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Città e villaggi globali: la globalizzazione come utopia

di Gianfranco Ferraro

Pubblichiamo l’articolo di Gianfranco Ferraro dal titolo “Città e villaggi globali: la globalizzazione come utopia” uscito nel n. 5/2021 della nostra rivista semestrale

Schermata 2021 11 14 alle 15.16.26Abstract: La storia delle globalizzazioni è da sempre intrecciata ad una utopia. La globalizzazione imperialistica dell’impero portoghese a quella del sebastianismo, la globalizzazione imperialistica francese a quella dell’universalismo, la globalizzazione imperialistica inglese a quella del mercato liberale. Ogni globalizzazione ha rappresentato d’altro canto la propria utopia attraverso una città, generalmente la città capitale dell’impero, che si fa città-mondo, e sul cui modello pretende di plasmare lo stesso mondo globalizzato su cui esercita il suo potere. Se l’archetipo storico di questo legame tra città globale e globalizzazione è Roma, ogni impero ha tentato di fare della propria capitale il modello sul quale disegnare la sua forma di globalizzazione. L’attuale processo di globalizzazione economica non sembra fuoriuscire troppo da questa tradizione, pur con una importante novità: essendo una globalizzazione multicentrica, non vi è una sola città che si fa mondo, ma una pluralità di città, connesse tra loro e omogenee nella forma. La stretta connessione tra queste città globali, così come lo sviluppo di tecnologie comunicative digitali costituiscono, infine, l’utopia realizzata di un «villaggio globale», secondo l’espressione di Marshall Mac Luhan. Analizzare l’utopia dell’attuale processo di globalizzazione significa, pertanto, comprendere il legame tra le sue città globali e la forma del mondo interconnesso come villaggio globale.

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Globalizzazione, mondializzazione, glomerizzazione

Due processi, su tutti, appaiono come i più rilevanti degli ultimi trent’anni: da una parte lo sviluppo accelerato di forme di trasporto che, a un costo ridotto rispetto a quello che dovevano sostenere altre generazioni, consentono di connettere località distanti in poche ore di volo; dall’altro lo sviluppo delle reti di comunicazione digitale, che permettono di informare e comunicare in tempo reale, velocizzando scambi economici e comunicazioni.

Questi due processi di carattere tecnologico intersecano d’altra parte due fenomeni, l’uno di carattere politico e geopolitico e l’altro di carattere strettamente economico. Nel primo caso, con il crollo del dualismo geopolitico tra le due superpotenze che hanno governato le sorti del mondo dalla fine del Secondo conflitto mondiale, abbiamo assistito, in un primo momento, alla progressiva costituzione di un’equilibrio geopolitico fondato sulla macchina militare e sulla forza economica degli Stati Uniti d’America. In un secondo tempo, che è quello che stiamo vivendo proprio in questi anni, assistiamo alla trasformazione di una geopolitica fondata su un unico impero globale americano – erede, per molti versi, di quello britannico – in un equilibrio multipolare, nel quale antichi e nuovi attori costituiscono dei nuovi poli, potenzialmente imperiali a loro volta, che però, proprio in quanto non aspirano ad un dominio incontrastato sul globo, rendono meno omogeneo lo scacchiere politico e militare globale. Tuttavia, e veniamo al secondo caso, la formazione di questa multipolarità globale non coincide con diverse forme di globalizzazione, dipendenti, come in altri contesti storici, dall’influenza geopolitica di uno Stato di riferimento. La globalizzazione economica e tecnologica contemporanea, pur essendo fondata sulla capacità di espansione di imprese multinazionali di pochi Paesi, sta definendo uno spazio economico e simbolico che non è generato da uno solo Stato e non attiene dunque alle dinamiche imperiali di un unico Paese. Il mercato degli scambi mondiali così come le tecnologie che lo accompagnano e lo legittimano trascendono, in questo senso, la particolarità dei singoli Stati, dando vita ad uno spazio-mondo globale sempre più omogeneo e uniforme. D’altronde, la struttura di questa forma di globalizzazione, l’ultima delle «globalizzazioni» occidentali, non può essere osservata secondo un semplice movimento, tipico di tutti gli imperialismi del passato, che dall’alto, o da un «centro», muove verso il basso o la periferia. La globalizzazione contemporanea sembra infatti implicare un contemporaneo processo di alterazione dello stesso rapporto tra centro e periferia, seguendo, tanto nelle forme di interazione tra spazi urbani, come nelle interazioni economiche, il modello della «rete» definito dalla tecnologia digitale contemporanea. Ci troviamo, in questo senso, dentro un «ordine del discorso» che definisce lo stesso quadro nel quale trovano forma e agiscono le differenti particolarità, costituendo maniere molteplici di coesistenza nel contesto globale. Occorre confrontarsi infatti, oltre che con una globalizzazione che definisce degli standard e impone dei modelli, anche con una «glocalizzazione»: un movimento che, cioè, proprio a partire dalla particolarità del locale, media gli standard provenienti dall’esterno, declinando in questo modo la specifica modalità con cui un determinato locale può proiettarsi a livello globale e interagire globalmente con altri locali.

