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Guerra “NATO” a Gaza: le reazioni di Russia, Cina, e Sud del mondo

di Roberto Iannuzzi

L’appoggio incondizionato a Israele da parte dell’Occidente, e lo schieramento di un’intera flotta nel Mediterraneo orientale, aggravano una polarizzazione internazionale già in atto

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Il ministero delle finanze israeliano ha stimato che le operazioni belliche a Gaza hanno un costo di 270 milioni di dollari al giorno. Secondo altre valutazioni, ciò avrà un peso sulle casse dello stato ebraico pari a 48 miliardi nel 2023-2024.

Circa un terzo di questa somma sarà coperto dagli USA. Il presidente americano Biden ha promesso a Tel Aviv un pacchetto di 14,3 miliardi di dollari, che si aggiunge ai 3,8 miliardi che Washington elargisce annualmente a Israele sulla base di un accordo decennale.

Sebbene il pacchetto straordinario potrebbe non essere approvato prima della fine dell’anno a causa delle priorità del Congresso e della sua crescente disfunzionalità, gli Stati Uniti già ora inviano armi di ogni tipo ad Israele.

A differenza del flusso di armamenti USA verso l’Ucraina, quello diretto a Israele è avvolto nella quasi totale segretezza. Secondo alcune parziali rivelazioni, esso include decine di migliaia di proiettili d’artiglieria da 155 mm, migliaia di bombe ad alto potenziale e migliaia di missili Hellfire.

Biden è anche orientato a cancellare ogni restrizione al trasferimento di armi a Tel Aviv dall’arsenale USA presente sul territorio israeliano. Creato negli anni ’80 del secolo scorso per rifornire gli Stati Uniti nell’eventualità di una guerra regionale, il War Reserve Stockpile Allies-Israel (WRSA-I) è il più grande di una rete di depositi di armi che Washington ha disseminato nei paesi alleati in tutto il mondo.

Una delle restrizioni che dovrebbero essere eliminate è il tetto di spesa annuale di 200 milioni di dollari per mantenere rifornito il WRSA-I. Ciò permetterebbe all’arsenale di rimpiazzare qualsiasi quantità di armi utilizzata. Siccome Israele, una volta cancellate le altre restrizioni, potrebbe liberamente accedere al WRSA-I, ciò creerebbe un flusso ininterrotto di ogni tipo di armi da Washington a Tel Aviv.

“Tutti i nostri missili, le munizioni, le bombe guidate, tutti gli aerei […], tutto viene dagli USA.[…] Chiunque comprende che non possiamo combattere questa guerra senza gli Stati Uniti. Punto”. Così si è recentemente espresso, in un’intervista, il generale israeliano in congedo Yitzhak Brick.

In realtà, Israele ha una propria robusta industria bellica che esporta in tutto il mondo, ma anch’essa è stata costruita con i finanziamenti americani e dipende tuttora dagli Stati Uniti.

Gli intercettori del sistema israeliano di difesa missilistica Iron Dome sono prodotti dall’americana Raytheon. I radar che proteggono Israele da eventuali minacce missilistiche a medio raggio (in particolare dall’Iran) sono anch’essi americani, situati nel deserto del Negev.

L’amministrazione Biden ha anche dispiegato un’ingente forza aerea e navale tra il Mediterraneo orientale, il Mar Rosso e il Golfo Persico, per “dissuadere” altri attori regionali – in primo luogo il libanese Hezbollah – dall’intervenire nel conflitto in corso a Gaza.

Washington ha dunque un enorme potere per influenzare le scelte strategiche israeliane, la sua condotta di guerra, ed eventualmente anche per spingere Tel Aviv a porre fine al conflitto.

 

Una guerra “NATO”

La maggior parte delle armi americane dirette a Israele converge dalle basi in Germania, Spagna e Turchia verso la grande base britannica di Akrotiri a Cipro. Quest’ultima sorge su territorio sovrano del Regno Unito, un possedimento d’oltremare, secondo l’Accordo di Londra del 1959 che concesse l’indipendenza a Cipro.

Le basi anglosassoni a Cipro costituiscono un centro di spionaggio britannico e americano dal quale monitorare gran parte del Vicino Oriente, dalla Turchia alla Siria, al Libano e alla stessa Palestina.

