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inchiesta

Recensione a “La Cina al centro” di Maurizio Scarpari

di Giangiorgio Pasqualotto

Recensione a Maurizio Scarpari, La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, Bologna, il Mulino 2023

2565939006885 0 0 424 0 75.jpgDi Maurizio Scarpari, uno dei più importanti sinologi italiani – già docente di ”Lingua cinese classica” all’Università Ca’ Foscari di Venezia – l’editrice bolognese “il Mulino” ha appena pubblicato La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, un volume importante, denso di aggiornatissime informazioni altamente qualificate, ma anche impreziosito da riflessioni di carattere strico e filosofico. Il libro si presenta in una prospettiva di continuità e di completamento rispetto al precedente Ritorno a Confucio, apparso nel 2015, sempre per i tipi dell’editrice “il Mulino”. I due volumi risaltano entrambi come strumenti indispensabili per conoscere, da un lato, i principi della grande tradizione culturale cinese e, dall’altro, l’enorme influsso che essi continuano ad avere nella storia recente della politica cinese tendente a rivendicare, con forza sempre maggiore, un ruolo egemone nel presente e nel futuro del mondo contemporaneo.

La Cina al centro si presenta in realtà come un notevole approfondimento dei problemi connessi alla ripresa e all’aggiornamento della grande tradizione culturale cinese in funzione egemonica con intenzioni globali. Le prime due parti del libro vengono dedicate a chiarire il più possibile i termini e i modi di tale ripresa e di tale aggiornamento, componendo in ‘figure’ leggibili un enorme quantità di dati ricavati sia dai documenti ufficiali cinesi sia dai commenti prodotti da alcuni dei più significativi esperti occidentali delle politiche cinesi recenti, attuali e future. Scarpari, tuttavia, regge ottimamente il peso di questo immenso materiale documentale, grazie, certo, a una collaudata esperienza di storico e di critico, ma anche grazie a un ‘pathos’ personale ben riassunto in questa considerazione: “E’ stata delusa la speranza di chi, come il sottoscritto, aveva coltivato l’idea […] che si potesse creare col tempo una forma ibrida di governance, che potremmo definire ‘morbida’.

Ovverossia che si potessero integrare il confucianesimo idealista, tanto celebrato da Xi Jinping […] con gli ideali maoisti di ispirazione marxista-leninista che ancora resistevano in una società nella quale sembravano emergere e prevalere nuove tendenze, accettando quei principi riformatori in ambito economico e imprenditoriale che erano stati introdotti alla fine degli anni Settanta da Deng Xiaoping” (pp. 24-25). Qui Scarpari individua ed esplicita un disagio che non è solo personale: il senso di questa ‘speranza delusa’ ha infatti colpito molti della nostra generazione interessati alle vicende della Cina, anche se poi alcuni si sono rassegnati a mal sopportare i dati di fatto, e altri hanno deciso addirittura di reprimere il loro antico amore per la Cina passando a entusiasmarsi per qualche isterica risposta di un Occidente sempre più confuso e impacciato di fronte ai successi e all’intraprendenza cinesi. Scarpari ricorda nello specifico che quella speranza era stata accesa soprattutto dal discorso di Den Xiaoping del 13 dicembre 1978, in cui vennero indicate le principali direzioni per il superamento del maoismo e anche di alcuni dogmi del marxismo, introducendo delle sperimentazioni a livello locale ed estendendole poi a livello nazionale solo in caso di risultati efficaci. In tal modo fu avviato quel movimento di “riforme e apertura” che in pochi anni consentì alla Cina di fuoriuscire dal sottosviluppo. Tuttavia, nonostante le riforme, la Cina di Den Xiaoping deluse le aspettative di una nuova era pienamente democratica, soprattutto per quanto riguarda i diritti civili e quelli delle minoranze uigure e tibetane. Il momento più critico di questa delusione si ebbe con la nefasta risposta ai moti della primavera del 1989, che provocò centinaia (forse migliaia) di morti.

