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Lezioni ucraine – 1

di Enrico Tomaselli

184432 1 large 1 1024x683 1A oltre un anno e mezzo dall’inizio dell’Operazione Speciale Militare, una panoramica a volo d’uccello sul conflitto consente se non di fare un bilancio, certamente di metterne in luce taluni aspetti significativi. Come spesso capita, il senso di determinati avvenimenti, pur del tutto noti, si coglie infatti solo a distanza. Il tentativo, quindi, è di abbozzare delle lezioni che si possono trarre dalla guerra in corso, esaminandone l’excursus dapprima dal punto di vista ucraino, poi da quello russo. In questa prima parte si esaminerà pertanto dalla prospettiva di Kiev.

* * * *

Le lezioni che la guerra ucraina sta fornendo sono svariate, ed alcune anche molto interessanti. Il fatto che il conflitto si collochi in un passaggio cruciale della Storia, anzi che ne sia un importante fattore di accelerazione, rischia naturalmente di offuscarle, di renderle meno evidenti. Anche solo da un punto di vista strettamente militare, però, ci sarebbe molto da imparare – e per quanto è possibile vedere/sapere, dall’altra parte dell’Atlantico non sembra che stiano imparando molto. Eppure, nessuno più del Pentagono avrebbe interesse a trarre insegnamenti da questo conflitto.

In ogni caso, un tentativo di analisi merita di essere fatto, se non altro come contributo ad una possibile (ed auspicabile) riflessione generale sul tema.

Fermo restando che non c’è ovviamente paragone possibile, in termini di potenza strategica, tra Russia ed Ucraina, è però indubitabile che il 24 febbraio 2022 quello che si apre è sostanzialmente un conflitto simmetrico: le forze in campo sono complessivamente equiparabili, quanto meno nel senso che le varie disparità che le caratterizzano sono in qualche modo compensative.

In particolare, l’Ucraina ha avuto dalla sua, sin dal primo momento, un vantaggio numerico, quello derivante dal supporto informativo e di intelligence fornito dalla NATO, una retrovia estesa (intoccabile dalla Russia) ed una disponibilità di mezzi e denaro enormemente superiori alle proprie – sempre grazie all’aiuto dell’Alleanza Atlantica. Questi notevoli plus tattici e strategici compensavano pienamente i gap rispetto alle forze russe.

Stiamo ovviamente qui parlando di una simmetria teorica, in quanto poi le cose sul campo erano profondamente diverse.

Tanto per cominciare, si tende spesso a sottovalutare un dato storico. Nel 2014, dopo il golpe di piazza Maidan, la NATO comincia l’addestramento delle forze ucraine, così come la fornitura di armamenti. Contemporaneamente, comincia lo scontro tra l’esercito ucraino, supportato dalle varie milizie neonaziste, con le repubbliche separatiste del Donbass (Donetsk e Lugansk). Questo scontro, benché veda una assoluta asimmetria (l’intero esercito ucraino contro le milizie di due repubbliche regionali), viene sostanzialmente perso da Kiev. Non solo in otto anni non è stata capace di riprendere il controllo dei territori secessionisti [1], ma addirittura si sono dovute mobilitare le potenze occidentali per dargli modo (con gli Accordi di Minsk 1 e 2) di riprendere fiato e riorganizzare le proprie forze. Il fatto stesso che, proprio in quegli anni, gli ucraini costruissero la linea fortificata Slovyansk-Kramatorsk, ai confini occidentali del Donetsk, indica come ritenessero addirittura di doversi difendere.

L’esperienza degli otto anni di guerra civile, quindi, insegna che le forze armate ucraine – al netto della loro potenza e potenzialità – si erano già rivelate scarsamente efficaci sul campo. Ciò è probabilmente dovuto al combinato disposto tra due fattori, uno endogeno e l’altro esogeno. Il primo, è l’estremo livello di corruzione che aveva pervaso il paese sin dalla proclamazione dell’indipendenza, nel 1991, che non ha mancato di riflettersi sull’esercito. Il secondo è determinato dalla transizione dal modello sovietico (dottrinale, organizzativo, di equipaggiamenti…) a quello NATO, applicato per di più in tempi ristretti ed in condizioni operative. Un aspetto, questo, i cui effetti si continuano a riscontrare tuttora, e per le medesime ragioni.