Molto probabilmente, almeno alcuni dei droni USA che sorvolano Gaza decollano da Akrotiri. La base è divenuta un vero e proprio centro di smistamento per le operazioni nella Striscia. Decine di aerei militari da trasporto britannici sono partiti alla volta di Tel Aviv dall’inizio del conflitto.

Il governo di Londra ha bloccato le interrogazioni di alcuni parlamentari intenzionati a far luce sulle attività in corso ad Akrotiri. Nel frattempo, ha anche dispiegato centinaia di forze speciali in Libano, ufficialmente in una missione di addestramento possibilmente finalizzata al salvataggio degli ostaggi britannici a Gaza e all’evacuazione di “personale non combattente” nell’eventualità di un allargamento della guerra.

Ma è presumibile che il rafforzamento dei rapporti con l’esercito libanese rappresenti anche uno strumento per conoscere e influenzare il processo decisionale a Beirut – un fronte chiave che preoccupa Israele, in direzione del quale potrebbe espandersi il conflitto.

La Gran Bretagna ha anche tre navi da guerra, una nel Mediterraneo orientale e due nel Golfo, alle quali si sono aggiunti vascelli di supporto logistico.

Parigi, dal canto suo ha inviato la Tonnerre, una delle imbarcazioni più importanti della flotta francese. Definita un po’ ingannevolmente una “nave ospedale”, essa è in realtà una portaelicotteri d’assalto anfibio che ospita anche una piccola unità ospedaliera con 69 letti (un aiuto poco più che simbolico per la disastrosa emergenza umanitaria in cui versa Gaza).

Piuttosto, essa è equipaggiata per eventuali operazioni di evacuazione e, grazie alla sua sofisticata strumentazione, può svolgere attività di intelligence e sorveglianza marina. La Tonnerre è inoltre scortata da due fregate.

Nel frattempo, le esportazioni tedesche di armi verso Israele sono cresciute vertiginosamente dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Quest’anno Berlino ha inviato a Tel Aviv oltre 300 milioni di euro di materiale bellico, un aumento di dieci volte rispetto al 2022. 185 delle 218 licenze concesse quest’anno sono state approvate dopo il 7 ottobre.

L’Italia ha offerto il suo non piccolo contributo, concedendo la base di Sigonella come scalo per il ponte aereo fra la base tedesca di Ramstein e quella israeliana di Nevatim, e come punto di partenza dei droni USA.

Roma ha inoltre messo a disposizione il pattugliatore d’altura Paolo Thaon di Ravel, la nave anfibia San Giorgio, e due fregate (la Virginio Fasan e la Carlo Margottini), a cui si è aggiunta poi la nave di supporto logistico (e di primo soccorso, 16 posti letto) Vulcano.

In totale, oltre 50 navi americane ed alleate, incluse quelle dello Standing NATO Maritime Group 2, operano in questi giorni fra il Mediterraneo orientale e il Medio Oriente.

 

Dispersione delle forze USA

Con l’apertura del fronte di Gaza, gli USA si trovano contemporaneamente coinvolti in tre serie crisi geopolitiche in differenti parti del mondo. Nell’Europa orientale, Washington è impegnata in una guerra per procura con la Russia in Ucraina. Nel Pacifico, rischia uno scontro frontale con la Cina sulla questione di Taiwan. In Medio Oriente, le truppe americane potrebbero farsi risucchiare in un conflitto regionale, con conseguenze imprevedibili.

Biden ha più volte postulato un legame fra queste crisi. “La leadership americana è ciò che tiene insieme il mondo”, ha affermato in un discorso nel mese di ottobre. “I valori americani sono ciò che ci rende un partner con cui altre nazioni vogliono collaborare. Mettere tutto ciò a rischio, se ci allontaniamo dall’Ucraina, se voltiamo le spalle a Israele, non vale la pena”.

Secondo i suoi detrattori, il coinvolgimento degli USA in molteplici crisi non fa altro che disperdere e sovraccaricare le forze statunitensi, correndo inutili rischi, infiammando conflitti locali, e privando gli americani di risorse che potrebbero essere meglio impiegate in patria.

La guerra in Ucraina aveva già creato un problema di risorse a livello militare. Gli USA avevano dovuto rinviare la consegna di armi a Taiwan, mentre l’esercito ucraino aveva dovuto razionare i proiettili di artiglieria sul campo di battaglia.