Oggi tuttavia si deve constatare, come precisa Scarpari, che l’obiettivo primario dei leader cinesi, da Mao a Xi Jinping, è rimasto quello di riportare la Cina al centro delle politiche e delle economie mondiali, liberandola una volta per tutte dal giogo delle potenze straniere. Dal momento in cui Xi Jinping si è insediato come Segretario Generale del Partito Comunista cinese e come Presidente della Commissione militare centrale del Partito (15 novembre 2012), ha cercato di raggiungere questo obiettivo primario mediante un “rinnovamento/ringiovanimento” (fuxing) del Partito comunista e dell’intera società cinese. Come elemento non solo integrante ma centrale di questo rinnovamento è stato considerato il rilancio della tradizione culturale, e, in particolare, dei valori etici confuciani. Prendendo in considerazione i 17 paragrafi che costituiscono il programma di governo per il decennio 2012-2022, si può notare come i primi tre abbiano come punto focale la questione di una nuova morale socialista ispirata all’etica confuciana. Se contemporaneamente si ricorda il contenuto dell’intervento di Xi Jinping al XVIII Congresso centrale del Partito Comunista del 27 settembre 2016, si deve constatare che la ripresa di elementi dell’etica confuciana viene effettuata in una prospettiva di politica non solo interna, ma anche internazionale: “Dobbiamo cogliere l’opportunità, intraprendere azioni adeguate per promuovere un ordine internazionale più giusto, equo e razionale, e una migliore tutela degli interessi comuni del nostro paese e di quelli in via di sviluppo” (p. 123). Questa prospettiva generale si articola in tre direzioni particolari: 1) promuovere un sistema di relazioni internazionali grazie a una diplomazia da grande paese “con caratteristiche cinesi”; 2) favorire la cooperazione e l’interconnessione tra le nazioni per la conoscenza reciproca e un libero commercio; 3) creare una comunità che, nei suoi modelli comunicativi, punti sul dialogo e non sulla coercizione e sull’intimidazione. Sembra che questo vasto programma sia in effetti tenuto ben presente da Xi Jinping se, come ci ricorda Scarpari, il leader cinese, durante i primi cinque anni del suo primo mandato, ha visitato 57 paesi ed ha tenuto più di cento discorsi pubblici. Anche se va osservato che questo poderoso progetto di “costruire una comunità dal destino/futuro condiviso per l’umanità” (goujian mingyun gongtongti) sembra di fatto sottovalutare molti squilibri economici interni e diverse asimmetrie nei rapporti internazionali, oltre che le realtà assai problematiche dello Xinjiang e del Tibet. Comunque sia, Scarpari si premura di ribadire che l’asse portante della prospettiva generale proposta da Xi Jinping – già delineata da Hu Jintao nel 2005 – ha le sue fondamenta più profonde nella tradizione classica, in particolare nell’enfasi che ha sempre sorretto l’idea di ‘armonia’ (he) in contrapposizione a quella di ‘omologazione’ (tong). Qui Scarpari si concede una breve e interessante digressione filologica che ha anche una notevole importanza teorica e, più in generale, filosofica: nel lessico politico classico esiste il composto hetong che indica una “massima armonia possibile”, ossia una fusione dei due concetti opposti. Ciò non deve sorprendere perché uno dei caratteri generali del pensiero cinese classico è quello della complementarietà che si trova esaltata in particolare nel modello cosmologico ed etico dello yin/yang. Ma l’aspetto forse più interessante è che – come osserva Scarpari – già l’idea di he (armonia) significa un processo più che uno stato: “La ricerca del punto di perfetto equilibrio tra posizioni e visioni diverse o tra opposti non sta necessariamente al centro. Lungo l’asta di una stadera il punto di equilibrio si stabilizza in base ai diversi pesi posti di volta in volta agli estremi dello stilo, non corrisponde a una posizione predefinita o al centro, né può dirsi fissa, immutabile” (p. 130). In linea teorica, quindi, la ricerca dell’armonia, sia all’interno che all’esterno della Cina, non dovrebbe tendere a un’imposizione forzata di modelli prefissati, ma dovrebbe realizzarsi in una costante ricerca dei migliori equilibri possibili in presenza di condizioni variabili. Scarpari riconosce che, nonostante questa raffinata impostazione dialettica su cui dovrebbero fondarsi politiche di aggiustamenti continui, “l’intera storia cinese si è basata sull’imposizione di costumi e valori, ritenuti superiori” (ibidem). Vanno allora prese in considerazione e vagliate con la massima attenzione possibile tutte le mosse reali che il governo cinese sta da anni mettendo in atto soprattutto su scala internazionale, dalla “Global Development Initiative” alla “One Belt, One Road”. In relazione a quest’ultima iniziativa economico-politica va visto il “Memorandum Italia-Cina” del 2019, a cui Scarpari dedica alcune pagine dal tono leggermente ironico che svelano i particolari della penosa gestione degli accordi da parte di alcuni esponenti del governo italiano e da alcuni suoi consulenti specializzati nell’improvvisazione (cfr. pp. 145-153).

