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Fantasia nella stiva

Logistica dello schiavismo e fantasie di fuga

di Stefano Harney e Fred Moten

Un estratto di Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero di Stefano Harney e Fred Moten, recentemente pubblicato da Tamu Edizioni e Archive Books, nella traduzione a cura di Emanuela Maltese. Ringraziamo l’editore per la disponibilità

CONTAINER 1536x629Logistica, o del trasporto marittimo

Lavorare oggi significa che ci viene chiesto sempre più di fare senza pensare, sentire senza emozioni, muoverci senza attrito, adattarci senza discutere, tradurre senza pausa, desiderare senza scopo, connettere senza interruzione. Solo poco tempo fa, molti di noi dicevano che il lavoro fosse passato attraverso il soggetto al fine di sfruttare le nostre capacità sociali, per spremere più forza lavoro dal nostro lavoro. L’anima discendeva nell’officina, come scriveva Franco «Bifo» Berardi o, come suggeriva Paolo Virno, ascendeva come nel virtuosismo di un oratore senza spartito. Più prosaicamente, abbiamo sentito proporre l’imprenditore, l’artista e l’investitore tutti come nuovi modelli di soggettività in grado di favorire l’incanalamento dell’intelletto generale. Ma oggi ci viene da chiederci: perché preoccuparsi proprio del soggetto, perché passare in rassegna degli esseri del genere per raggiungere l’intelletto generale? E perché limitare la produzione ai soggetti i quali, dopotutto, sono una così piccola parte della popolazione, una storia così piccola dell’intellettualità di massa? Ci sono sempre stati altri modi per mettere i corpi al lavoro, persino per mantenere il capitale fisso di tali corpi, come direbbe Christian Marazzi. E ad ogni modo, per il capitale il soggetto è diventato troppo ingombrante, troppo lento, troppo incline all’errore, un soggetto che controlla troppo, per non parlare di una forma di vita troppo rarefatta, troppo specializzata. Eppure, non siamo noi a porre questa domanda. Questa è la domanda automatica, insistente e determinante del campo della logistica.

La logistica vuole fare a meno del soggetto. Ecco il sogno di questa scienza capitalista nuovamente dominante. Questa è la pulsione della logistica e degli algoritmi che alimentano quel sogno, della stessa ricerca algoritmica che Donald Rumsfeld, infatti, citava nel suo anonimo discorso deriso e ignorato, un discorso monotono che annunciava il concepimento di una guerra dei droni. Questo perché i droni non sono sprovvisti di equipaggiamento per proteggere i piloti americani, ma perché pensano troppo velocemente per i piloti americani.

Oggi, il campo della logistica insegue in modo serrato l’intelletto generale nella sua forma più concreta, ovvero nella sua forma potenziale, nella sua informalità, quando ogni tempo e ogni spazio e ogni cosa potrebbero verificarsi, potrebbero essere la prossima forma, la nuova astrazione. La logistica non si accontenta più di diagrammi o di flussi, di calcoli o di previsioni. Vuole essa stessa vivere contemporaneamente nel concreto, nello spazio, nel tempo e nella forma. Dobbiamo chiederci dove abbia preso questa ambizione e come sia possibile che sia arrivata a immaginare di poter dimorare nel – o così vicino al – mondo concreto e materiale nella sua informalità, la cosa prima che ci sia qualsiasi cosa. Come si propone di dimorare nella non-cosa, e perché?

L’ascesa della logistica è rapida. Infatti, leggere oggi della logistica significa leggere di un campo in piena espansione, un campo vittorioso. Nelle scienze militari e nell’ingegneria, ovviamente, ma anche negli studi di economia aziendale e nella ricerca sul management: la logistica è ovunque. Oltre che in queste classiche scienze capitaliste, la sua ascesa è riecheggiata astoricamente nei campi emergenti della filosofia orientata agli oggetti e della neuroscienza cognitiva, dove le condizioni logistiche della produzione della conoscenza, ma non gli effetti, passano inosservate. Nelle scienze militari il mondo è stato messo sottosopra. Tradizionalmente, la strategia guidava e la logistica seguiva. I piani di battaglia dettavano le linee di rifornimento. Ora non più. La strategia, alleata e partner tradizionale della logistica, è oggi incredibilmente ridotta a danno collaterale nell’impulso della logistica per il dominio. In una guerra senza fine, una guerra senza battaglie, solo l’abilità di continuare a combattere, solo la logistica conta.