Quando inizia l’Operazione Speciale Militare, benché le forze russe impegnate siano circa un quarto di quelle ucraine – quindi con un rapporto di forze attaccanti-difensori esattamente invertito, rispetto agli standard previsti da ogni dottrina militare – dilagano comunque in Ucraina. A nord est occupano l’oblast di Kharkov, a sud quelli di Zaporizhzhye e Kherson, mentre due potenti colonne penetrano una da est, in direzione Sumy, ed una da nord, sino alle porte di Kiev. Senza stare qui a ricapitolare le ragioni strategiche e tattiche di questa manovra russa, già ampiamente analizzata in passato, resta comunque l’evidenza di una offensiva annunciatissima (da tempo gli USA ripetevano che Mosca stava per attaccare, e le truppe russe erano pronte sul confine da mesi), effettuata praticamente senza alcuna preparazione aerea, e che nel giro di pochissimo tempo ha occupato una significativa parte del paese.

Per quanto nei successivi 500 e passa giorni di guerra gli ucraini abbiano dato prova di coraggio e determinazione, sin dall’inizio è stato evidente come le scelte strategiche e tattiche fossero spesso inadeguate, se non del tutto errate.

Sfortunatamente per Kiev e per la NATO, l’apparato propagandistico occidentale si è subitaneamente mobilitato intorno al plot narrativo di un esercito ucraino capace di vincere, e questa narrazione ha finito per farsi strada persino nei comandi strategici di entrambe.

Nel giro di 40-50 giorni, comunque, quando con la visita di Boris Johnson a Kiev si chiudono gli spazi di trattativa tra Russia e Ucraina, cambia completamente il quadro strategico. Le colonne penetrate in territorio ucraino da est e da nord vengono ritirate (per una decisione politica di Mosca, non per una pressione militare di Kiev), e si entra in una nuova fase della guerra.

Sempre restando dal lato ucraino del conflitto, un po’ di buon senso – e di consapevolezza delle proprie forze – avrebbe dovuto spingere l’Ucraina, ed i suoi sponsor occidentali, a predisporsi per una guerra difensiva di logoramento, che costringesse i russi a tenere impegnate le forze lungo una lunga linea di contatto in condizioni di inferiorità numerica. La mobilitazione di 300.000 riservisti, infatti, verrà lanciata da Mosca soltanto in inverno, e comincerà a manifestarne i segni sul fronte soltanto nella primavera successiva.

Ma è proprio in questa fase che si concretizzano due elementi, in realtà presenti sin dall’inizio, ma che appunto arrivano a maturazione solo adesso. Il primo è l’assoluta presa in carico dell’Ucraina da parte della NATO, che comporta non solo il pieno supporto ma anche il sostanziale pieno controllo; il secondo, conseguente, è il prevalere delle esigenze politiche occidentali su quelle militari ucraine.

Il conflitto diventa prevalentemente mediatico. Gli scopi strategici che la NATO intende perseguire attraverso questa proxy war sono solo marginalmente ottenibili sul campo (a Washington pensano di sconfiggere la Russia soffocandola economicamente e diplomaticamente), e quindi questo diventa uno scenario, sul quale viene rappresentata la battaglia propagandistica.

La guerra mediatizzata ha pertanto esigenze di tipo spettacolare, che sovrastano quelle di tipo bellico. Non basta l’immagine dell’esercito che offre un’eroica resistenza all’invasore, serve l’immagine di un esercito che possa ricacciarlo. Per questo, non serve – non interessa – che gli ucraini si difendano come possono, serve che vadano all’attacco.