Ora, dopo il 7 ottobre, le consegne americane di tali proiettili all’Ucraina sono calate del 30%.

Il sostegno dell’opinione pubblica statunitense (già logorata da difficoltà interne) a prolungate guerre all’estero, soprattutto quando non producono risultati positivi, cala in maniera consistente nel tempo.

Secondo Fiona Hill, già membro del Consiglio per la sicurezza nazionale, i conflitti in Ucraina e a Gaza potrebbero produrre cambiamenti sostanziali nell’ordine internazionale, per certi versi paragonabili a quelli determinati dai conflitti mondiali del secolo scorso.

Entrambi hanno provocato un’ulteriore polarizzazione a livello globale, delineando due schieramenti contrapposti: da un lato gli Stati Uniti con i loro alleati, dall’altro Russia, Cina, Iran e altri paesi del cosiddetto Sud del mondo.

Al pari del governo di Kiev, la Hill sostiene che la guerra di Gaza “aiuta Putin”, in quanto distoglie gli Stati Uniti e l’Europa dall’Ucraina. Un’opinione espressa anche da altri negli USA.

Il processo di polarizzazione internazionale è accentuato dall’insistenza di Biden ad accomunare le due crisi, ponendo sullo stesso piano la Russia, Hamas e l’Iran. Lo scorso ottobre, egli ha affermato che sia Putin che Hamas vogliono distruggere “una democrazia confinante”. Meno di un mese dopo, in un editoriale sul Washington Post, il presidente americano ha ribadito che entrambi “sperano di far collassare la stabilità e l’integrazione regionale, e di trarre vantaggio dal successivo disordine”.

Ancora una volta, Biden ha definito gli USA la “nazione indispensabile”, aggiungendo che “il mondo guarda a noi per risolvere i problemi del nostro tempo”.

 

Crescente freddezza tra Mosca e Tel Aviv

Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale USA, John Kirby, ha espresso la preoccupazione che l’Iran, il quale ha già rifornito la Russia di droni e munizioni da impiegare nel conflitto ucraino, possa anche vendere a Mosca missili balistici che accrescerebbero ulteriormente il vantaggio russo su Kiev.

Nel frattempo Teheran ha annunciato di aver acquistato caccia Sukhoi Su-35 ed elicotteri d’attacco dalla Russia.

Dal canto suo, Mosca ha cercato di mantenere una posizione relativamente neutrale nel conflitto di Gaza, posizionandosi come possibile mediatore, ed essenzialmente accusando gli USA di aver a sua volta fallito nel proprio ruolo di intermediario imparziale e di non essere riusciti a risolvere la questione israelo-palestinese.

Il 10 ottobre, il presidente russo Putin ha rivolto accuse di questo tenore, allo stesso tempo invocando una risoluzione pacifica del conflitto che apra la strada ad uno stato palestinese indipendente.

Mosca ha un rapporto storico con Israele, ulteriormente cementato dalla relazione di amicizia fra Putin e Netanyahu, di cui quest’ultimo si era più volte vantato. Tale rapporto aveva resistito alla guerra in Siria, che aveva visto i due paesi schierati su fronti contrapposti, ed anche al conflitto ucraino.

Lo scoppio della guerra a Gaza ha tuttavia aperto delle fratture nella relazione tra i due paesi. Come ha scritto l’analista russo Fyodor Lukyanov, l’appoggio incondizionato a Tel Aviv da parte di Stati Uniti ed Unione Europea ha in qualche modo reso Israele parte integrante dell’“Occidente collettivo” aspramente contrapposto alla Russia.

Isolata da USA e UE, Mosca ha ora bisogno di quel Sud del mondo che ha condannato Israele e trattato i palestinesi con comprensione. Ciò non significa che la Russia appoggi Hamas, un esponente di quell’Islam politico che Mosca ha sempre guardato con sospetto, e con cui si è trovata in conflitto durante le guerre cecene, e successivamente in Siria.

Ma la posizione di relativa equidistanza tenuta dal Cremlino non è piaciuta a Tel Aviv. Gli israeliani non hanno apprezzato la decisione russa di accogliere a Mosca una delegazione di Hamas, interpretandola come “ostile” a Israele.