Se guardiamo al duplice processo di globalizzazione / glocalizzazione contemporaneo, un sintomo tipico dei grandi modelli imperialistici del passato, nonostante tutto, permane. Possiamo osservare tale sintomo, per esempio, nella creazione o ricreazione delle forme di vita mondiali che questo processo implica, e, quando non nella stessa distruzione, quasi sempre nell’esplicito assoggettamento di alcune forme di vita ad altre forme di vita, attraverso l’introduzione di forme di standardizzazione e di omogeneizzazione delle diversità. La globalizzazione contemporanea si inserisce dunque, con i suoi effetti simbolici, nella tradizione di ricreazione del mondo, tipica di altre forme di globalizzazione. Ogni globalizzazione imperialistica ha avuto infatti nei secoli passati l’effetto specifico di proiettare una certa forma di vita, un certo modello economico, un determinato spazio urbano su scala mondiale. Vi è stato insomma storicamente, in qualunque processo di globalizzazione, un impulso sistematico a sussumere il più possibile spazi e forme di vita all’interno di un mondo culturale: nei processi di globalizzazione osserviamo la pulsione di un mondo culturale a farsi mondo in maniera molto spesso violenta, a trasformarsi cioè nell’unico mondo culturale, economico e politico possibile, nel cui contesto ogni altro mondo culturale può sopravvivere alla sola condizione di scendervi a patti, e di trovare nell’incontro con esso un modus vivendi. È in questo senso che possiamo individuare nelle globalizzazioni una pulsione utopica fondamentale, atta a ridefinire i modelli di vita, creando per se stessa delle forme di legittimazione positiva, per cui, ad esempio, il nuovo modello di mondo sarebbe quello più adeguato all’esistenza umana, e dei discorsi finalizzati a sostenere dapprima la legittimazione, quindi l’egemonia di quella particolare forma di globalizzazione. Del resto, ogni processo di globalizzazione implica anche la creazione di uno specifico immaginario: le grandi architetture romane così come le statue degli imperatori disseminate in ogni angolo dell’orbe romano, la diffusione di una lingua, il latino, il francese o l’inglese, come lingua fondamentale per l’accesso alle posizioni di potere e per la costruzione di una koiné legata a doppio vincolo alla burocrazia della metropoli, e ancora l’introduzione di determinate forme istituzionali nella gestione del potere coloniale o la creazione di modelli artistici e di modelli di condotta etica. È mediante questi strumenti che ogni globalizzazione ha infatti creato il proprio immaginario e, attraverso questo immaginario, tentato di ricreare il mondo sul modello di una cultura specifica. D’altra parte, se la caratteristica dell’utopia è quella di creare uno spazio immaginario capace di fare cortocircuito col presente, stimolando un’alterazione delle forme di vita, è possibile dire che anche le grandi egemonie imperiali, e le varie forme di globalizzazione, hanno adottato dei modelli utopici per legittimarsi e alterare le stesse condizioni di esistenza di un mondo. In questo senso, l’utopia, e certamente l’utopia modena, rivela una sua fondamentale ambivalenza: proprio in quanto impulso alla trasformazione del dato, essa può essere adottata da parti di società o da culture deboli nel loro confronto con ceti sociali più forti e con culture egemoni, oppure, al contrario, essa può divenire lo strumento attraverso cui un ceto, uno Stato o una cultura egemone legittimano la propria posizione di forza. Se, nel contesto di un orizzonte politico, l’utopia appare come una tecnica di costruzione dell’immaginario che interviene direttamente nelle relazioni di potere, occorre allora pensare segni diversi dell’utopia – una utopia di resistenza o un’utopia di potere – a seconda del tipo di immaginario che essa è chiamata a costruire.