Nell’estate del 2022 quindi, le forze di Kiev lanciano due offensive, una a nord-est su Kharkov ed una a sud-ovest su Kherson. Mentre la prima ha un certo successo, grazie alle deboli difese russe nell’area, che sostanzialmente ripiegano sotto la pressione ucraina, la seconda incontrerà forti resistenze e, dopo forti perdite, si arenerà poi ad ottobre. Questo sforzo offensivo segna il passaggio ad una terza fase del conflitto, e per tutto l’anno successivo l’esercito ucraino non sarà più in grado di effettuare operazioni offensive. La nuova fase, tra l’altro, è segnata ancor più da un cambiamento decisivo dal lato russo, con l’arrivo al comando del generale Surovikin, a cui si devono tre importanti decisioni strategiche: l’abbandono della parte di Kherson che si trova sulla riva destra del Dnepr, la costruzione di linee fortificate ed articolate in profondità a ridosso della linea del fronte, e l’avvio di una campagna di attacchi dall’aria sull’intera Ucraina.

Durante questo anno di (apparente) pausa nei combattimenti, la NATO farà uno sforzo per riorganizzare e riarmare le forze ucraine; oltre 80.000 uomini vengono addestrati in occidente, e sono forniti centinaia di mezzi corazzati. L’obiettivo è quello di replicare, in primavera, l’offensiva dell’estate 2022, ma stavolta con obiettivi ancora più ambiziosi. L’ossessione di Zelensky (ma in realtà della NATO) è infatti la Crimea. È su questa che si appuntano le mire di rivincita, quasi che gli altri territori perduti siano irrilevanti (anche se, ad esempio, il Donbass è invece una regione ricca, sia per risorse minerarie che dal punto di vista delle infrastrutture industriali). Ovviamente a questo c’è una spiegazione ben precisa: Crimea significa la base navale di Sebastopoli, significa mar Nero. E la NATO vorrebbe sottrarne alla Russia ogni controllo.

Ma durante questa rôle de guerre, avviene anche qualcos’altro di assai significativo.

Prima a Soledar, poi a Bakhmut, si svolgono due lunghe e sanguinose battaglie, per il controllo dei rispettivi abitati. Soprattutto la seconda, ben più famosa, e che si protrarrà per circa otto mesi. La lotta per il controllo della cittadina di Bakhmut-Artëmovsk sarà in effetti il baricentro intorno a cui ruoterà tutta questa fase, ma rappresenterà inoltre (anche da parte russa, come vedremo) una significativa anomalia tattica.

Il valore strategico della città, in effetti, era ed è abbastanza relativo, anche se ovviamente rappresentava un passo verso la completa liberazione dell’oblast di Donetsk. Eppure (a quanto è dato sapere, per una impuntatura dello stesso Zelensky) l’esercito ucraino si è ostinato a difenderla sino allo stremo, pagando un prezzo elevatissimo in termini di vite umane – è in riferimento a questa battaglia che si è iniziato a parlare di tritacarne – bruciandovi intere brigate, che sarebbero potute tornare utili successivamente, per la prevista controffensiva di primavera-estate.

Secondo gli insegnamenti di Sun Tzu, è assai meglio perdere territorio e preservare le forze, così da poter successivamente riconquistare il terreno perduto, piuttosto che sacrificare le forze per difenderlo, finendo così per perdere entrambe. Ma evidentemente Zelensky non conosceva Sun Tzu. E soprattutto, sentendosi in difficoltà, riteneva che la sua guerra mediatica potesse risultare compromessa dalla perdita della città, nonostante fossero proprio gli strateghi americani a suggerire la ritirata. In ogni caso, la caparbietà con cui è stata difesa, indifferente al prezzo pagato, ha rappresentato un punto di svolta per l’esercito ucraino, le cui perdite hanno assunto un peso sempre più significativo, soprattutto sulla successiva capacità di combattimento.

A conferma di quanto detto prima, circa l’importanza di Bakhmut, basta osservare come – ancora a mesi di distanza dalla sua caduta – questa non abbia determinato alcun mutamento sostanziale della situazione, né sul piano strategico né su quello tattico, nemmeno con riferimento a quello specifico settore del fronte.

