L’Onu e il conflitto russo-ucraino: potenzialità inattuate
di Luca Benedini
Nella Carta (o Statuto) dell’Onu c’è una tendenziale contraddizione: da un lato, l’Onu è tenuta a difendere la pace internazionale, come emerge da articoli come in particolar modo il 24, il 37 e il 39, oltre all’1 e al 2 nei quali si trovano esposti i fini e i princìpi dell’Onu stessa; dall’altro lato, tale responsabilità viene attribuita principalmente – e con estrema chiarezza – al Consiglio di Sicurezza, ma quest’ultimo può essere totalmente bloccato nel suo agire se qualcuno dei suoi 5 membri permanenti (i governi di Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) esercita su una questione il proprio “diritto di veto” previsto nell’art. 27.
È una contraddizione che ha però uno spiraglio: in base agli articoli 10 e 12, l’Assemblea Generale ha la potestà di occuparsi praticamente di qualsiasi argomento, fatta eccezione per le problematiche internazionali (controversie, altre situazioni da cui la pace può essere minacciata, violazioni della pace) delle quali si sta già occupando esplicitamente il Consiglio di Sicurezza. In altre parole, quando quest’ultimo è bloccato da dei veti, così che di fatto non riesce ad occuparsi concretamente di una situazione, l’Assemblea Generale può in pratica surrogarlo.
L’Onu, il diritto internazionale e le rotture della pace: dagli anni ’50 agli anni ’80
Si tratta di una potestà che venne anche messa dettagliatamente “nero su bianco” nella risoluzione dell’Assemblea Generale n. 377 del 1950, nota col nome di Uniting for Peace, cioè “Unirsi per la pace” [1]. In pratica, l’Assemblea deliberò di poter – e, sostanzialmente, dover – assumere tutte le funzioni del Consiglio ogni volta che dei veti gli impedissero di affrontare adeguatamente gravi circostanze internazionali.
Dato che nell’Assemblea nessuno ha diritto di veto, in essa gli spazi di legittima iniziativa non sono affatto vincolati al parere di quei 5 governi (ciascuno dei quali può invece, nell’ambito specifico del Consiglio, fermare qualsiasi decisione che risulti appunto sgradita anche a uno solo di essi).
Quella risoluzione, elaborata all’epoca soprattutto dal segretario di Stato statunitense Dean Acheson, «successivamente [...] fu impugnata vittoriosamente, in Medio Oriente, nella crisi di Suez, proprio su iniziativa degli Usa. Piegò il possibile veto da parte di Francia e Inghilterra e ne determinò il ritiro dal Canale. La stessa Urss, che l’avrebbe subita più volte, dall’Ungheria all’Afghanistan, l’ha utilizzata nel 1967 rispetto alla crisi mediorientale», come ha ricordato Isidoro D. Mortellaro in Assemblea generale - L’ultima carta dell’Onu (La Rivista del Manifesto, aprile 2003). Nell’articolo si aggiungeva che «altri ricorsi alle sue procedure (Libano, 1958; Congo, 1960; Bangladesh, 1971; Namibia,1981; più volte per la Palestina) hanno avuto esiti più incerti e dubbi» e si commentava che, «man mano che l’Assemblea Generale è divenuta più fitta e complessa, le raccomandazioni via via partorite, nell’intento di conquistare la maggioranza dei voti in una platea sempre più frastagliata, si sono fatte più evanescenti, perdendo di incisività»....
Va sottolineato, comunque, che questa vaghezza priva di mordente non appare essere una sorta di necessità: si tratta di una conseguenza di equilibri politici e geostrategici che in una data circostanza possono risultare fragili e incerti, oppure trovare chiarezza e determinazione, a seconda soprattutto della capacità comunicativa e della congruità dei comportamenti concreti mostrate dai governi autori di una particolare proposta di risoluzione nell’Assemblea Generale.
Dagli anni ’90 allo scoppio del conflitto russo-ucraino
Durante l’ultimo decennio del ’900, l’Onu e la comunità internazionale non consentirono né all’esercito dell’Iraq di Saddam Hussein di invadere stabilmente il Kuwait e di controllarne le risorse, né alle forze armate della Serbia di Milosevic e alle milizie paramilitari loro alleate di prendere il controllo della Bosnia-Erzegovina e di devastarla a loro piacimento in base a piani di “pulizia etnica” e di accaparramento economico, né all’esercito indonesiano e alle milizie paramilitari sue alleate di attuare simili forme di “pulizia etnica” nella Timor Est da loro occupata. I modi specifici in cui vennero attuati allora quegli interventi internazionali (modi che tra l’altro all’epoca vennero notevolmente – e nel complesso si direbbe giustamente – criticati, nel primo caso per l’eccessiva fretta di ricorrere alle armi [2] e, all’opposto, negli altri due casi per l’eccessiva lentezza) possono non essere adatti all’attuale situazione ucraina, ma il loro significato di fondo è chiarissimo sul ruolo che in certi casi drammaticamente cruenti spetterebbe indiscutibilmente all’Onu in nome della vita stessa di questa o quella popolazione.