Secondo diversi think tank israeliani, Hamas, considerata da Mosca non come un’organizzazione terroristica ma come un legittimo rappresentante del popolo palestinese di Gaza, sarebbe in linea con l’agenda mediorientale russa, la quale vedrebbe l’Iran (alleato di Hamas) come un partner strategico ed avrebbe interesse a far fallire la normalizzazione dei rapporti fra Israele e Arabia Saudita.

Tale normalizzazione, infatti, rimuoverebbe ogni ostacolo alla formazione di un’alleanza fra USA, Israele ed i paesi arabi del “blocco” saudita (quelli dei cosiddetti Accordi di Abramo), la quale rappresenterebbe una sfida agli interessi di Russia, Iran e Cina nella regione.

L’irrigidimento di Tel Aviv, assieme ai ripetuti bombardamenti israeliani degli aeroporti di Damasco e Aleppo in Siria, dove la Russia coltiva importanti interessi, ha a sua volta provocato dichiarazioni via via più irritate da parte di Mosca, ed espressioni russe di condanna più o meno diretta della condotta israeliana in sede ONU.

 

La posizione cinese non piace a Israele

Anche la Cina, di fronte al conflitto di Gaza, ha adottato una sorta neutralità “filo-palestinese”. Il ministero degli esteri cinese ha condannato gli “atti che danneggiano i civili, […] aggravano il conflitto e destabilizzano la regione”, senza tuttavia indirizzare critiche esplicite a Hamas.

Allo stesso tempo, Pechino ha sottolineato ancora una volta la necessità di riavviare i colloqui di pace e di implementare la soluzione dei due stati.

Successivamente, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha descritto la reazione israeliana all’attacco del 7 ottobre come qualcosa che va “oltre l’ambito dell’autodifesa”, ha invocato un cessate il fuoco e ha invitato Israele a porre fine alla “punizione collettiva della popolazione di Gaza”.

Washington ha reagito in modo alquanto sprezzante alle dichiarazioni cinesi. Il neo-nominato Inviato speciale per le questioni umanitarie del Medio Oriente, David Satterfield, ha dichiarato alla rivista Politico: “I cinesi non vogliono realmente prendere posizione su nessuna di queste questioni. Non hanno davvero molta influenza, in un modo o nell’altro. Non vengono presi seriamente da nessuna delle controparti. Nessuno vuole offenderli, ma non sono degli attori [rilevanti]. E questa non è una novità: è stato così negli ultimi 20-25 anni”.

Sotto la guida di Mao Zedong, la Cina aveva appoggiato regimi arabi nazionalisti di ispirazione socialista come Egitto, Siria e Algeria. Ma dopo aver allacciato relazioni diplomatiche con Israele nel 1992, i rapporti economici fra Pechino e Tel Aviv erano cresciuti in numerosi settori.

Nel 2022, gli scambi commerciali fra i due paesi avevano raggiunto i 24 miliardi di dollari (ma, per fare un paragone, quelli fra Pechino e Riyadh si attestano sui 106 miliardi). L’interesse cinese per il porto israeliano di Haifa, nel quadro della sua Belt and Road Initiative, aveva spinto Washington ad ammonire Tel Aviv che gli investimenti cinesi nelle infrastrutture strategiche del paese avrebbero influito negativamente sul rapporto fra USA e Israele.

Così come nel caso della Russia, la linea adottata dalla Cina sulla crisi di Gaza non è piaciuta al governo Netanyahu. Secondo l’Institute for National Security Studies (INSS) israeliano, Pechino non solo non ha operato una distinzione fra il popolo palestinese e “l’organizzazione terroristica di Hamas”, ma non ha saputo prevedere l’entità della risposta di Washington, che si è spinta a inviare armi a Israele, a mandare nel paese importanti esponenti dell’amministrazione (incluso il presidente Biden), e addirittura a schierare due portaerei nella regione.

Secondo questa visione israeliana, Pechino si sarebbe venuta a trovare al fianco di paesi come Siria, Iran e Russia, che costituiscono un asse di opposizione agli USA nella regione.

Una simile tesi è sostanzialmente condivisa dal Begin-Sadat Center for Strategic Studies (BESA), un altro importante think tank israeliano, secondo il quale la Cina avrebbe abbandonato la sua posizione neutrale nella regione, adottando una postura anti-israeliana e rafforzando l’asse Cina-Russia-Iran-Corea del Nord. L’India, e in una certa misura anche Giappone e Corea del Sud, si sarebbero invece posti al fianco di Israele.