I popoli della logistica saranno creati per fare senza pensare, sentire senza emozioni, muoversi senza attrito, adattarsi senza fare domande, tradurre senza pausa, connettere senza interruzione, o saranno smantellati e disabilitati come corpi

E così, anche l’innovazione aziendale è diventata logistica e non più strategica. L’innovazione aziendale, di sicuro, non viene dall’azienda. Più spesso deriva dalle strategie militari di resistenza ai propri eserciti, trasferite gratuitamente all’azienda. Un tempo, ciò consisteva nel trasferire innovazioni quali la linea, la formazione e la catena di comando dalle scienze militari alla fabbrica e all’ufficio, o trasferire la propaganda psicologica e di guerra alle relazioni umane e al marketing. Erano trasferimenti gratuiti di innovazione strategica che esigevano dai manager la loro istanziazione e il loro mantenimento.

Ora non più. Come testimonia ogni cosa, da internet al container, in linea con le guerre fredde e le guerre al terrore che portano sempre al fallimento della strategia, sono i trasferimenti logistici gratuiti a contare. La containerizzazione stava fallendo come innovazione economica, finché il governo statunitense cominciò a usare i container per cercare di rifornire le sue truppe, nel sud-est asiatico, di armi, alcol e droga a sufficienza da impedire loro di uccidere i propri ufficiali, per continuare a mandare avanti una guerra che non poteva essere vinta strategicamente. Quelli che sognavano internet, se non quelli che l’hanno costruito, erano infatti preoccupati della corruzione dell’intelligence che lo scoppio della democrazia avrebbe reso possibile, come pensava la Commissione Trilaterale, negli anni ’70. Arpanet, come network di raccolta di informazioni, non poteva lasciarsi distrarre dal sesso e dall’ideologia, né tantomeno da una loro vincente combinazione. Non si sarebbe lasciato distrarre dallo scoppio della democrazia. E presumeva un’interminabile accumulazione di informazioni per un’interminabile guerra che molti non avrebbero voluto combattere. Alla sfida di Toni Negri – mostrami un’innovazione economica e io ti mostrerò una ribellione operaia – potremmo aggiungere una preistoria, lo stato che teme la propria forza lavoro.

La containerizzazione stessa rappresenta quella che dovrebbe essere denominata come la prima ondata di innovazione normativa in qualità di logistica, che si muove in tandem con la prima ondata di finanziarizzazione, l’altra risposta del capitalismo a queste insurrezioni, oltre alla repressione violenta. Infatti, la logistica e la finanziarizzazione hanno lavorato insieme in entrambe le fasi dell’innovazione, con la prima che, in linea generale, lavorava sulla produzione attraverso i corpi, e con la seconda che rinnovava il soggetto della produzione. Delle due strategie di resistenza alla ribellione, la finanziarizzazione è forse quella meglio conosciuta, con una prima fase in cui svende le fabbriche e i beni statali, e una seconda in cui vende case e banche soltanto per, in tutte e due le istanze, riaffittarle a credito in una sorta di prestito su pegno globale. Come suggeriscono in modi diversi Randy Martin e Angela Mitropoulos, ciò ha avuto l’effetto desiderato di riorganizzare tutti i soggetti, legati a tali oggetti dati in pegno, in estratti conto che parlano e camminano; soggetti che contraggono il loro contagio finanziario producendo, alla fine, un’entità dipendente dagli affetti finanziari in un modo che la rende più oggetto logistico che soggetto strategico.