In quei tre casi non vi furono degli stabili veti a bloccare totalmente l’azione del Consiglio di Sicurezza, che così poté operare in modo effettivo. Dopo la caduta del “muro di Berlino” nel 1989 e la parallela fine della “guerra fredda”, però, progressivamente il vento della politica internazionale ha cominciato a soffiare in maniera sempre più contraria al diritto vigente e alla pace, malgrado tanti sperassero in un mondo finalmente più etico e più in accordo con la legalità. Invece, i principali attori della scena politica mondiale hanno messo sempre più da parte il diritto internazionale e l’Onu stessa.
I casi più eclatanti (ma non certo gli unici) sono stati la guerra Nato-Jugoslavia nel 1999 e l’invasione anglo-statunitense dell’Iraq nel 2003: due pesanti eventi bellici privi di qualsiasi “autorizzazione” dell’Onu e di qualsiasi altra giustificazione legalmente valida. Benché il Consiglio di Sicurezza fosse evidentemente bloccato da veti come quelli statunitensi e britannici, non si ricorse all’Assemblea Generale e, in pratica, i governi dell’intero mondo lasciarono fare, mostrando di apprezzare – o per lo meno accettare – quel genere di eventi....
Come sottolineò all’epoca Antonio Gambino [3], dopo la dissoluzione dell’Urss la guerra del 1999 «serviva [...] a lanciare la nuova Nato, una sorta di nuovo governo mondiale che ignorando le Nazioni unite intende operare come potere imperiale americano sul mondo».... E l’invasione del 2003, come si mise in evidenza in un articolo apparso allora su Rocca, mostrò palesemente di essere un «tentativo dell’amministrazione Bush di passare da un governo mondiale di una Nato sotto tutela Usa ad un diretto impero delle élite statunitensi» [4].... Entrambi questi tentativi ebbero in sé e per sé un sostanziale successo, visto che di fronte ad essi non vi fu alcun corposo richiamo concreto al diritto internazionale né da parte dei governi degli altri paesi né da parte dei vari rami della magistratura che per un motivo o per l’altro potevano avere giurisdizione su tali episodi bellici. E ciò malgrado gli enormi spazi che vi erano per fare appello a tale diritto sia durante che dopo i due conflitti [5].
Da allora, quello è diventato in pratica il nuovo paradigma mondiale di fondo. In tutto il globo, dopo la conclusione della “guerra fredda” la sfera politico-militare è stata lasciata praticamente alla mercé di tre fattori: gli interessi geostrategici coltivati nelle diverse nazioni dalle élite economiche e politiche (locali e/o internazionali); le armi; una diplomazia comunemente indifferente al diritto, alla giustizia e alla vita stessa della “popolazione comune” dei vari paesi colpiti da conflitti armati.
Da anni continuano comunemente a esservi decine di tali conflitti in corso su scala locale nei vari continenti (in modo particolare in Africa). E l’impiego dei “caschi blu” o di altre forze di interposizione sotto l’egida dell’Onu è stato limitato e scarsamente efficace, soprattutto per la mancanza di un impegno saldo e coerente della comunità internazionale al quale potessero appoggiarsi tali forze.
Parallelamente, col crescere del ruolo economico, industriale e militare della Russia (le cui riserve di gas e di altre materie prime hanno conquistato progressivamente negli scorsi decenni un grande peso internazionale) e della Cina (diventata ormai da tempo uno dei perni industriali della globalizzazione neoliberista), anche i governi di queste due nazioni hanno mostrato crescenti segni della medesima patologia: ignorare l’Onu e il diritto e – nella scia lasciata in questi decenni da diversi dei governi susseguitisi negli Usa e in altri paesi della Nato – mirare ad agire come una superpotenza espansionista e/o imperialista pressoché intoccabile, anche perché ampiamente dotata di bombe atomiche....
Proprio negli ultimi anni, le minacce di Putin all’Ucraina (già trasformate in guerra a partire dal febbraio 2022) e quelle di Pechino a Taiwan hanno acquisito significati inequivocabili. I “pienamente riusciti” esempi bellici forniti rispettivamente dalla Nato nel 1999 e da Washington col supporto di Londra nel 2003 e l’atmosfera generale che ha fatto loro seguito hanno evidentemente fatto scuola....
Appunti sul contesto che sta dietro alla guerra russo-ucraina
Uno dei significati di tutto questo è che, per molti versi, chi più ha contribuito a dar luogo a una situazione internazionale che ha incoraggiato Putin e il suo entourage e li ha convinti della possibilità di aggredire “impunemente” l’Ucraina sono stati in pratica i governi dei paesi che hanno ormai una duratura tradizione democratica e che negli scorsi decenni sono stati direttamente autori di gravi “crimini contro la pace” e “crimini di guerra”, o che hanno tollerato tali crimini senza obiettare in maniera corposa e senza chiamare minimamente in causa il diritto internazionale vigente. Tra l’altro, pure gli altri governi – inclusi quello russo e quello cinese... – potevano intervenire, però non l’hanno fatto nemmeno loro.