Se ad ogni forma di globalizzazione dev’essere sotteso un parallelo immaginario globale, l’utopia è allora una delle tecniche attraverso cui questo immaginario viene costruito. L’importanza di tale immaginario è però di importanza fondamentale, come si è detto, proprio per la costruzione di quel mondo specifico verso cui tende una globalizzazione. In altre parole: come non esiste globalizzazione senza la pretesa di una ri-creazione del mondo, tale ricreazione è resa possibile da un impulso utopico in grado di offrire gli strumenti attraverso cui il suo immaginario può essere creato. In questa prospettiva, i termini «globalizzazione» e «mondializzazione» appaiono come dei sinonimi. Tuttavia, come ha chiarito Jean-Luc Nancy in un suo saggio, è attraverso la nozione di mondializzazione che questo processo di creazione del mondo, anche mediante l’immaginario, può essere definito. Nancy sottolinea l’ambivalenza di questa connessione: si tratterebbe cioè di pensare la mondializzazione o la creazione del mondo, in termini disgiuntivi, in termini tautologici, descrivendo entrambe lo stesso processo, oppure come termini che descrivono processi differenti, ma indirizzati verso un medesimo esito[1]. Se nella tradizionale benedizione papale dell’Urbi et orbi sarebbe infatti ancora possibile rinvenire l’antica distinzione tra la città e il mondo, e soprattutto l’esatta delimitazione della Città in rapporto al Mondo che la circonda, tale benedizione perderebbe di senso oggi proprio a causa della «disintegrazione» di quel confine che ha separato storicamente città e mondo. Un confine che sarebbe stato abbattuto proprio dai processi che possiamo designare, appunto, come quelli tipici della globalizzazione o della mondializzazione contemporanea. La città prodotta dalla mondializzazione si sarebbe in realtà progressivamente moltiplicata, estendendosi sino a ricoprire l’intero orbe del pianeta. Cosa dunque potrebbe definire oggi la città e cosa la campagna? Quali sarebbero le proprietà in grado di farci distinguere lo spazio dell’Urbs da quello dell’Orbs?

Ciò che si estende in questo modo non è più propriamente «urbano» – né visto dalla prospettiva dell’urbanismo né da quello di una urbanità – ma megalopolitico, metropolitano o conurbazionale, o ancor meglio assunto attraverso le maglie larghe di ciò che si può definire come «tessuto urbano». In questo tessuto si estendono o sono sparse le folle delle città, le accumulazioni iperboliche di costruzioni (con la loro controparte di distruzioni) e di scambi (di movimenti, di merci, d’informazioni), e si accumulano in modo proporzionale le scollature e gli apartheid nell’accesso alla cosa urbana (supponendo che essa sia habitat, confort, cultura), oppure quelle esclusioni dalla città che da tempo quest’ultima ha suscitato come suoi rifiuti e sue deiezioni. Il risultato sembra sempre di più poter rientrare solo nella denominazione di agglomerazione, con il suo valore di conglomerato, di affollamento, con il senso di un’accumulazione che semplicemente concentra da un lato (in alcuni quartieri, in alcune case, a volte in alcune microcittà protette) il benessere che un tempo è stato urbano o civile, nello stesso tempo in cui essa accumula dall’altro lato quel che porta il nome semplicissimo e impietoso di miseria. (NANCY 2002: 13-14, traduzione mia)