La terza parte del libro di Scarpari è a nostro avviso la più densa ed innovativa, perché riesce non solo a tenere insieme, ma anche a connettere da un lato, le proprie competenze storiche, filologiche e filosofiche e, dall’altro, un’aggiornata e appassionata attenzione analitica alle dinamiche politiche che pongono la Cina sempre più al centro delle vicende che condizioneranno il prossimo futuro del mondo intero. Viene innanzitutto citato Yan Xuetong, politologo tra i massimi esperti di relazioni internazionali, sostenitore di un realismo politico- morale di stampo confuciano, per il quale etica, governance e ordine internazionale sono direttamente correlati. In particolare, ascesa o declino politici dipenderebbero dalla qualità morali delle classi dirigenti, per cui le possibilità di successo sarebbero direttamente proporzionali ai livelli di integrità morale, di competenza e di capacità di rinnovamento dei governanti. L’ideale proposto da Yan Xuetong è quello della “via del sovrano illuminato” che si ispira al principio confuciano di ren, “amore per il prossimo, senso di umanità, benevolenza”. Più precisamente, l’ideale proposto sembrerebbe ispirato al principio del renyi (“benevolenza e rettitudine”) sostenuto da Mencio, il massimo interprete del pensiero di Confucio, vissuto tra il IV e il III sec. a. C. In pratica, attenendosi a questi principi, la leadership di una nazione dovrebbe essere ottenuta non con atti di forza, ma con esempi virtuosi. Scarpari ricorda, opportunamente, che la storia imperiale della Cina, soprattutto grazie al riferimento costante a questi principi, è riuscita a mantenere, pur attraversando molti momenti critici, continuità e stabilità sia ideologica che politica. A tal proposito va notata la differenza rispetto all’impero romano: questo, dopo la sua caduta, non si riebbe mai più, mentre quello cinese durò ininterrottamente, benché in molteplici forme diverse, dal 221 a. C. al 1911. Secondo Scarpari la principale ragione di questa eccezionale ‘tenuta’ sul lungo periodo è data dal fatto che “nonostante la vastità dell’impero e le spiccate diversità tra le numerose etnie e culture, l’impresa non fu mai intesa come annessione di domini stranieri, quanto piuttosto come un’opera di restaurazione di un’unità prefigurata dalla più remota antichità” (p. 163). Va tuttavia sottolineato che la storia dell’impero cinese, così come quella dei suoi principi ispiratori, non è né univoca né lineare. A tal proposito nel capitolo V della III parte del suo libro Scarpari ci offre una mirabile sintesi dell’ampia gamma di pensieri che hanno vivificato nei secoli il dibattito filosofico e hanno ispirato in varia misura l’agire politico imperiale: dai confuciani Mencio e Xunzi ai legisti; dai fangshi (“uomini delle arti segrete”), a Zou Yan, massimo esperto del pensiero correlativo yin/yang; dal Sunzi bingfa, celeberrimo trattato sull’arte del conflitto, all’anti-confuciano Hanfeizi (“Maestro Hanfei”) attribuito a Shang Yang. In definitiva, si potrebbe concludere il dibattito sulla ripresa contemporanea del pensiero etico-politico classico evidenziando due principali linee interpretative e propositive:

1) quella di Zhao Tingyang, storico della filosofia presso l’Accademia cinese di scienze sociali, che prevede la formulazione di un sistema di valori universali in grado di superare gli egoismi nazionali che tornano a dilaniare il mondo contemporaneo. Tale sistema dovrebbe basarsi sul principio confuciano di “armonia e rispetto delle diversità”, cioè di “armonia, non omologazione (he er bu tong); e dovrebbe produrre “una cultura diversa, basata sulla solidarietà e sulla cooperazione fra i popoli che privilegi i valori di reciprocità e che abbia come traguardo politico la creazione di una struttura governativa sovranazionale che, pur salvaguardando, almeno in parte, la specificità dei singoli stati, le loro culture, i loro valori e i loro sistemi giuridici ed economici, contribuisca a formare una coscienza universale” (p. 211);

2) e quella ‘eclettica’ – sostenuta in particolare da Tu Weiming, Li Zehou, Liang Tao e Huang Yushun – che prevede di conciliare e integrare le dottrine dei due grandi esponenti del confucianesimo classico – Mencio e Xunzi – in una visione unitaria in grado di riattivare la migliore tradizione cinese in funzione di un’ideologia adatta alla ‘nuova era’.

Scarpari nella IV parte del libro prosegue dedicando l’attenzione a tre punti caratterizzanti questa ‘nuova era’: al caso di Xi Jinping come “uomo solo al comando”; al problema di Taiwan e al caso di Hong Kong; ma anche proponendo interpretazioni realistiche della risposta cinese alla pandemia da Covid 19 e della posizione cinese difronte all’invasione russa dell’Ucraina.

Ma è alla fine della III parte del libro che il lettore può godere di uno stupendo ‘colpo d’ala’ dell’Autore, quando, dopo aver sottolineato il carattere fortemente utopico della proposta Zhao Tingyang, avanza questo dubbio: “Aveva forse ragione l’ignoto compilatore (Laozi?) della stanza 29 del Daodejing (Canone della Via e della Virtù) laddove recita: ’Per chi intenda prendere possesso di tutto quel che sta sotto il Cielo e farne oggetto delle proprie mire/ prevedo, io, sicuro fallimento. / Vaso sacro è tutto quello che sta sotto il Cielo, / non cosa su cui consentito è intervenire: / chi interviene, lo guasta, / chi lo afferra, lo perde’” (p. 212).


Giangiorgio Pasqualotto insegna Estetica e Storia della filosofia buddhista presso l’università di Padova. Tra le sue pubblicazioni più importanti: Estetica del vuoto (1992); Illuminismo e illuminazione (1997); Yohaku (2001); East & West (2003); Figure di pensiero (2007); Dieci lezioni sul Buddhismo (2008); Oltre la filosofia (2008); Tra Oriente e Occidente (2010); filosofia e globalizzazione (2010).

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