Ma anche il silenzio e la passività delle magistrature dei vari paesi – non di rado asservite più o meno esplicitamente al potere politico nazionale – costituiscono un fatto grave e molto pericoloso per l’effettività della democrazia e per la pace (tra l’altro, la Carta dell’Onu, la “Dichiarazione universale dei diritti umani” e i trattati applicativi di quest’ultima consentono già di per se stessi alla magistratura di uno Stato membro delle Nazioni Unite, firmatario della Dichiarazione e/o aderente a quei trattati di mettere in un modo o nell’altro sotto accusa i governanti del paese stesso e le loro scelte se queste infrangono le prescrizioni contenute in tali fonti internazionali di diritto, ma in quasi tutti i paesi la magistratura appare appunto profondamente subalterna al potere politico in molte questioni, tra le quali tipicamente proprio quelle di diritto internazionale). Analogamente, sono pericolose sia la disponibilità di molti elettori a continuare a sostenere dei governanti che si sono rivelati apertamente guerrafondai (disponibilità che spesso è anche sintomo di una pesante disinformazione dei “cittadini comuni” sull’operato reale dei governi e in generale delle pubbliche istituzioni, un operato che in molti casi si nasconde dietro notizie volutamente false o molto incomplete e dietro ampie manipolazioni mediatiche), sia la diffusissima tendenza dei politici di primo piano a non parlare di quanto di grave abbiano eventualmente fatto negli anni precedenti – specialmente in politica estera – i politici loro colleghi che stavano al governo (tendenza che così rafforza ulteriormente l’idea di una sostanziale “eterna impunità” associata a quei crimini...) [6].
In sintesi, la democrazia e il concreto spirito della pace e della giustizia non sono qualcosa di automatico che vada avanti per conto suo, ma – per non svanire e sostanzialmente dissolversi nel corso del tempo sotto le pressioni più o meno sotterranee degli egoismi divenuti sfrenati, delle smanie di potere e di dominio, delle spinte alla corruzione, ecc. – richiedono una viva collaborazione di fondo da parte di tante persone e, possibilmente, anche di vari organismi che fanno parte delle pubbliche istituzioni.
Di fronte all’odierna guerra in questione, ci si dovrebbe focalizzare anche su chi ha avuto evidentemente più interesse dal punto di vista materiale ad innescare l’attuale aggressione russa: il dittatoriale e autocratico presidente russo Putin con la sua pretesa di controllare in modo estremamente autoritario, antidemocratico, imperialista e violento la popolazione non solo del proprio paese ma anche di altri paesi, proprio come facevano secoli o millenni fa certi imperatori assolutisti che volevano attorno al proprio paese una cornice di “Stati vassalli” [7]; i produttori di gas e petrolio e i grandi commercianti di cereali (che hanno visto con grande soddisfazione i prezzi impennarsi sui mercati mondiali grazie dapprima alle minacce di guerra e poi all’inizio del vero e proprio conflitto, con l’ulteriore effetto di mettere a rischio in molti paesi la sopravvivenza stessa dei ceti sociali svantaggiati, di modo che questa è diventata dunque anche una guerra contro i poveri del mondo...); i produttori e venditori di armamenti (che quasi sicuramente continueranno a godere di un ampio riarmo mondiale per almeno un decennio, sull’onda di questo ritorno della guerra nell’interno stesso del mondo industrializzato); in generale, le élite politiche russe che si fanno propaganda mediatica con dei forzati (e in realtà quanto mai fasulli) argomenti patriottici e che stanno usando la guerra all’Ucraina per reprimere ancor di più ogni opposizione politica; e infine – dato che l’attacco armato è stato presentato anche come un sostegno alle autoproclamate “repubbliche indipendenti” costituitesi con l’appoggio di Putin nel 2014 nel territorio ucraino del Donbass (abitato in maggioranza da popolazioni russofone) [8] – i finanzieri russi pronti ad accaparrarsi le migliori risorse di un Donbass sconvolto da anni di scontri armati a bassa intensità e, per forza di cose, sempre meno organizzato democraticamente.... Oltre tutto, la Russia dell’“èra Putin” è ben nota per la presenza di una fortissima connessione tra potere governativo e grandi interessi economici, attraverso i cosiddetti “oligarchi”.
Nel contempo, tuttavia, va anche riconosciuto che in questi decenni il governo di Kiev non appare aver trovato una soluzione pienamente adeguata alle differenze culturali e linguistiche che caratterizzano, rispetto al resto del paese, i territori dell’Ucraina più orientali, abitati prevalentemente da delle popolazioni russofone [9].
Le male impostate e mal gestite tensioni tra la parte filo-occidentale della popolazione ucraina e la parte filo-russa (che verso la metà degli anni ’10 si ritrovò chiaramente minoritaria nell’insieme del paese) giunsero al punto che nel febbraio 2014 il Parlamento ucraino deliberò in modo estremamente miope e culturalmente divisivo di annullare la disposizione di legge secondo cui – specialmente nelle regioni prevalentemente russofone – la lingua russa era la seconda lingua ufficiale della nazione. Questo acuì ulteriormente le tensioni e fu uno dei fattori che innescò in quelle settimane il tentativo di secessione della Crimea e poi del Donbass verso la Russia (tentativo finora militarmente riuscito per quanto riguarda la Crimea e in pieno scontro bellico per quanto riguarda il Donbass). Nel marzo successivo il presidente ucraino Turcynov rifiutò saggiamente di firmare quel provvedimento parlamentare, che così non entrò in vigore, ma la miccia ormai era stata accesa (e la bomba sostanzialmente esplosa...).