Ma nel frattempo, la logistica stessa non aveva un interesse duraturo in questo soggetto finanziarizzato o nella sua riorganizzazione. La logistica era alla ricerca di un premio maggiore, qualcosa che l’aveva sempre perseguitata ma che divenne più palpabile nella doppia ondata che ha prodotto le popolazioni della logistica, quando il container giunse a comando delle onde, delle strade e delle ferrovie con informazioni, affetti e significati sparati attraverso la carne come attraverso altri oggetti, ancora su una scala e in una forma impossibili da ignorare. Il premio sembrava quasi a portata di mano. Di certo, questa fantasia di ciò che Marx chiamò il soggetto automatico, questa fantasia per cui il capitale può esistere senza forza lavoro, non è affatto una novità, ma è continuamente esplorata nel nesso tra il capitale finanziario, la logistica e il terrorismo della personalità sponsorizzata dallo stato, che è istanziata nelle varie cerimonie di conferimento e sottrazione. Oggi, questa fantasia è contrassegnata con il termine di capitale umano. Come propone Michel Feher, il capitale umano apparirebbe come una categoria strategica coinvolta in una strategia di investimento e speculazione sul sé. Tuttavia, come ci ricorda Marina Vishmidt, il soggetto automatico del capitale, che il capitale umano cerca di emulare, è un soggetto svuotato e concentrato nel suo svuotamento, proprio attraverso l’espulsione della negatività del lavoro e l’esilio di coloro che, essendo meno e più di uno, sono la sua cifra, il suo altro, il suo doppio: i portatori di una generatività senza riserva. Adesso, il capitale umano è il sostituto del soggetto automatico, che porta avanti il suo impegno con le abilità quotidiane della finanziarizzazione e della logistica, entrambe le quali agiscono su di esso come se fosse un impedimento al movimento, e non un veicolo in movimento. Il capitale umano, in altre parole, si discosta dal soggetto strategico del neoliberalismo, generalizzando attraverso l’auto-inflizione la deviazione che il soggetto impone ritualmente ai suoi interni esiliati, e facendo di sé stesso un oggetto poroso che ancora parla come un soggetto, alla stregua di una realizzazione burlesca del sogno filosofico della riconciliazione finale. È per questa ragione che il capitale umano non può essere definito strategicamente o, a dire il vero, gestito in alcun senso tradizionale e pertanto, a sua volta, possiamo vedere lo svuotamento del campo della strategia d’impresa, incluso il declino del master in business administration, e la nascita degli «studi sulla leadership». Oggi, questi ultimi gravano sia sugli scaffali delle librerie che su chi studia economia, ma la leadership non può gestire nulla. È l’evacuazione della gestione da parte della strategia, in un disperato tentativo di assicurare il controllo del guadagno privato da una forma di produzione sotto il capitale che sta diventando automatica e, dunque, non così tanto ingestibile quanto autogestita. Quello che qui si apre è un corso nella e per la logistica generale. Leggere la logistica è leggere del desiderio, dichiarato, di sbarazzarsi di ciò che la logistica chiama «l’agente di controllo», per liberare il flusso delle merci dal «tempo umano» e dall’«errore umano». L’avido algoritmo del commesso viaggiatore richiede ancora un intervento strategico, perché non può evolversi quando emergono nuovi problemi, a meno che non si consideri come evoluzione la capacità del contenuto di distruggere, o l’incapacità che permette l’autodistruzione. Non può risolvere, ad esempio, il problema che si presenta quando si viaggia in Canada, dove le strade scompaiono sotto la neve generando nuove difficoltà al più efficiente degli autotreni. Qui è dove gli algoritmi genetici ed evoluzionistici entrano spesso in una veste più lamarckiana che darwiniana.

Ma su una cosa si è d’accordo: la strategia, adesso, sta bloccando la strada come sicuramente la neve blocca la strada per Sudbury. Per la logistica, il soggetto di qualsiasi cosa, come lo chiama Michael Hardt, deve lasciare il passo all’oggetto di qualsiasi cosa. I popoli della logistica saranno creati per fare senza pensare, sentire senza emozioni, muoversi senza attrito, adattarsi senza fare domande, tradurre senza pausa, connettere senza interruzione, o saranno smantellati e disabilitati come corpi, nello stesso modo in cui sono assemblati da quello che Patricia Clough chiama razzismo della popolazione. Da questa posizione, la logistica è padrona di tutto quello che sonda. E tuttavia, quello che potrebbe apparire come una navigazione tranquilla, come acque calme, come essere piatto, non è così indisturbato. L’incertezza circonda la tenuta delle cose, e la logistica scopre troppo tardi – nel modo descritto da Luciana Parisi secondo cui l’algoritmo genera la sua propria critica – che «il mare non ha una porta sul retro». E non si tratta solo della classe dei greedoidi, gli individui possessivi del mondo algoritmico, ma anche di questi nuovi algoritmi genetici ed evoluzionistici, la cui vera premessa è che debba esserci qualcosa di più, qualcosa in quello che essi hanno colto, che rimane oltre la loro portata. Questi algoritmi sono definiti da quello che ancora non sono e da quello che non potranno mai diventare pienamente, nonostante i sogni della loro eugenetica materialista. Ogni tentativo da parte della logistica di disperdere la strategia, di bandire il tempo umano, di connettere senza passare per il soggetto, di assoggettare senza gestire le cose, resiste a qualcosa che gli stava già resistendo, ovvero la resistenza che fonda la logistica moderna. Preoccupata di spostare gli oggetti e muoversi attraverso gli oggetti, la logistica si rimuove dall’informalità che fonda sia i suoi oggetti che se stessa. C’è qualche/ cosa di cui la logistica è sempre alla ricerca.

La logistica moderna fu fondata con il primo grande movimento di merci, quelle che potevano parlare. Fu fondata nella tratta atlantica degli schiavi, fu fondata contro la schiava atlantica.