Osservata attraverso lo spettro della città, la globalizzazione contemporanea, in quanto esito del progressivo farsi mondo della stessa città appare così sempre più come una «glomerizzazione», un’ossimorica forma in-forme e de-formata, simile cioè a quella di una moltiplicazione cellulare incontrollata. Cosa rimane dunque, in questo processo di urbanizzazione quasi tumorale del mondo e di planetarizzazione della città, di quella tensione alla creazione del mondo che pure si potrebbe ancora presumere in una «mondializzazione»? Nella figura senza figura della città della globalizzazione odierna sembrano pertanto perdersi definitivamente anche quegli impulsi utopici che hanno generato le globalizzazioni storiche. Le proiezioni occidentali sul mondo si perderebbero, cioè, proprio nel momento in cui il globo diventa, apparentemente, lo schermo senza resto su cui si proietta l’ultima utopia globale. È come se l’utopia globale abbia prodotto insomma troppa realtà, per poter ancora preservare qualcuna delle sue proiezioni utopiche. Al contrario della pulsione di creazione, ciò che resta del movimento di mondializzazione sarebbe, secondo Nancy, semplicemente una pulsione verso la proliferazione dell’immondo:

Il mondo ha perduto la sua capacità di fare mondo: sembra aver guadagnato solo quella di moltiplicare per la potenza dei suoi mezzi una proliferazione dell’immondo che, fin qui, checché se ne possa pensare delle illusioni retrospettive, mai aveva segnato in questo modo la totalità dell’orbe. Per concludere, tutto avviene come se il mondo fosse travagliato e attraversato da una pulsione di morte che non avrebbe più nulla da distruggere se non il mondo stesso. (NANCY 2002: 16)

La globalizzazione rappresentata dal suo tessuto urbano distribuito sull’orbe sembra costituire d’altronde il terminale ultimo, contraddittorio, di quelle utopie della città perfetta, che, con la loro separazione tra un «dentro» e un «fuori», hanno costituito storicamente il rapporto tra mondo e città. La progressiva scomparsa di questo rapporto sembra implicare d’altronde la scomparsa della «casa» come luogo della tradizionale domesticità e della separazione tra un interno e un esterno. Se la domus è stata nel corso dei secoli il luogo che caratterizza la madrepatria, che fa cioè della madrepatria il terminale da cui partire e a cui tornare, e dunque il centro stesso delle utopie mondializzanti, potremmo dire che l’estremizzazione del principio mondializzante – lo stesso che ricopre il mondo di un indistinto tessuto urbano – porta con sé inevitabilmente anche una catastrofe della casa come momento di elaborazione della relazione tra centro e periferia. La domus, come affermava anche Lyotard, non può più essere un’alternativa alla megalopoli globale:

Volevo dire solamente questo, sembra. Non che la domus sia la figura di comunità che può fare d’alternativa alla megalopoli. È finita la domesticità, e senza dubbio non è mai esistita se non come sogno del vecchio bambino che si sveglia e che la distrugge svegliandosi. Del bambino il cui risveglio la sposta nell’orizzonte futuro dei suoi pensieri e della sua scrittura, in una venuta che dovrà sempre essere ritardata. È così, non come una superficie d’iscrizione che starebbe lì, bella e buona, ma come un corpo astrale sconosciuto che esercita da lontano la sua astrazione sulla scrittura e il pensiero, piuttosto, quindi, come un miraggio che richiede come una condizione richiesta, – è così che il mondo domestico non cessa di esercitarsi sulla nostra passibilità alla scrittura, fino al disastro delle case. Il pensiero oggi non ne nomina, non può nominarne, alla memoria che è la tradizione, alla physis bucolica, al tempo che rima, alla bellezza giusta. A rincorrere questi fantasmi, essa è certa di fraintendere, voglio dire: essa farà fortuna nel retrò che distribuisce così bene la megalopoli (questo può servire). Il pensiero non può valere la sua casa. Ma la casa lo ossessiona.

