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Putin, la NATO e noi

di Militant

Di seguito riportiamo il testo del nostro intervento, presentato durante il convegno nazionale dal titolo “La guerra in Ucraina, la crisi economica e il grande caos mondiale in arrivo. Che fare?”

convegno nazionaleLa ‘questione guerra’ ha scompaginato il campo della sinistra radicale, almeno in Italia. Non è stata una novità, a ben vedere: è accaduto anche con la pandemia, pochi mesi prima. Divisioni, contrasti, imbarazzi e una fatidica incapacità di presentare quantomeno una lettura unitaria dei fenomeni in atto hanno confermato i problemi esistenti: invisibile nel “regime ordinario”, la sinistra che pretende di parlare a nome dei subalterni lo è anche in quello “straordinario”, totalmente incapace di “cogliere l’attimo” e di “accelerare la storia”, nonostante l’evidenza di essere una parte minoritaria della società e dunque l’opportunità di “fare di necessità virtù”.

Non fa parte degli obiettivi di questo intervento ipotizzare il perché di questa incapacità, “parossistica” anche rispetto a quanto capita negli altri Paesi occidentali. Qui vogliamo semplicemente sottolineare come le divisioni interpretative sulla guerra in Ucraina altro non sono che il punto di caduta di una questione spesso rimossa, ma che – quando affiorava – già nel passato era stata foriera di polemiche e contrasti. Mentre i contrasti sul Covid e, soprattutto, sulle misure di contenimento della pandemia dimostravano come il conflitto capitale vs lavoro avesse ormai ceduto il passo – nell’agenda di una sinistra radicale a parole, ma riformista nei fatti – alla centralità del sistema di libertà declinato individualmente, l’andare in ordine sparso sulla guerra è la conseguenza delle diverse valutazioni sul carattere imperialistico o meno della Russia di Putin.

Dicendo questo, vogliamo evitare un errore di fondo, che pure connota molte opinioni “di sinistra”: considerare l’attacco russo del 24 febbraio come un evento estrapolato dal contesto, finendo per assolutizzarlo.

Basta avere rudimenti minimi di materialismo storico (anche solo di buonsenso, forse) per rigettare questo approccio, che conduce non solo a una visione decisamente parziale della realtà, ma pure all’accettazione della logica della tifoseria: se “la partita” è iniziata adesso, io ho poco tempo per decidere per chi fare il tifo. Finirò per scegliere seguendo la logica delle emozioni, con i risultati che possiamo ben prevedere.

Un evento così complesso come la guerra, invece, richiede “lo sguardo lungo” della Storia, attraverso il quale collocare gli attori in gioco all’interno dello scenario globale. Da questo punto di vista, c’è un consenso piuttosto unanime nel definire la Russia putiniana come un Paese capitalista, ovviamente, ma posizionato in una dimensione periferica e dipendente. La gestione stessa della guerra e le “ritorsioni energetiche” su cui fa perno Putin per minacciare l’Occidente – prima ancora di sventolare lo spaventapasseri nucleare – confermano questa interpretazione, a cui però va aggiunto un addentellato importante (rispetto al quale il consenso non è certo unanime): il carattere imperialista della Russia è equivoco, e non può essere definito in forza di categorie morali. D’altronde, lo status stesso di ‘Paese capitalista dipendente’ non la pone certo sullo stesso piano degli Stati Uniti, dai quali – invece – la Federazione russa intende “emanciparsi”, così da superare la già menzionata condizione di dipendenza e latente sottosviluppo.

La comune impostazione capitalistica non rende, infatti, i due Stati concorrenti su un piano di parità. Un ragionamento valido, da un certo punto di vista, anche per la Cina. Allo stesso tempo, la Russia attuale non ha niente a che vedere con quella sovietica. La Russia di Putin, di contro, va messa a confronto con il dissesto lasciato da Eltsin, pronto a offrire il suo Paese alle scorribande del grande capitale occidentale, fino al rischio di una completa balcanizzazione, come nella vicina Jugoslavia. Giunto al potere, Putin non trova la Rivoluzione bolscevica, ma un Paese intriso di neoliberismo che stava demolendo la sua economia e che sottoponeva lo Stato (e le sue istituzioni interne) a spinte centrifughe che risalivano sino ai tempi della perestrojka. Lo scenario della Guerra Fredda era già abbondantemente archiviato: lo testimoniava l’Anschluss subito dalla DDR e, con modalità appena meno drammatiche, il progressivo inserimento degli altri Paesi dell’ex Patto di Varsavia nell’area di influenza della Nato, spesso dopo una fase di “riscaldamento” nella comfort zone dell’Unione Europea. A corollario di tutto ciò si situano i molteplici tentativi di “regime change” attuati all’interno della Russia – nel momento in cui l’Occidente si rese conto di come Putin non avesse ereditato la compiacenza eltsiniana – e i golpe soavi e “colorati” che ne rendevano incandescenti le frontiere: parliamo di variabili ben note, eppure colpevolmente dimenticate quando si formula un giudizio sul comportamento odierno dello “zar” Putin. Pur non avendo sicuramente niente a che vedere con i Maestri del socialismo, Putin cerca di traghettare il suo Paese verso altri lidi: autonomia internazionale, contenimento dell’espansione Nato, estromissione del dollaro come moneta fiduciaria mondiale. Ovviamente i motivi che spingono l’attuale gruppo dirigente russo a difendere una certa indipendenza strategica non hanno nulla a che fare con il concetto di antimperialismo, men che meno con una qualsivoglia idea di emancipazione. Rimangono interne ad un sistema capitalistico che però respinge la subalternità all’egemonia militare e finanziaria occidentale.