 

Logisticalità, o delle vite rubate

Da dove ha preso la logistica questa ambizione a connettere corpi, oggetti, affetti, informazioni, senza soggetti, senza la formalità dei soggetti, come se potesse regnare sovrana sull’informale, sul concreto e sull’indeterminazione generativa della vita materiale? La verità è che la logistica moderna è nata in quel modo. O, più precisamente, è nata in resistenza a, data come acquisizione di, questa ambizione, questo desiderio e questa pratica dell’informale. La logistica moderna fu fondata con il primo grande movimento di merci, quelle che potevano parlare. Fu fondata nella tratta atlantica degli schiavi, fu fondata contro la schiava atlantica. Nata innanzitutto con la rottura rispetto all’accumulazione saccheggiatrice degli eserciti, e poi con l’accumulazione primitiva del capitale, la logistica moderna è stata segnata, bollata e marchiata a fuoco dal trasporto della manodopera-merce quale non era, e quale mai sarebbe stata successivamente, a prescindere da chi stava in quella stiva o cosa era containerizzato in quella nave. Dall’equipaggio eterogeneo e variegato che proseguiva lungo le scie rosso sangue delle navi schiaviste, alle prigionierə trasportatə nelle colonie di insediamento, alle migrazioni di massa per via dell’industrializzazione nelle Americhe, alla schiavitù a contratto dall’India, dalla Cina e da Giava, agli autotreni e alle imbarcazioni diretti a nord attraverso il Mediterraneo o il Rio Grande, ai biglietti di sola andata dalle Filippine agli stati del Golfo o dal Bangladesh a Singapore, la logistica è sempre stata il trasporto della schiavitù, non lavoro «libero». La logistica rimane, come sempre, il trasporto degli oggetti (con)tenuto nel movimento delle cose; e il trasporto delle cose rimane, come sempre, l’ambizione irrealizzabile della logistica.

La logistica non poteva contenere quello che aveva relegato nella stiva. Non poteva. Robert F. Harney, lo storico delle migrazioni «dal basso», diceva che una volta attraversato l’Atlantico non saresti mai più stato dal lato giusto. B Jenkins, una migrante mandata dalla storia, quando accoglieva i suoi studenti, le sue pantere, nel piano interrato di casa, lo illuminava con un volteggio in cerchio spezzato. Nessun punto fisso era sufficiente, nessun punto fisso era giusto. Lei, le loro madri e i loro padri, avevano arato gli stessi campi, avevano divorato le stesse strade deserte, avevano pre-occupato lo stesso sindacato, Culinary Union. Harney teneva bene a mente le migrazioni di massa dal sud e dall’est Europa alla fine del 19° secolo, migrazioni fuori di sé nell’annunciazione della modernità logistica. Nessun punto fisso. Se la merce lavoro fosse riuscita ad avere un punto fisso, un punto fisso dal quale la propria abolizione potesse rivelarsi necessaria, cosa ne sarebbe stato allora di coloro che erano stati già aboliti e che erano rimasti? E se il proletariato era posizionato in un punto specifico nei circuiti del capitale, un punto nel processo di produzione dal quale aveva una visione peculiare della totalità capitalista, cosa ne era di coloro che erano posizionati in ogni punto, che vuole dire in nessun punto, nel processo di produzione? Cosa ne era di coloro che non erano solo lavoro ma merce, non solo in produzione ma in circolazione, non solo in circolazione ma in distribuzione come proprietà, non solo proprietà ma proprietà che riproduceva e realizzava sé stessa? Il punto fisso di nessun punto fisso, ovunque e da nessuna parte, del mai e dell’a(v)venire, della cosa e della non-cosa. Se si pensava che il proletariato fosse capace di far saltare in aria le fondamenta, che cosa si pensava dei deportati, delle stivate e di ciò che era containerizzato? Che cosa poteva fare questa carne? La logistica, in qualche modo, sa che non è vero che non sappiamo ancora cosa possa fare la carne. Esiste una capacità sociale di istanziare più e più volte l’esaustione del punto fisso come terreno sottocomune, che la logistica conosce come inconoscibile, che calcola come un’assenza che non può avere, ma che desidera avere fortemente, che non può, ma desidera fortemente essere o, almeno, esservi attorno, accerchiarla. La logistica percepisce il senso di questa capacità come non mai – questo lascito storico insorgente, questa storicità, questa logisticalità, delle vite rubate.