L’Onu e l’ultimo biennio
Dopo l’improvviso avvio della “guerra di Putin” in Ucraina, vi sono stati segnali che per il diritto internazionale i venti stessero cambiando di nuovo, fortunatamente in meglio questa volta. I governi dei paesi dell’Occidente sono sembrati più consapevoli della pericolosità delle aggressioni internazionali arbitrarie (e ciò probabilmente anche a causa dei duraturi strascichi violenti e sanguinosi lasciati in Kosovo e in Iraq – e in generale nel crogiolo mediorientale – da quei due eventi bellici del 1999 e del 2003). Sono stati fatti rapidamente anche chiari richiami all’insieme della Carta dell’Onu. Di fronte ai veti russi (ovviamente quanto mai prevedibili) nel Consiglio di Sicurezza, già il 2 marzo 2022 si è tornati a fare un primo positivo ricorso – dopo diversi decenni – all’Assemblea Generale in base alla risoluzione n. 377 del 1950. E le sanzioni ampiamente adottate contro gli aggressori russi e i loro alleati bielorussi hanno mostrato una forte e complessivamente appropriata attenzione a utilizzare il più possibile strumenti efficaci di pressione economica e culturale e – pur aiutando in molti modi, incluse le forniture di armamenti, la popolazione resistente ucraina – a non cadere nella trappola di una diretta contro-aggressione militare alla Russia da parte di paesi terzi. Il 16 marzo 2022, anche la Corte internazionale di giustizia – un organismo giuridico ufficiale collegato all’Onu – ha condannato l’aggressione russa e ne ha rivendicato l’immediata cessazione, valutando come infondate e pretestuose le affermazioni dei rappresentanti istituzionali russi secondo cui l’intervento armato russo era necessario per porre termine a un genocidio che era in corso nel Donbass ai danni delle popolazioni russofone. In seguito, l’Assemblea Generale dell’Onu si è occupata di nuovo della questione con ulteriori risoluzioni, ribadendo e ampliando quanto contenuto in quella risoluzione del 2 marzo (la più recente è del 23 febbraio 2023).
Finalmente sono stati fatti di nuovo anche dei ripetuti riferimenti istituzionali ai “princìpi di Norimberga” – entrati a pieno titolo nel diritto internazionale sin dal 1950 – che in particolare consentono alla magistratura di qualsiasi paese di perseguire penalmente qualunque governante o capo militare si sia reso autore di “crimini contro la pace”, “crimini di guerra” e/o “crimini contro l’umanità” in qualche parte del mondo (princìpi che in sostanza hanno espanso ulteriormente quanto era stato stabilito nelle Convenzioni di Ginevra). Anche tribunali come la Corte penale internazionale hanno iniziato ad occuparsi dell’aggressione russa all’Ucraina. E quanto l’esercito russo ha compiuto in questo anno e mezzo in Ucraina appare costituire chiaramente non solo un pesantissimo ed inequivocabile “crimine contro la pace” ma anche – visti in particolar modo gli attacchi distruttivi contro aree urbane di tipo residenziale e le molte vittime civili, gli uni e le altre quanto mai “ingiustificabili” militarmente – anche una serie di “crimini di guerra”.
A margine di questo va anche sottolineato che il 22 febbraio 2022 – come hanno riportato in quei giorni anche varie agenzie internazionali di stampa – il Parlamento russo ha dato autorizzazione che le forze armate nazionali venissero impiegate al di fuori della Russia «sulla base dei princìpi e delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuti». Dati gli innumerevoli atti compiuti in Ucraina dall’esercito russo dopo quel 22 febbraio che non corrispondono certo a tali princìpi e norme, a Putin e ai suoi capi militari vanno attribuiti dunque, anche sul piano nazionale, sia un gigantesco “abuso d’ufficio” sia una diretta e inequivocabile responsabilità personale in tali atti.
L’amplissima reazione economica, militare, giudiziaria e politico-culturale che in questo anno e mezzo ha affiancato alla popolazione ucraina molti paesi del mondo e l’Onu stessa, malgrado il veto russo esercitato nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sta ottenendo anche l’effetto positivo di mostrare al governo cinese quanti problemi gli si aprirebbero davanti se decidesse di attaccare con le armi Taiwan dando concretamente corso così alle minacce di questi anni. In particolare, dato il fortissimo collegamento commerciale che la Cina ha attualmente sul piano industriale con molti paesi “sviluppati”, è evidente che – per effetto delle sanzioni economiche che entrerebbero in gioco – il prezzo che l’economia cinese dovrebbe verosimilmente pagare nel caso di un’aggressione bellica a Taiwan sarebbe davvero enorme: tale forse da mettere a rischio persino la stabilità politica del regime di Pechino (regime che non è affatto così amato nel paese come i suoi governanti tentano di dare a intendere...).