La casa non ossessiona il pensiero di oggi come essa stringeva l’indomabile ieri, l’impegnativo al tragico. L’indomabile era tragico perché era collocato nel girone della domus. Lo schema domestico resisteva alla violenza di un timbro peraltro irresistibile. (LYOTARD 2001: 251)

È in questa prospettiva che la mondializzazione segnerebbe anche la scomparsa del tragico, la fine di quelle contraddizioni specifiche che, per secoli, hanno fatto del nostos e, all’opposto, della violenza imperialistica, gli scenari della globalizzazione. Questo non significa certamente che, nella globalizzazione contemporanea, siano spariti il nostos e la violenza: essi sono però rideclinati nel reticolo urbano e informatico che avvolge e rappresenta il mondo. Il tragico è stato come sostituito dal paradossale, precisamente com’è accaduto alla «casa», divenuto luogo di passaggio, dormitorio, e persino, appunto paradossalmente, – dopo la pandemia – ufficio / bottega telematica, in cui si è rinchiusi, ma che non diviene per questo, come invece potrebbe accadere, luogo di rifugio e di preservazione di una familiarità che mette tra parentesi, per lo meno per alcune ore, il mondo.

 

Città-mondo

Per due millenni Roma è stata evidentemente l’archetipo della città-mondo, della città che si descrive come «centro» di un mondo su cui proietta la propria specificità e il proprio modello culturale. Il suo archetipo si preserva evidentemente, ben oltre il Medioevo, attraverso due orizzonti, quello imperiale e quello religioso / spirituale. Durante il Medioevo occidentale, sono due gli imperi – quello eurocentrico, «sacro», per definizione, e quello orientale «bizantino» – che si spartiscono l’eredità di Roma. Definendosi entrambi «romani», i due imperi pretendevano di fondare la propria legittimazione proprio sull’assunzione della legittima eredità (è questo il nodo della translatio imperii) dell’Antico Impero che si era sviluppato sulle coste mediterranee a partire della progressiva espansione di una città-stato, dapprima stretta tra le potenze culturali e militari di mondi anche molto differenti tra loro, come il mondo etrusco e quello ellenistico, e quindi centro geopolitico di un mondo culturale che si era esteso dalle isole britanniche all’Arabia. Una delle caratteristiche che distinguevano l’impero di Roma da altri imperi coevi atteneva precisamente al ruolo che la città capitale assumeva come principio cardine di una modalità di governo fondata, ancor più che sul controllo dei territori, sulla progressiva estensione dell’appartenenza a Roma delle popolazioni assoggettata, o, per lo meno, delle loro élites. La potenza di Roma si fonda dunque sulla capacità di integrare progressivamente nel suo spazio politico le popolazioni con cui entra via via in contatto: in questo senso, lo spostamento dei confini del suo dominio alle regioni limitrofe, in un primo momento, alla penisola italiana, in un secondo momento, e quindi, al suo apogeo, alle più lontane regioni dell’Europa settentrionale e dell’Africa desertica, risulta essere poco più di un ampliamento delle mura della stessa città capitale. Un ampliamento che, in linea di principio, poteva considerarsi infinito, sino ad inglobare in sé tutte le terre conosciute. La pulsione che guida l’espansione romana è dunque quella di estendere potenzialmente la forma della città al mondo nella sua interezza, una pulsione che, se concretizzata, si sarebbe tradotta nella scomparsa del «mondo» come alterità irriducibile alla città, oltre che nella perfetta coincidenza, appunto, tra la città e il mondo.