 

L’Occidente perde il Sud del mondo

La crescente polarizzazione internazionale, ulteriormente favorita dal conflitto di Gaza, è parsa evidente in sede ONU, dove non solo Russia e Cina si sono opposte a Washington, ma è emersa sempre più chiaramente la frattura fra Occidente e Sud del mondo.

Tale frattura, evidente sulla crisi di Gaza, si estende tuttavia a numerose altre questioni, come confermato dal voto del 7 novembre, da parte della Terza Commissione dell’Assemblea generale dell’ONU, su questioni che andavano dalla condanna del ricorso alle sanzioni come strumento unilaterale di coercizione, all’avanzamento di un ordine internazionale equo e democratico, alla promozione della diversità culturale e di un’equa distribuzione geografica nella composizione degli organismi sui diritti umani, alla condanna dell’impiego di mercenari.

Le dodici bozze di risoluzione sono state approvate malgrado la compatta opposizione del cosiddetto “Occidente collettivo”, composto da USA, Europa, Israele, Australia, Corea del Sud e Giappone.

La settimana appena trascorsa ha poi visto la Cina unirsi ad altri 90 paesi nell’adottare una risoluzione dell’Assemblea generale che invita Israele a ritirarsi dalle Alture del Golan siriane, occupate dal 1973. Una risoluzione che ha visto il voto favorevole di tutti i paesi arabi.

Sostenendo incondizionatamente Israele a livello politico, e supportandone lo sforzo bellico al punto da creare un ponte aereo per l’invio di armi, e schierare un’intera flotta nel Mediterraneo orientale, gli USA hanno abbandonato ogni residua neutralità nel conflitto israelo-palestinese, agli occhi del resto del mondo.

Ponendo il veto a ogni risoluzione ONU che chiedeva un cessate il fuoco, Washington ha ancora una volta abusato della propria leadership internazionale, ed è anzi diventata complice del massacro di Gaza, non solo secondo i paesi arabo-islamici, ma anche secondo altri paesi in via di sviluppo.

L’amministrazione Biden è stata privatamente messa in guardia dai diplomatici USA sull’incontenibile collera popolare che sta emergendo nel mondo arabo contro Washington. “Stiamo perdendo un’intera generazione”, è stato il messaggio inviato alla Casa Bianca.

Ma non si tratta solo del mondo arabo. Le immagini dello sterminio in corso a Gaza resteranno indelebilmente scolpite nella mente di milioni di persone al di fuori dell’Occidente. Il resto del mondo ha ormai i propri giornalisti e i propri media, che propongono agli spettatori immagini molto più crude di quelle che filtrano sulle TV occidentali, su ciò che avviene nella Striscia. Il monopolio occidentale sulla narrazione ormai è finito.

C’è da chiedersi quale credibilità avranno ancora i leader politici di USA ed Europa allorché parleranno ancora di diritti umani, giustizia, legalità internazionale e democrazia a un’audience non occidentale, dopo aver sostenuto l’annientamento della popolazione civile di Gaza.

Appena 47 giorni dopo l’inizio della guerra in Ucraina, Biden accusò la Russia di commettere un genocidio. Nessuna critica paragonabile è giunta da Washington, o da Bruxelles, all’indirizzo di Tel Aviv di fronte a un’operazione militare che, per la sua violenza, ha invece spinto esperti occidentali a parlare apertamente del rischio di una pulizia etnica, e addirittura della possibilità di un genocidio nell’enclave palestinese.

Similmente, la Corte penale internazionale incriminò il presidente russo Putin accusandolo di aver deportato in Russia alcune migliaia di bambini, ma nessuna accusa formale è stata mossa contro Israele per aver ucciso oltre 6.000 bambini a Gaza.

Questo doppio standard non è passato inosservato al di fuori dell’Occidente. “Abbiamo definitivamente perso la battaglia nel Sud del mondo”, ha recentemente affermato un diplomatico del G7. “Tutto il lavoro che abbiamo svolto con il Sud del mondo [sull’Ucraina] è andato perduto . . . scordatevi le regole, scordatevi l’ordine mondiale. Non ci ascolteranno mai più”.

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