Lacune ed incertezze, tra politiche militariste, mentalità dualiste e frettolosità giuridiche
Di fatto, tuttavia, col passare dei mesi il ruolo dell’Onu nelle vicende sofferte dal popolo ucraino è rimasto molto limitato, lasciando in pratica quasi tutte le azioni concrete ai governi delle nazioni che si sono costituite come alleate dell’Ucraina, governi che in questa guerra si pongono in modo molto simile a come nella seconda guerra mondiale si posero i governi delle nazioni che si opposero al nazismo: cercando di vincere mediante la potenza militare sostenuta dall’industria degli armamenti, dalle strategie belliche e in generale dalla potenza economico-produttiva. In altre parole, è come se in fondo le Nazioni Unite fossero soltanto una sorta di marchio commerciale da aggiungere – e solo alla fine – su prodotti realizzati completamente da altri con la loro logica specifica intrisa di competizione su vari piani e segnata dalla poderosa influenza sotterranea di quel “complesso militare-industriale” di cui parlò così chiaramente il presidente degli Usa Dwight D. Eisenhower al termine del suo mandato nel 1961 e con cui, a quanto pare, ebbe un tragico incontro-scontro nel 1963 il successivo presidente John F. Kennedy, che a quel contrasto non sopravvisse [10]....
Con questo non si vuol dire che l’aiuto fornito alla popolazione ucraina dal gruppo di governi che la appoggia sia un errore, si vuol solo dire che la loro logica di fondo non è cambiata da 80 anni in qua, come se la “Dichiarazione universale dei diritti umani”, i suoi trattati applicativi, l’Onu, la sua tutela della pace come fondamentale obiettivo intrinseco della politica internazionale e il diritto internazionale umanitario fossero soltanto un sottilissimo e finto velo da sovrapporre al “solito” scontro brutale tra eserciti visti come macchine da guerra che imperversano su territori e persone nella prospettiva di un futuro controllo economico su quei territori e su quelle persone.... In altri termini, l’aiuto delle altre nazioni è necessario alla popolazione ucraina, ma si potrebbe fare molto di meglio che limitare in pratica questo aiuto alla sfera dell’economia, a quella degli armamenti e all’accoglienza di milioni di profughi in fuga da quello scontro. Invece i governi coinvolti stanno impostando tale aiuto in una maniera semplicistica e povera di sottigliezza, in una sorta di “braccio di ferro tra eserciti e tra economie” che continua a svolgersi in pratica secondo le modalità e le logiche impostate da Putin e dal suo entourage, come se si trattasse dell’unico modo esistente di affrontare un contrasto internazionale come quello esploso in Ucraina....
La questione è che si dovrebbe recuperare un’altra – più complessa, sensibile e creativa – capacità di sentire, di ragionare e di agire, nella quale si uniscano tra loro due caratteristiche che purtroppo da tempo sembrano non riuscire ad amalgamarsi ed intrecciarsi l’una con l’altra nella società umana: da un lato, il senso dell’etica, della solidarietà umana, della spiritualità; dall’altro, il senso della pragmaticità, dell’efficacia, della concretezza. Nell’Ottocento, il “socialismo scientifico” marx-engelsiano (che era profondamente immerso nell’umanesimo e nello spirito democratico ed era estremamente diverso dal cosiddetto “marxismo” affermatosi nel Novecento e intriso di autoritarismo, di dogmaticità e di paternalismo) si impegnò con grande intensità per far uscire dall’idealismo la cultura filosofica umana senza precipitarla in un banale e grezzo asservimento agli aspetti della vita più materiali [11]. Quasi duemila anni prima, Cristo invitava pienamente ad amare anche “i propri nemici” in uno spirito di profondissima fraternità e pace e nel contempo – come raccontano esplicitamente i Vangeli specialmente in Giovanni 18,1-11 – girava nottetempo per luoghi isolati accompagnato da pochi amici tra i quali il suo fedelissimo “braccio destro” armato di spada e pronto ad usarla, il che mette in evidenza che per Cristo stesso quel profondo amore per i “nemici” e il concetto di “porgere l’altra guancia” non dovrebbero comunque essere scissi dal senso della legittima difesa di sé e del proprio prossimo. Nel Novecento, la volontà di non separare tra loro le due caratteristiche in questione ha ispirato soprattutto, nella vita pubblica, la “Dichiarazione universale dei diritti umani” e i suoi trattati applicativi, oltre chiaramente allo spirito di fondo da cui sono nati questi accordi internazionali poi sottoscritti ufficialmente da quasi tutte le nazioni. Ma, purtroppo, questa capacità di tenere uniti nella cultura umana il lato sensibile ed etico e il lato pragmatico e concreto fatica a mantenersi viva e vitale e viene molto frequentemente soffocata e sopraffatta da uno schiacciante e dogmatico predominio dell’aspetto strettamente materiale della vita oppure da un altrettanto schiacciante e dogmatico predominio di un’etica rigidamente idealista e spiritualistica.