Le sanzioni occidentali alla Russia – che possono essere descritte come una ‘bomba atomica finanziaria’, data la loro virulenza – potrebbero paradossalmente accelerare, nel medio periodo, alcune delle trasformazioni appena descritte: di sicuro hanno spinto Putin ancora più tra le braccia di potenze economiche e demografiche non occidentali, aumentando – di contro – il “rischio default” per milioni di famiglie europee che sono, alla pari della popolazione civile di Russia e Ucraina, le vere vittime del conflitto. Nel silenzio (complice) delle forze istituzionali di sinistra, dallo scorso 24 febbraio l’europeismo ha assunto le vesti di ancella dell’atlantismo (evidente il ruolo di Draghi, in tal senso), ma ha pure spalancato – potenzialmente – un ampio campo di intervento per un’azione politica radicale, volta a denunciare come il bellicismo dell’Occidente sarà un fatto impoverente clamoroso a danno delle masse. È stato squarciato il velo di Maya intorno all’europeismo: non più “forza terza” tra l’aggressività statunitense e l’autocrazia dell’Oriente, ma ciambella di salvataggio per l’unilateralismo americano in crisi. Non che manchino prospettive alternative, in quel di Bruxelles: si pensi alla velleità tedesca di porsi come locomotiva di un treno da lanciare nella competizione imperialistica, ma la fase attuale vede la prevalenza dell’Europa orientale – Polonia in testa –, composta dai fedeli scudieri di Washington.

Oggi il multipolarismo non abita più a Bruxelles, casomai a Pechino, Mumbai, addirittura Teheran e, ovviamente, a Mosca, per quanto dirlo in questi giorni ci espone allo scherno degli scriba filo-atlantici, mai così aggressivi, e pure all’incomprensione di tanti compagni e compagne restii a utilizzare uno “sguardo lungo” sull’attualità. La “tendenza alla guerra”, che rende il conflitto elemento costitutivo dell’imperialismo, trova in Ucraina solo una nuova conferma, così da smentire l’interpretazione “psico-soggettivistica” che descrive il 24 Febbraio come il frutto di un gesto sconsiderato e pazzoide del nuovo zar. Tutt’altro: si tratta di un ulteriore riscontro di come oggi la questione della guerra sia quella principale – anche per le sue ricadute sulla classe – e che l’economia di guerra sia la semplice “copertura lessicale” di un aumento del costo della vita che le masse popolari da tempo stavano sperimentando. Il contesto attuale, ovviamente, non ha solo a che fare con l’economicismo: si apre – anzi: si conferma, dato che ne abbiamo avuto avvisaglie già con la gestione del Covid – una stagione di contrazione dei diritti e delle libertà, come lavoratori/trici, come cittadini/e, come militanti politici. Alla luce di un quadro del genere, la sinistra di classe ha l’obbligo di parlare in termini chiari e operativi alle masse. Ci chiediamo, in tal senso, se convenga di più passare al setaccio l’operato di Putin (promuovendolo, bocciandolo oppure rimandandolo a settembre) oppure provare, appunto, a “cogliere l’attimo”, vale a dire abbracciare totalmente la “straordinarietà” (tragica) di questi mesi e inserirvi la nostra prospettiva. Per farlo, pare evidente la necessità di rifiutare un approccio “libresco” con cui valutare la realtà. Al contrario, vi è nel proletariato italiano un bisogno di politica che continua a non trovare sbocchi. In questo senso, le recenti elezioni hanno sancito il fallimento definitivo dell’elettoralismo, tanto di quello sovranista quanto di quello arcobaleno. Il problema, a ben vedere, non consiste nel tentare anche la strada elettorale (qualora si verifichino le condizioni), ma l’incapacità di pensare la propria azione politica a prescindere da esse.

Invitiamo i presenti, dunque, ad adottare un “pensiero spurio”, che non significa sventolare il gagliardetto della Russia e iniziare pure noi a fare belluinamente il tifo, ma provare a “rendere operativa” la nuova fase che si è aperta dal 24 Febbraio, ribadendo come la contraddizione principale, di fronte ai nostri occhi, continui ad essere rappresentata dal capitalismo italiano. In tal senso la nostra lotta alla guerra non può che passare da un’azione in difesa dei salari e contro il carovita che colpisce unicamente i ceti popolari. Allo stesso tempo avere la capacità di interagire con la mobilitazione pacifista, in grado di intercettare la montante insofferenza nei confronti del bellicismo e del militarismo atlantista.

Un evento maestoso e aberrante come una guerra non può non essere usato per fare politica. Sta a noi farla da comunisti al passo con i tempi, ricordando agli strati sempre più larghi di subalterni come l’epoca della socialdemocrazia sia da tempo terminata e che il tentativo difensivo di ripristinare autarchiche comunità nazionali (come proponeva di fare Salvini, ieri, e come propone Meloni oggi) sia inattuabile perché anacronistico. Non farlo significherebbe perdere un’altra grande occasione.

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