È comunque in questa fase che comincia a manifestarsi, in modo sempre più evidente, un approccio al combattimento – da parte ucraina – che fa venire in mente la battaglia di Khartoum, nel 1885, quando le armate del Mahdi si lanciavano all’assalto della fortezza difesa dalle truppe del governatore Charles Gordon. Anche se la narrazione europea e coloniale ci ha trasmesso l’immagine delle orde barbariche africane che, ad ondate successive, andavano all’attacco (finendo alla fine per travolgere gli eroici difensori bianchi), la realtà è che in molti casi l’unica arma su cui contare per cercare la vittoria è il numero. Sfortunatamente per l’esercito di Kiev, le forze russe sono più numerose, e soprattutto molto meglio equipaggiate di quelle di cui disponeva Gordon Pascià. La similitudine ovviamente qui risiede nel fatto che, stante la crescente disparità di forze, l’unico vantaggio di cui dispongono a questo punto gli ucraini è la quantità di uomini che possono gettare in battaglia. Il tentativo – quasi disperato – è che, portando in combattimento una brigata dopo l’altra, il fronte russo finisca per cedere da qualche parte.

Altrettanto ovviamente, questo modus operandi non solo impone un costo elevatissimo – oggi le perdite ucraine oscillano tra mille e duemila al giorno – ma va ad incidere direttamente sulla capacità di combattimento complessiva. Se, infatti, vengono inviate formazioni composte da soldati esperti e ben addestrati, le perdite avranno un’incidenza molto più significativa, e se invece si mandano formazioni di mobilitati, con scarso addestramento, i risultati saranno insignificanti e le perdite ancora maggiori. In questa forbice, lo spazio di manovra per le forze di Kiev si fa sempre più ristretto, e quindi la capacità di tenuta si assottiglia.

Dopo oltre cento giorni dall’inizio della controffensiva del 2023, e dopo quasi 80.000 uomini persi, è inevitabile che la spinta si esaurisca, preludio ad una probabile controspinta russa, che nel corso dell’autunno ricaccerà indietro le truppe di Kiev, sulle posizioni precedenti il 4 giugno.

Non è affatto per un caso che, essendo ormai divenuto chiaro che le forze armate ucraine non saranno mai in grado di riprendersi i territori perduti, ed ormai consumata la carta delle forze corazzate (i dintorni di Rabotino sono oggi un cimitero di carri occidentali), il focus si stia spostando sugli attacchi a distanza, con droni e missili a lunga gittata – sempre su gentile concessione NATO. La guerra spettacolo ha bisogno di successi da vendere al pubblico televisivo, in quello che è ormai un circolo vizioso. Per continuare ad andare avanti, è necessario che l’occidente continui ad alimentarla con armi e denaro; perché l’occidente possa continuare ad alimentarla è necessario che abbia vittorie da vendere sui media; per ottenere vittorie mediatiche serve spostare continuamente il tiro, fornire a Kiev sempre nuove armi. Il circo si autoalimenta, va avanti quasi per forza d’inerzia, ma non è in grado di mutare nulla di significativo. Sino all’ultimo ucraino.

Come in ‘Sesso & Potere’ [2], una guerra mediatica va bene solo se è effettivamente fittizia, totalmente un’invenzione narrativa; ma se serve soltanto come un velo, che copre la realtà di una guerra reale, fatta di sangue ed acciaio, allora prima o poi la realtà squarcerà il velo.

E la realtà è che diventa sempre più improbabile persino un intervento diretto di un qualche paese NATO, per salvare la situazione (la Polonia si sta già chiamando fuori). Forse ancora sei-sette mesi fa poteva essere un’ipotesi militarmente praticabile, ma oggi la situazione è giunta ad un punto tale che non è più aggiustabile. L’esercito ucraino è allo stremo, i paesi della NATO hanno esaurito i loro arsenali, mentre la Russia è oggi più potente di un anno fa.

L’ultimo ucraino è, metaforicamente parlando, assai più vicino di quanto sembri.


Note
1 – Tanto per restare sull’attualità, l’Azerbaijan ha ripreso il controllo del Nagorno-Karabakh con una operazione militare durata 48 ore.
2 – Sesso & potere (Wag the Dog) è un film del 1997 diretto da Barry Levinson. È tratto dal romanzo American Hero di Larry Beinhart. Cfr. Wikipedia

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