In tal modo, i governi che giustamente stanno aiutando l’Ucraina appaiono contrassegnati però da un pesante e cruento predominio militarista di quella materialità, mentre i “pacifisti estremi” che contestano radicalmente quest’impostazione governativa e che vorrebbero che si smettesse di aiutare con le armi gli ucraini perché ritengono che la nonviolenza sia sempre e comunque totalmente irrinunciabile (anche a costo di far subire di fatto a qualche popolo un vero e proprio genocidio...) appaiono a loro volta pesantemente contrassegnati da un controproducente predominio di tendenze idealiste e spiritualistiche. Al posto dello spirito autenticamente dialettico e olistico che varie “scuole di saggezza” e correnti politico-filosofiche hanno proposto alla comunità umana nel corso dei millenni, trionfano così il “dualismo materialista” e il “dualismo spiritualista”, con la loro abitudine a scindere la personalità umana, la società e il mondo stesso in “compartimenti stagni”, alcuni dei quali in pesante e pressoché irrisolvibile conflitto tra loro [12].... E chi non si sente soddisfatto né dall’attuale militarismo del gruppo di governi alleati dell’Ucraina, né dal “pacifismo estremo” pronto a sacrificare all’esercito russo e al dominio di Putin la popolazione ucraina in nome di un rigido principio puramente teorico e quanto mai distaccato dalla realtà, permane in una situazione di fondo attualmente caratterizzata da una sostanziale impotenza politica e da una complessiva perplessità operativa.
Sul ruolo dell’Onu nella vicenda ucraina in corso si sono anche intrecciate a livello internazionale discussioni alquanto ampie, però molto lacunose e non sempre puntuali.
Vale dunque la pena di riprodurre qui le parti principali della risoluzione n. 377 del 1950: «L’Assemblea Generale, […] consapevole che il fallimento del Consiglio di Sicurezza nell’adempiere alle proprie responsabilità nell’aiuto a tutti gli Stati membri […] non esonera gli Stati membri dai loro obblighi né le Nazioni Unite dalla loro responsabilità nel mantenere la pace e la sicurezza internazionali, […] riconoscendo in particolare che tali fallimenti non esonerano l’Assemblea Generale dalle sue responsabilità di fronte al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, […] stabilisce che se il Consiglio di Sicurezza, in mancanza di unanimità dei membri permanenti, non dovesse adempiere al suo compito primario di mantenere la pace e la sicurezza internazionali qualora si profilasse una qualsiasi minaccia per la pace, violazione della pace o atto di aggressione, l’Assemblea Generale dovrà occuparsi immediatamente della questione e indirizzare le opportune raccomandazioni agli Stati membri per deliberare misure collettive da adottare, incluso se necessario, nel caso di una violazione della pace o di atti di aggressione, l’uso di forze armate, per mantenere o ripristinare la pace e la sicurezza internazionali. Se in quel momento non fosse riunita in sessione ordinaria, l’Assemblea Generale può essere convocata in sessione straordinaria di emergenza entro 24 ore dalla presentazione della richiesta. Tale sessione straordinaria [...] potrà essere convocata su richiesta del Consiglio di Sicurezza […] o della maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite».
Nel suo articolo già ricordato, Isidoro D. Mortellaro – presentando nel 2003 quella risoluzione di mezzo secolo prima – sottolineava molto acutamente anche che essa sinora era stata «generalmente trascurata e poco studiata». A questo proposito, si considerino in particolare le grandi e complesse competenze affidate dalla Carta dell’Onu al Consiglio di Sicurezza e – nel caso di problematiche collegate alla possibilità di ricorrere alla forza (per la difesa della pace) – anche al Comitato di Stato Maggiore, che come stabilisce l’art. 47 è composto dai “capi di stato maggiore” (o loro rappresentanti) delle nazioni che sono membri permanenti di quel Consiglio e da esponenti di altre nazioni eventualmente invitati. Chiaramente, nel caso di uno stallo provocato nel Consiglio dai veti di qualcuno dei cinque governi che ne sono membri permanenti, ne deriverebbe di fatto un “blocco operativo” anche per il Comitato in se stesso, a causa della presenza – in esso – di un rappresentante specifico della nazione il cui governo sta inducendo lo stallo (con tutti i significati intrinseci di questo comportamento del governo in questione...). In altre parole, poiché per un’Assemblea Generale è pressoché impossibile seguire in mille dettagli l’evoluzione di situazioni complesse e drammatiche come è diventata certamente una crisi come quella ucraina, e poiché in base all’art. 22 della Carta «l’Assemblea Generale può istituire gli organi sussidiari che ritenga necessari per l’adempimento delle sue funzioni», l’Assemblea stessa per riuscire ad occuparsi adeguatamente di una tale situazione dovrebbe molto probabilmente istituire qualche organo ad hoc che si assuma responsabilità simili a quelle del Consiglio ed eventualmente del Comitato in questione.... Si tratta di tematiche molto sfaccettate che tuttora non hanno ricevuto pubblicamente ampi approfondimenti (anche perché, per l’appunto, quando nel 2022 si è fatto ricorso alla risoluzione 377/1950 erano decenni che non lo si faceva, a dispetto delle numerose occasioni in cui sarebbe stato necessario farlo di fronte a gravi rotture della pace nelle quali il Consiglio di Sicurezza era impedito ad agire da qualche veto).