Sarà precisamente questa medesima pulsione ecumenica ad essere comunicata dal paradigma politico romano a quello teologico-politico della Chiesa cattolica: da centro di un impero politico fondato sull’uguaglianza del principio di cittadinanza tra gli abitanti della sua capitale e quelli dei territori più remoti, Roma diventa quindi centro di un potere teologico e politico fondato su un nuovo tipo di cittadinanza, quello dato appunto dal battesimo cristiano, estendibile a tutti gli uomini. Il battesimo rende infatti tutti gli uomini «cittadini» di quella religione «cattolica», ancorata ad una città che è sede della tomba del suo apostolo più importante e del «rappresentante in terra» del suo fondatore spirituale. Nello scontro tra Chiesa e Impero, che attraverserà tutto il Medioevo, e la cui posta in gioco è il ruolo del governo politico della cristianità, in nessun caso il ruolo di Roma come luogo propulsore della legittimità politica e spirituale sarà posto in causa: è di Roma che i papi pretendono di essere legittimi pontefici, ereditando questo titolo dal ruolo del sommo sacerdote dell’Antichità, ed è della stessa Roma che i nuovi imperatori si pretenderanno discendenti, con l’ambizione di estendere il proprio potere su tutte le popolazioni battezzate e dunque, anche in questo caso, in linea di principio, sul mondo. La traslazione del principio universalistico ereditato da Roma in altri imperi, quale appunto quello Romano bizantino di Constantinopoli e infine quello Russo, con sede a Mosca, non estingue il modello che Roma aveva generato. Ogni impero pretende di essere il legittimo erede della Roma imperiale, e sul modello di Roma costruisce la propria capitale come luogo propulsore della propria sovranità teologico-politica. Tuttavia, l’universalismo intrinseco al concetto di Impero, oltre che alla stessa eredità di Roma, che caratterizzerà persino il nuovo impero turco-islamico che farà dell’antica Constantinopoli la propria capitale, sarà presto diluito nella concreta realtà geopolitica di potenze rivali, i cui rapporti diplomatici e commerciali obbligheranno le pulsioni universalistiche delle differenti sovranità a un reciproco riconoscimento. In ambito europeo, la nascita degli Stati nazionali moderni sarà ancora debolmente legata, all’inizio, alla preminenza della figura imperiale germanica: con la frantumazione della koiné religiosa e politica europea e le successive guerre di religione, con la determinazione del principio cujus regio, ejus religio della pace di Augusta (1555) e poi con la sanzione del nuovo tipo di sovranità, con la pace di Westfalia, l’universalismo teologico-politico romano sarà definitivamente abbandonato, per permanere nella sola forma teologico-politica del cattolicesimo romano[2].

Una delle cifre di distinzione della modernità è dunque la scomparsa di quell’universalismo mondializzante che, dall’Antichità romana, era stato tradotto nell’ecumenismo della societas christiana, e romana, del Medioevo. In forma simile, scompare dal cosmo della modernità quella centralità della città il cui confine mobile pretenderebbe di muoversi progressivamente fino ad includere tra le sue mura l’interezza della terra. Le città dei nuovi Stati sovrani saranno semplicemente le capitali politiche e amministrative di un territorio e di una popolazione, la cui relazione è costruita adesso sulla base delle strutture organizzative della statualità. L’universalismo imperiale che vediamo in esercizio ancora dopo la fine dell’Impero d’Occidente, nel sanguinosissimo e fugace tentativo di Giustiniano di riconquistare da Oriente la totalità delle antiche terre poste sotto il dominio romano, poi nelle lotte del Sacro Romano Impero contro il Papato o contro i Comuni, verrà ereditato all’inizio della modernità dalle forme di imperialismo che caratterizzeranno l’espansione degli Stati europei e le conquiste americane e africane. Da sottolineare come la prima fase di questo imperialismo, quello che porterà alle «Reconquistas» castigliana e portoghese della penisola iberica, preservi ancora il segno crociato che tendeva a estendere nuovamente sulle terre un tempo cristiane, e romane, il dominio dell’universalismo cristiano. Così, il movimento di conquista e colonizzazione, prima delle coste maghrebine, poi del Sudamerica, da parte dei regni di Portogallo e Spagna, e la stessa spartizione del mondo tra le due corone, sancite dal Trattato di Tordesillas (1494), s’inseriscono ancora, nella loro prima fase e per lo meno fino al regno di Carlo V, che riunirà alla corona di Spagna quella di imperatore, sotto il segno dell’universalismo imperiale cattolico.

Non più legati ad un universalismo, gli imperialismi coloniali moderni perdono dunque il rapporto diretto con la città-mondo, che aveva caratterizzato le epoche precedenti. Tuttavia, sono proprio le nuove forme di imperialismo a pretendere una legittimazione utopica di nuovo tipo: la prima globalizzazione moderna, come processo di espansione degli Stati europei verso i nuovi territori, viene legittimata attraverso l’utopia missionario-religiosa, per quanto in modo ambivalente. Non è un caso che proprio questa utopia, da sostegno dell’imperialismo europeo, si rovescerà molto spesso in utopia delle rivolte anticoloniali.