La modernità è suturata da questa stiva. Questo movimento di cose, di oggetti non ancora formati, di soggetti deformati, della non-cosa ancora e già. Questo movimento della non-cosa non è solo l’origine della logistica moderna, ma l’annunciazione della modernità stessa, e non solo l’annunciazione della modernità stessa, ma quella profezia insorgente che tutta la modernità avrebbe avuto nel suo cuore, nella propria stiva, questo movimento di cose, questa vita sociale interdetta, messa fuori legge, della non-cosa. Il lavoro di Sandro Mezzadra e Brett Neilson sui confini, per esempio, ci ricorda che la proliferazione delle frontiere tra gli stati, negli stati, tra le persone, nelle persone, è la proliferazione di stati di apolidia. Questi confini avanzano a tentoni verso il movimento delle cose, picchiano sulle porte dei container, scalciano contro i rifugi migranti, attaccano gli accampamenti, gridano contro le fuggitive, cercando tutto il tempo di imbrigliare questo movimento di cose, questa logisticalità. Ma ciò non avviene, i confini non hanno coerenza, perché il movimento delle cose non avrà coerenza. Questa logisticalità non sarà coerenza. Come dice Sara Ahmed, è disorientamento queer, l’assenza di coerenza – ma non delle cose – nella commovente presenza dell’assoluto nulla. Come ci insegna Frank B. Wilderson III, l’imperativo estemporaneo è, pertanto: «restare nella stiva della nave, malgrado le mie fantasie di fuga».

Come riconosceresti l’accompagnamento antifonale alla violenza gratuita, il suono che può essere ascoltato come se fosse in risposta a quella violenza, il suono che deve essere sentito come ciò a cui tale violenza risponde?

Ma questo vuol dire che ci sono furtivi voli di fantasia nella stiva della nave. La fuga musicale ordinaria e la volata fuggitiva del laboratorio linguistico, luogo d’incontro brutalmente sperimentale della fonografia nera. La totalità paraontologica è in divenire. Presente e disfatta in presenza, la nerezza è uno strumento in divenire. Quasi una fantasia nella sua brusca deflessione paralegale, la sua treccia follemente lavorata, l’immaginazione non produce altro se non eccesso e fuga di senso nella stiva. Ricordi i giorni della schiavitù? Nathaniel Mackey dice giustamente: «Il mondo sempre fu dopo / altrove, / no / in nessun modo dove fummo / fu là». No, in nessun modo dove siamo è qui. Dove fummo, dove siamo, è quello che intendevamo per «mu», che Wilderson, a ragione, avrebbe chiamato «il baratro della nostra soggettività».

Ed è così che rimaniamo nella stiva, nella rotta sincopata e fuggitiva, come se stessimo entrando ripetutamente nel mondo rotto, in rovina, per (rin)tracciare la compagnia visionaria alla quale unirci. Quest’isola contrappuntistica, dove siamo abbandonati in cerca di marronage, dove indugiamo nell’emergenza senza stato, nella nostra cel(lul)a lisata e dislocazione stivata, il nostro punto fisso spazzato via e la nostra cappella lirata, in (nello) studio della nostra varianza nata in mare, mandata dalla sua preistoria nell’arrivanza senza arrivo, come una poetica leggendaria di anormale articolazione, dove la relazione tra giuntura e carne è la distanza piegata di un momento musicale che è enfaticamente e palpabilmente impercettibile e, dunque, difficile da descrivere. Avendo sfidato la degradazione, il momento diventa una teoria del momento, del sentire di una presenza che è inafferrabile nel modo in cui tocca. Questo momento musicale – il momento dell’avvento, della natività in tutta la sua terribile bellezza, nell’alienazione che è sempre già nata nella e come parousia – è una descrizione/teoria precisa e rigorosa della vita sociale di coloro che erano deportatə nella stiva, il terrore dello stato di gioia nelle sue pieghe infinitamente raddoppiate. Se prendi in mano gli strumenti irrimediabilmente imprecisi della comune navigazione, il calcolo mortale delle macchine differenziali, degli orologi e dei prospetti marittimi delle maledette assicurazioni, potresti imbatterti in uno di questi momenti per circa due minuti e mezzo all’interno di Mutron, un duetto di Ed Blackwell e Don Cherry registrato nel 1982. Riconoscerai il momento da come ti chiederà di pensare alla relazione tra la fantasia e l’essere non-cosa: quello che è erroneamente scambiato per silenzio è, tutto d’un tratto, transustanziale. La brutale interazione tra l’avvento e la camera musicale richiede l’istigazione continua di un’immaginazione ricorsiva, fugata; fare ciò significa abitare un’architettura e la sua acustica, ma abitare come se fosse un approccio dal di fuori; non soltanto risiedere in questa invivibilità, ma anche scoprirla e in essa entrare. Mackey, nella prefazione del suo insostenibilmente stupendo Splay Anthem, nel delineare la provenienza e la relazione tra le metà seriali del libro («A ognuna fu dato il suo impeto da un pezzo di musica registrato dal quale prende il suo titolo, Song of Andoumboulou dei Dogon, in un caso, ‘Mu’ First Part e ‘Mu’ Second Part di Don Cherry e di Ed Blackwell, nell’altro») parla di mu in relazione a un volteggiare, uno spiraleggiare, un girare intorno, questa rotondità o rondò che unisce inizio e fine, e al vagito accorato che accompagna l’entrata nella e l’espulsione dalla socialità. Ma le sue parole ti inducono a chiederti se la musica, che non è solo musica, sia mobilitata a servizio di un’eccentricità, una forza centrifuga la cui intimazione viene affrontata anche da Mackey segnando l’esistenza estatica della socialità oltre l’inizio e la fine, i fini e i mezzi, là fuori, dove ci si interessa alle cose, a un certo rapporto tra l’essere cosa e non-cosa e la nerezza che performa la sua esaustione in acconsentimento e consensualità non mappate, non mappabili, sottocomuni. La nerezza è il luogo dove l’assoluto essere non-cosa e il mondo delle cose convergono. La nerezza è la fantasia nella stiva, e Wilderson vi fa accesso, perché è uno che non ha nessuna cosa ed è, pertanto, sia più che meno di uno. È deportato e stivato. Siamo deportate e stivati se decidiamo di esserlo, se scegliamo di pagare un costo insostenibile che è inseparabile da un incalcolabile beneficio.