Parallelamente a queste considerazioni, vale anche la pena di rammentare che – a dispetto delle ripetute proposte del governo ucraino di sospendere la Russia dalla sua partecipazione all’Onu – la Carta dell’Onu non lascia nessuno spazio a una tale proposta, in quanto da un lato l’art. 5 della Carta prevede che un paese «membro delle Nazioni Unite contro il quale sia stata intrapresa da parte del Consiglio di Sicurezza un’azione preventiva o coercitiva può essere sospeso dall’esercizio dei diritti e dei privilegi di membro da parte dell’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza», mentre dall’altro lato secondo l’art. 6 un paese «membro delle Nazioni Unite che abbia persistentemente violato i princìpi enunciati nella presente Carta può essere espulso dall’Organizzazione da parte dell’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza». Ma, in base all’art. 27, ciascuno dei cinque governi che in tale Consiglio hanno il “diritto di veto” lo può esercitare in tutte le decisioni del Consiglio fatta eccezione per due soli casi: quelle relative a semplici «questioni di procedura» oppure alla «soluzione pacifica di controversie» nelle quali sia implicato il paese di quel particolare governo e non sia ancora avvenuta una esplicita “rottura della pace”. In pratica, entrambe queste eccezioni non hanno nulla a che vedere con la sospensione o l’espulsione di un paese membro e, quindi, il governo della Russia mantiene sempre e comunque il suo pieno “diritto di veto” anche su questo tipo di questioni (come del resto avviene per i governi degli altri quattro paesi dotati di tale diritto).... E anche sulle eventuali modifiche alla Carta dell’Onu le pubbliche istituzioni di questi cinque paesi hanno di fatto un “diritto di veto”, come viene loro garantito dagli articoli 108 e 109 [13].
In sintesi, è vero che da tempo la Carta dell’Onu mostra di essere alquanto datata e limitata, come è stato fatto notare da tante voci [14], ma è anche vero che quella risoluzione 377 consente possibilità concrete molto più ampie di quanto sia stato esplorato sino ad ora. Durante questo anno e mezzo, dunque, sarebbe stato quanto mai opportuno mettere a punto prospettive e proposte operative adeguate alla cruenta situazione in corso in Ucraina e riuscire ad ottenere un voto favorevole dell’Assemblea Generale su di esse. È un’opportunità che non avrebbe dovuto essere trascurata (data la grande tragicità del contesto), né ovviamente affrontata con superficialità (data l’estrema pericolosità del contesto).
Finora però questa vasta opportunità è rimasta pienamente nel mondo delle ipotesi. I “caschi blu” dell’Onu sono rimasti altrove. Il territorio ucraino è un campo di battaglia e l’Onu ha praticamente rinunciato a difendere la pace in tutto quel territorio. Persino le sanzioni economiche rivolte da numerose nazioni alla Russia sono state ufficialmente un’iniziativa volontaria di quelle nazioni, senza una precisa indicazione dell’Onu in tal senso, anche se in modo molto vago possono essere considerate come uno dei suggerimenti della risoluzione approvata dall’Assemblea Generale il 2 marzo 2022, il cui punto 14 invitava con forza alla ricerca di una «soluzione pacifica del conflitto [...] attraverso il dialogo politico, negoziati, mediazioni e altri mezzi pacifici» (peraltro, la Russia sinora appare essere riuscita ad assorbire senza troppi problemi quelle sanzioni, grazie anche alle varie forme di collaborazione offertale da vari governi, come specialmente – per quanto se ne sa pubblicamente – quelli della Cina, dell’Iran e della Corea del Nord). L’Assemblea Generale dell’Onu si è limitata ad utilizzare una minima parte delle possibilità offerte dalla risoluzione 377 e nessun governo – nemmeno quello ucraino – sta rivendicando un ricorso alla parte restante di quelle possibilità. Ma non è mai troppo tardi.... “Meglio tardi che mai”, dice il proverbio....
