Mario Tronti ha osservato il rapporto di “storica complementarità” che li lega: “Nel Novecento non è possibile leggere politicamente Marx senza Schmitt. Ma leggere Schmitt senza Marx è storicamente impossibile, perché Schmitt senza Marx non esisterebbe”19.


Note
1 György Lukács, Storia e coscienza di classe, trad. it. di G. Piana, Sugar-Co, Milano 1991.
2 Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), trad. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1967, p. 227. Si veda anche Ernst Bloch, Eredità di questo tempo (1955), trad. it. di L. Boella, Mimesis, Milano 2015.
3 Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit. Sull’interpretazione di Nietzsche da parte di Bloch, Horkheimer e Adorno, si veda Steven E. Aschheim, The Nietzsche Legacy in Germany 1890-1990, University of California Press, Berkeley 1992, pp. 288-292. Una forma aperta, altamente idiosincratica e politicamente ambigua di nietzscheanesimo di sinistra è apparsa in Francia alla fine della Seconda guerra mondiale con Georges Bataille, Su Nietzsche (1945), trad. it. di A. Zanzotto, SE, Milano 2006.
4 Theodor W. Adorno, La conciliazione forzata, cit., p. 192. Adorno ha sintetizzato la sua severa critica a Heidegger ne Il gergo dell’autenticità (1964), trad. it. di P. Lauro, Bollati Boringhieri, Torino 2016.
5 Lucien Goldmann, Il Dio nascosto. Studio sulla visione tragica nei Pensieri di Pascal e nel teatro di Racine, trad. it. di L. Amodio e F. Fortini, Laterza, Roma-Bari 1971.
6 Lukács, La distruzione della ragione, cit., vol. I, p. 4.
7 Gershom Scholem, Walter Benjamin (1964), in On Jews and Judaism in Crisis: Selected Essays, a cura di Werner J. Danhauser, Schocken Books, New York 1976, p. 195.
8 Theodor W. Adorno, Spengler dopo il tramonto (1938), in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, trad. di C. Mainoldi, Einaudi, Torino 1972, p. 54. Si veda Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente (1923), trad. it. di J. Evola, Longanesi, Milano 1957.
9 Alan J. MacKenzie, Radical Pan-Africanism in the 1930s: A Discussion with C.L.R. James, in “Radical History Review”, 4, 1980, p. 74.
10 Sull’epico dibattito di Davos tra Heidegger e Cassirer si veda Peter E. Gordon, Continental Divide: Heidegger, Cassirer, Davos, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2012.
11 Si veda Mikko Immanen, Toward a Concrete Philosophy: Heidegger and the Emergence of the Frankfurt School, Cornell University Press, Ithaca, NY2020.
12 Roger Chartier, Le origini culturali della Rivoluzione francese, trad. it. di G. Viano Marogna, Laterza, Roma-Bari 1991.
13 Lukács, La distruzione della ragione, cit., vol. II, pp. 417-418.
14 Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche, cit., p. 303.
15 Herbert Marcuse, The New German Mentality (1942), in Technology, War and Fascism, a cura di Douglas Kellner, Routledge, London 1998, p. 152.
16 Cit. in Aschheim, The Nietzsche Legacy, cit., p. 319.
17 Si veda The Heidegger Controversy: A critical Reader, a cura di Richard Wolin, The Mit Press, Cambridge, Mass. 1992; Victor Farias, Heidegger e il nazismo, trad. it. di M. Marchetti e P. Amari, Bollati Boringhieri, Torino 1988; Richard Wolin, The Politics of Being: The Political Thought of Martin Heidegger, Columbia University Press, New York 1991; Emmanuel Faye, Heidegger. L’introduzione del nazismo nella filosofia, trad. it. di F. Arra, L’Asino d’oro Edizioni, Roma 2012; il già menzionato libro di Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, cit.; e Carl Schmitt ou le mythe du politique, a cura di Yves-Charles Zarka, Presses universitaires de France, Paris 2009.
18 Slavoj Žižek, In Defense of Lost Causes, Verso, London-New York 1008, pp. 117-118 [In difesa delle cause perse, trad. it. di C. Arruzza, Ponte alle Grazie, Milano 2009].
19 Mario Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998, p. 153.

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