Come riconosceresti l’accompagnamento antifonale alla violenza gratuita – il suono che può essere ascoltato come se fosse in risposta a quella violenza, il suono che deve essere sentito come ciò a cui tale violenza risponde? La risposta, lo smascheramento, è mu, non semplicemente perché nella sua opposizione imposta a qualcosa, la non-cosa è intesa soltanto per velare, come se fosse qualche livrea epidermica, un (qualche) essere (superiore) ed è, quindi, relativa in quanto opposta a ciò che Nishida Kitaro chiamerebbe assoluto; ma perché la non-cosa (questa interazione paraontologica tra la nerezza e l’essere non-cosa, questa socialità estetica delle vite rubate, questa logisticalità) rimane inesplorata, perché non sappiamo cosa vogliamo dire con essa, perché non è né una categoria per l’ontologia né per l’analisi socio-fenomenologica. Cosa significherebbe questa non-cosa, se fosse intesa nel suo improprio rifiuto di termini, dal punto di vista esausto che non è, e che non è il proprio? «Attribuiamo» – dice Fanon – «un’importanza fondamentale al fenomeno del linguaggio e, di conseguenza, consideriamo lo studio del linguaggio essenziale affinché possa fornirci un elemento di comprensione della dimensione dell’essere per gli altri propria dell’uomo nero, dando per inteso che parlare è esistere in assoluto per l’altro». Inoltre, dice che: «[l’] uomo nero possiede due dimensioni: una con i suoi compagni Neri, l’altra con i Bianchi». Ma non si tratta semplicemente di una questione di prospettiva, poiché stiamo parlando di questo essere fuori di sé, radicale, della nerezza, e della sua imposizione dal di fuori, lateralmente, internamente ed esternamente. Il punto fisso, il territorio casa, chez lui – la traduzione erronea, fuori luogo, cieca ma acuta di Markman è illuminante, tra la sua propria, con il significato di una relazionalità che disloca l’impossibilità già dislocata di casa. Questo stare insieme nel non avere casa, questa interazione di rifiuto di quello che è stato rifiutato, questa apposizionalità sottocomune: può tutto questo essere un luogo dal quale non emerge né l’auto-coscienza né la conoscenza dell’altro, ma una improvvisazione che procede da qualche parte, dall’altra parte di una domanda non posta? Non semplicemente essere tra la sua propria; ma essere tra la sua propria nello spossessamento, essere tra coloro che non possono possedere, coloro che non hanno alcuna cosa e che, non avendo alcuna cosa, hanno tutto. Questo è il suono di una domanda non posta.

Essere vite deportate significa essere vite (com)mosse da altri, con altre. È sentirsi a casa con chi non ha casa, a proprio agio con chi fugge, in pace con ciò che è perseguitato, in quieto vivere con coloro che acconsentono a non essere una sola cosa.