Annotazioni sulle possibilità operative dell’Onu nella “riconquista” della pace
Tra le possibilità concesse all’Assemblea Generale dell’Onu da quella risoluzione 377, l’Assemblea stessa potrebbe ad esempio istituire un Consiglio ad hoc e un Comitato ad hoc (dotati – per il caso specifico della crisi ucraina – di poteri analoghi a quelli generali attribuiti rispettivamente al Consiglio di Sicurezza e al Comitato di Stato Maggiore), composti l’uno dai rappresentanti degli Usa, della Gran Bretagna, della Francia e di altri paesi i cui governi hanno criticato esplicitamente l’aggressione russa all’Ucraina e l’altro dai “capi di stato maggiore” (o loro rappresentanti) di diversi dei paesi in questione. E potrebbe prevedere che nel territorio ucraino avvenga lo schieramento dei “caschi blu” e di consistenti forze armate di appoggio e abbia luogo poi il loro progressivo spostamento “in avanti” – a partire ovviamente dalle aree rimaste sotto il pieno controllo dell’Ucraina – fino a indurre un “cessate il fuoco” in tutto il territorio, così da consentire l’avvio di un confronto diplomatico serio, umanamente impegnato e giuridicamente consapevole tra le parti in causa. Ovviamente, quest’azione andrebbe organizzata nei suoi concreti dettagli non dall’intera Assemblea ma da organi specifici come quel Consiglio ad hoc e quel Comitato ad hoc. E, se l’esercito russo decidesse di scontrarsi apertamente con i “caschi blu” e con le forze armate internazionali ufficialmente schierate in appoggio ad essi nella tutela della pace, la posizione del governo russo nel panorama politico mondiale diverrebbe ancor più indifendibile, isolata e senza sbocchi sensati, oltre che ancor più oggetto di serrate indagini sui vari “crimini di guerra”.
Imboccando una direzione operativa del tipo qui delineato, l’Assemblea Generale dovrebbe evidentemente associarle due prospettive di fondo: da un lato, non andrebbero affatto tolte le sanzioni economiche e politiche internazionali alla Russia né interrotto il sostegno militare internazionale all’Ucraina finché il governo russo non abbia rinunciato a ogni pretesa di controllare e condizionare militarmente o politicamente l’Ucraina e i suoi abitanti; dall’altro lato, considerata in particolare la complessa storia della Crimea nell’ultimo secolo tra Russia e Ucraina [15], andrebbe garantita alla popolazione della Crimea la possibilità di un dirimente referendum popolare sulla collocazione nazionale della regione stessa, sorvegliato da osservatóri internazionali e da attuare entro un breve arco di tempo (indicativamente, non più di un anno dal quel totale “cessate il fuoco” nel territorio ucraino), mentre all’intera popolazione del Donbass andrebbero garantiti sia la possibilità di un rapido ritorno di tutti gli sfollati, supportato da ogni facilitazione e ogni aiuto pratico fattibili (data anche la pesantissima distruzione avvenuta in molte parti della regione), sia – come minimo – uno statuto di pieno bilinguismo e di forte autonomia regionale o provinciale. La comunità internazionale e l’Onu dovrebbero porsi come fondamentale supporto ed eventuale garanzia anche in questa evoluzione futura, proprio per evitare che da delle semplici differenze di cultura e di tradizione come quelle che vi sono in quest’area tra le popolazioni di lingua ucraina e quelle di lingua russa continuino a derivare gravi tensioni politiche, militari e addirittura belliche, oltre tutto con una valenza anche internazionale (tra l’altro, il capitolo VI della Carta dell’Onu è dedicato proprio alla ricerca di un superamento delle varie tensioni che possono porre minacce al mantenimento della pace nel mondo). In questo, potrebbe anche essere posta in discussione la possibilità futura di un ulteriore referendum riguardo alle varie aree del Donbass, come parte delle normali procedure democratiche della nazione ucraina, ma con eventuali tempi operativi molto più lunghi (data la necessità di ripristinare nel frattempo una consistente qualità della vita popolare in tutta la regione) e senza un impegno specifico dell’Onu per il suo eventuale svolgimento.
Non si dimentichi inoltre che le popolazioni ucraine danneggiate dall’aggressione compiuta dall’esercito russo potrebbero rivendicare legittimamente delle “riparazioni di guerra” da prelevare dall’attuale enorme patrimonio personale degli odierni capi politici e militari della Russia (che hanno deciso e diretto la guerra dal chiuso delle loro stanze, non certo attraverso un processo veramente democratico), dei loro prestanome (familiari o altro) e delle imprese da loro controllate.
In pratica, questo insieme di possibilità appare essere la strada maestra – in questa crisi ucraina che con la prosecuzione dell’andamento attuale rischia fortemente di prolungarsi tragicamente in modo quasi indefinito – per giungere ad un effettivo accordo e una piena sintonia con l’attuale diritto internazionale (che saggiamente non consente più a una nazione di aggredirne un’altra ed invaderla in una maniera che si possa considerare “legittima”) e in particolare con i fini esplicitati nella Carta dell’Onu.
Non si può dunque che invitare la “società civile”, il mondo politico e la magistratura dei diversi paesi, così come i rappresentanti ufficiali dell’Onu e delle sue varie ramificazioni, a tenere ben presenti le varie ed ampie possibilità che il diritto vigente (inclusa in particolare la succitata risoluzione 377/1950) offre loro a favore della pace e ad attivarsi per metterle – o mantenerle – in moto in modo congruo ed efficace, con la duratura perseveranza necessaria a giungere a soluzioni che ripristinino effettivamente tanto i diritti degli ucraini (e dei russi stessi, che come soldati sono stati inviati da Putin in Ucraina per essere sia agenti che vittime di morte, e come cittadini vengono sistematicamente repressi e incarcerati se osano criticare questa guerra), quanto l’insieme della legalità internazionale nel territorio in questione.
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