Un coro contro acquisizione, canto e gemito e Sprechgesang, babele e balbettio e incomprensibile blateramento, in relax, nei pressi di un ruscello o torrente a Camarillo, cantando a esso, cantando di esso, cantando con esso, affinché l’uccello dal becco ricurvo, l’attacco generativo di le petit nègre, la lancia comica e fumettistica dei little niggers, il bastone cosmico del linguaggio, il burnin’ and lootin’ del pidgin, il canto dell’Uccello, il canto di Bob, il canto del bardo, il canto al bar, il canto del bambino, il canto B incantatorio, possano preparare alla meditazione delle menti: minds of the little negro steelworkers. Dai, prendi questa informazione dura, seriale, questo medley brutalmente bello di carceraria intricatezza, questa fantasticheria di abbracci, di comprensioni e di quello che è tenuto, stretto, nella vicinanza fonica delle stive. Quello spiraleggiare di cui parla Mackey soffre rottura, rovina e contrazione, soffre l’imposizione di angoli razionalizzati irrazionalmente, compartimenti che portano niente se non respiro e mal-tratta-mento in un’intimità catturata, contagiata, degener(izz)ata. Esiste una sorta di propulsione, attraverso la compulsione, contro la padronanza della propria velocità, che rompe sia la ricorsività che l’avanzamento? Qual è il suono di questa fantasticheria? A cosa assomiglia questa apposizione? Cosa rimane dell’eccentricità, dopo che il relè tra perdita e restaurazione ha la sua parola o canzone? Nell’assenza di amenità, nell’esaustione, c’è una società di amici dove ogni cosa può unirsi in danza al nero, può congiungersi alle vite rubate, può abbracciare quello che mai fu silenzio. Non le senti sussurrare, l’una il tocco dell’altra?

 

Apticalità, o del tocco come amore

Non essere mai dal lato giusto dell’Atlantico suscita un sentimento instabile, il sentimento di una cosa che turba gli altri. È una sensazione, se con essa decidi di viaggiare, che produce una certa distanza da ciò che è stabilito, da chi si determina nello spazio e nel tempo, collocandosi in una determinata storia. Essere vite deportate significa essere vite (com)mosse da altri, con altre. È sentirsi a casa con chi non ha casa, a proprio agio con chi fugge, in pace con ciò che è perseguitato, in quieto vivere con coloro che acconsentono a non essere una sola cosa. Cose fuorilegge, interdette e intime della stiva, contagio containerizzato, la logistica che esterna la logica stessa per raggiungerti, ma questo non è abbastanza per arrivare alla logica sociale, la poiesis sociale, che scorre lungo la logisticalità.

Perché sebbene alcune abilità – di connettere, tradurre, adattare, viaggiare – furono forgiate nell’esperimento della stiva, non ne furono il punto essenziale. Come canta David Rudder: «How we vote is not how we party». Il terribile dono della stiva fu quello di raccogliere sensazioni di spossessamento in comune, creare un nuovo sentire negli undercommons. In precedenza, questa specie di sentire era solo un’eccezione, un’aberrazione, uno sciamano, una strega, un veggente, una poeta tra le altre, che sentiva attraverso altre vite, altre cose. In precedenza, tranne in questi esempi, il sentire era mio o era nostro. Ma nella stiva, negli undercommons di un nuovo sentire, un altro genere di sensazione divenne comune. Questa forma di sentire non era collettiva, non era incline alla decisione, non aderiva né si riattaccava alla colonia, alla nazione, allo stato, al territorio o alla storia storica; né era riposseduta dal gruppo, che non poteva ora sentire come uno, riunificato nel tempo e nello spazio. No, quando Black Shadow canta «la stai sentendo questa sensazione?», sta chiedendo qualcos’altro. Sta chiedendo di un modo di sentire attraverso le altrə, una sensazione per sentire le altrə sentire te. Questo è il sentire insorgente della modernità, la sua carezza ereditata, la sua parola pelle, il suo tocco lingua, il suo discorso respiro, il suo riso mano. Questo è il sentire che nessun individuo sopporta e che nessuno stato tollera. Questo è il sentire che potremmo chiamare apticalità. Apticalità, il tocco degli undercommons, l’interiorità del sentimento, il sentire che quello che deve arrivare è qui. Apticalità, la capacità di sentire attraverso le altrə, affinché possano sentire attraverso te, affinché tu possa sentirlə sentire te; questo sentire delle vite deportate e stivate non è regolato, o almeno non con successo, da uno stato, una religione, un popolo, un impero, un pezzo di terra, un totem. O, forse, potremmo dire che tutte queste cose sono ora ricomposte sulla scia e nella veglia delle vite rubate. Sentire le altrə è qualcosa di non mediato, immediatamente sociale, tra di noi, una nostra cosa, e anche quando ricomponiamo la religione, viene da noi, e anche quando ricomponiamo la razza lo facciamo come donne nere, come uomini neri. Rifiutate queste cose, noi le rifiutiamo per primi nel contenuto, tra il contenuto, giacendo insieme nella nave, nel vagone merci, nella prigione, nel rifugio per migranti. La pelle, contro l’epidermalizzazione, percepisce il tocco. Gettate insieme, toccandoci, l’una con l’altra, le nostre vite hanno visto negarsi ogni sentimento, negarsi tutte le cose che avrebbero dovuto produrre sentimento, famiglia, nazione, lingua, religione, luogo, casa. Sebbene le nostre vite siano state forzate al tocco e costrette a essere toccate, per percepire ed essere percepite in quello spazio di non spazio; nonostante sentimento, storia e casa ci siano stati rifiutati, sentiamo l’una (per) l’altra. Un sentire, un sentimento con la sua propria interiorità, lì sulla pelle, un’anima non più dentro, ma lì affinché tutti possano sentirla, affinché tutte possano (com)muoversi. La musica soul è un mezzo di questa interiorità sulla pelle, il suo rimpianto il lamento per una apticalità rotta, i suoi poteri autoregolamentati l’invito a costruire ancora una sentimentalità insieme, a sentirci ancora reciprocamente, a sentire come facciamo festa. Questa è la nostra apticalità, il nostro tocco d’amore. Questo è amore per le vite rubate, amore come vite deportate.

C’è un tocco, un sentire di cui hai più voglia, che ti libera. Il momento in cui Marx si avvicinò maggiormente all’antagonismo generale fu quando disse: «da ognuno secondo la sua abilità, a ognuno secondo la propria necessità», ma abbiamo letto questo come il possesso dell’abilità e il possesso della necessità. E se avessimo pensato all’esperimento della stiva come all’assoluta fluidità, all’informalità, di questa condizione di necessità e abilità? Se l’abilità e la necessità fossero in una costante interazione e, in realtà, avessimo trovato qualcuno che ci ha diseredato al punto che questo movimento fosse la nostra eredità. Il tuo amore mi rende forte, il tuo amore mi rende debole. E se «quello che è tra i due», il desiderio perso, l’articolazione, fosse questo ritmo, questo esperimento ereditato delle vite stivate nelle acque tormentate di carne ed espressione che potevano afferrare, lasciando andare, abilità e necessità in una ricombinazione costante. Se lui mi (com)muove, mi manda, mi mette alla deriva in questo modo, tra di noi, negli undercommons. Finché lei lo farà, lei non dovrà essere.

Chissà da dove Marx ricevette questa eredità della stiva: da Aristotele che negava il suo mondo schiavistico, o da Kant che parlava ai navigatori, o dall’autoerotismo di Hegel o, semplicemente, dal suo essere brutto, scuro e fuggitivo. Come dice Zimmy, angelo prezioso: «Sai perfettamente che entrambi i nostri progenitori erano schiavi, che non è qualcosa di cui fare ironia». Questo sentire è la stiva che (in cui) permette di spostarci (andiamo!) ripetutamente, per spossessarci dell’abilità, per riempirci di necessità, per darci l’abilità di riempire la necessità, questo sentire. Ascoltiamo il padrino e la vecchia talpa chiamarci per divenire, siano quel che siano gli anni a venire, filosofi del sentire.

Con amore, S/F


Stefano Harney (Berkeley, 1962) è professore onorario del Social Justice Institute alla British Columbia University. Di formazione interdisciplinare, studia le questioni legate alla razza, al lavoro e all’organizzazione sociale attraverso il pensiero dell’autonomia e la teoria postcoloniale. Tra le sue pubblicazioni più importanti, State Work: Public Administration and Mass Intellectuality (Duke University Press, 2002) e, insieme a Howard Thomas, The Liberal Arts and Management Education. A Global Agenda for Change (Cambridge University Press, 2020). È attivo in diversi collettivi, tra i quali: Le Mardi Gras Listening Collective, freethought, School for Study, Ground Provisions e Anti-​Colonial Machine. Harney vive e lavora a Brasilia.
Fred Moten (Las Vegas, 1962) è un poeta e teorico culturale. Insegna al dipartimento di Performance Studies dell’Università di New York. Interessato alla relazione tra movimenti sociali ed estetica nera, conduce ricerche nelle aree della teoria critica, della letteratura, dell’arte, della performance e della musica. Nel 2020 ha ricevuto il prestigioso premio della MacArthur Foundation per il suo sforzo teorico «nel creare nuovi spazi concettuali per accogliere le forme emergenti dell’estetica nera, della produzione culturale e della vita sociale». I suoi scritti degli ultimi quindici anni sono raccolti nella trilogia consent not to be a single being (Duke University Press). Vive e lavora a New York.

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