Bisognerà aspettare l’imperialismo del XIX secolo – che in Francia assume il volto «utopico» dell’universalismo rivoluzionario – perché la relazione tra imperialismo e città si ricostituisca nella forma della «città cosmopolitica». In questa figura di città non è già più in questione il rapporto tra città e mondo come tra due universi simbolici chiusi, che entrano in relazione attraverso la proiezione della città sul mondo, ovvero attraverso il processo di progressiva identificazione tra confini della città e orbe da essa dominato. Nella città cosmopolita, prodotto specifico dello Stato imperialistico ottocentesco, non è tanto la città ad uscire da se stessa per farsi mondo, quanto il mondo ad entrare nello spazio dell’urbs. La città ambisce in questo senso a farsi rappresentazione della complessità delle culture, delle forme di vita che gravitano nello spazio imperiale di un determinato Stato, come, più in generale, del mondo. Non è un caso, in questo senso, che il paradigma della città cosmopolita ottocentesca divenga Parigi. Nell’Esposizione universale del 1889, l’utopia della città cosmopolita e l’utopia universalista dei principi della Rivoluzione – di cui l’esposizione celebrava infatti il centenario – sono unite in uno spazio che è però già di per sé parte della grande utopia del mercato globale che, attraverso le rotte commerciali soprattutto inglesi si era rivelata come la nuova fondamentale utopia della globalizzazione della seconda metà del secolo. Sarà questa nuova utopia, del resto, a creare le condizioni per lo sviluppo della mondializzazione capitalistica a partire dal Secondo Dopoguerra e, con l’assorbimento prima della Cina e poi dei Paesi del blocco sovietico nell’orbita delle organizzazioni del commercio mondiale, per la nascita di quella fase della globalizzazione, l’attuale, caratterizzata dall’integrazione dei diversi modelli di sviluppo dentro un modello che pretende di divenire unico e identico per tutto il pianeta. Nell’apparizione dei Passages parigini – e dell’anonimo flâneur che li attraversa – Benjamin identificava quegli aspetti che facevano della città cosmopolita un anello di congiunzione epocale. Se in tutte le produzioni dell’epoca moderna sono le necessità tecniche a decidere le forme e lo stile, e non il contrario[3], così la città che vuole accogliere in sé l’insieme della produzione mondiale e si fa essa stessa rappresentazione fantasmagorica, insieme, del processo di produzione e delle merci prodotte nel mondo, può apparire uniforme solo ad uno sguardo superficiale. Essa in realtà definisce al suo interno i propri confini, lancia prospettive che separano i quartieri: volendosi fare rappresentazione del mondo, la città cosmopolita, la Parigi del XIX secolo, pretende di integrare dentro il sé il mondo, in forma però appunto mediata. Il mondo che la agita dall’interno dev’essere diviso nelle sue rappresentazioni, esattamente com’è realmente diviso il mondo violentato dall’imperialismo che da essa promana:

La città è uniforme soltanto in apparenza. Perfino il suo nome assume suoni differenti nei diversi quartieri. In nessun luogo – se non nei sogni – il fenomeno del confine può essere esperito come nelle città. Conoscerle significa avere un sapere di quelle linee che, con funzioni di confini, corrono parallele ai cavalcavia, attraversano caseggiati e parchi, lambiscono le rive dei fiumi; significa conoscere questi confini nonché le enclavi dei vari territori. Come soglia, il confine passa attraverso le strade; un nuovo territorio ha inizio come un passo nel vuoto, come se si inciampasse in un gradino di cui non ci si era accorti. [C 3, 3 BENJAMIN 2002: 94]

È in fondo questo passo nel vuoto della città cosmopolita a farla entrare, come accade se si segue la prospettiva che dall’Arc de Triomphe va a quello della Défense, e più oltre ancora, nell’era della megalopoli.

 

Città e villaggi globali

In realtà, spiega Farinelli, il modello della «megalopoli», elaborato tenendo presenti soprattutto alcune aree urbane del Nordamerica, e che tenta di racchiudere cartograficamente dentro un unico spazio urbano dei sistemi urbani prossimi, non rispecchierebbe fedelmente il reale funzionamento di queste forme:

[A]ll’origine del concetto di megalopoli […] vi è l’immagine che nella Politica [III, 3, 1276°, 25] Aristotele dà di Babilonia, una «formazione urbana che ha la portata di una nazione piuttosto che di una città». Ma Babilonia, aggiunge subito Aristotele, era stata presa da due giorni e tutta una parte della città non se n’era ancora accorta. Babilonia insomma era qualcosa che sembrava un’unità soltanto perché cinta da mura, soltanto perché appariva tale dal punto di vista topografico. Ma in realtà essa non agiva affatto in maniera unitaria, era affetta anzi da fratture tra il centro e la periferia, come testimonia anche Erodoto [I, 191]. E lo stesso sembra valere per la megalopoli americana. (FARINELLI 2003: 182)

La stessa complessità intrinseca alla megapoli già nell’età antica renderebbe quindi difficile comprendere il dispositivo urbano contemporaneo attraverso la nozione di megalopoli. Riferirci alla città contemporanea guardandola semplicemente dall’alto, topograficamente, approssimandola cioè attraverso il solo vettore dell’estensione – una città grande come uno Stato – ci dice in realtà poco sull’effettivo funzionamento di una conurbazione allargata, che non dev’essere pensata secondo il metro della prossimità costruttiva, messo peraltro radicalmente in questione dallo sviluppo delle reti elettronico-informative:

[p]roprio dalla pretesa e preliminare individualità in senso topografico, quella visibile sulle mappe, Gottmann ha inferito la nascita di una nuova entità urbana, la specificità di Megalopolis dal punto di vista dell’essenza. All’unicità delle dimensioni dell’agglomerato (al primato topografico, all’eccezionalità della forma) egli ha fatto corrispondere l’unicità del meccanismo interno, il primato funzionale […]. Senza con ciò far nessun tesoro proprio della lezione di Babilonia cui invece prima di tutto si richiamava. (FARINELLI 2003: 183)

L’attentato del 2001 contro le Torri Gemelle certificherebbe, per Farinelli, proprio la fine del modello di «megalopoli». A guardare la geografia dei grattacieli newyorkesi, salta agli occhi, infatti, come la composizione della popolazione deceduta fosse solo in parte originaria dello Stato di New York o degli stessi Stati Uniti, mentre una fetta consistente della popolazione fosse straniera, e in particolare asiatica. Del resto, se «[n]ella vita urbana quasi tutte le relazioni cominciano con scambi tra stranieri», è pur vero che «mai nella storia dell’umanità tali relazioni sono state, a lungo raggio, così intense» (FARINELLI 2003: 194). La cartografia della popolazione delle Torri Gemelli esemplificherebbero, in questo modo, la natura delle città al vertice dell’economia globale contemporanea, sedi dell’attività finanziaria e dell’innovazione: quelle che King aveva definito, appunto, «città globali» (KING 1990), città «integrate tra loro da una vera e propria catena di produzione finanziaria» (FARINELLI 2003: 195). Le funzioni che caratterizzano tale modello di città dipendono, per Farinelli, precisamente «dalla rivoluzione informatica del sistema delle comunicazioni, dalla sua trasformazione in una rete elettronica» (FARINELLI 2003: 195). Queste città renderebbero evidente, in modo particolare, la discrasia, tipica del capitalismo contemporaneo, tra la quantità, ridotta, di forza lavoro e la mole di transazioni finanziarie:

[l]’esistenza di tali città si svolge, per la maggior parte, in uno spazio invisibile, quello dei flussi elettronici. E proprio perché si compongono, come il resto dei territori nazionali, dei frammenti di quel che in precedenza tendeva a essere lo spazio visibile continuo, omogeneo e isotropico, esse ospitano una popolazione socialmente frammentata e culturalmente disomogenea: come la micidiale cartografia sulla carne viva dell’11 settembre 2001 ha repentinamente mostrato al mondo. (FARINELLI 2003: 195)

La parte conclusiva dello studio di Farinelli ha il grande merito di costruire, attraverso una genealogia della stessa cartografia, una genealogia delle forme urbane contemporanee[4]. Se per «città» Farinelli intende «ogni sede in grado di produrre un’immagine materiale, pubblica e perciò condivisa, della forma e del funzionamento del mondo o di una sua parte» (FARINELLI 2003: 153), attraverso questa prospettiva sono analizzati i principali modelli urbani sviluppati in Occidente nel quadro dell’economia capitalista. Abbiamo così la città fordista, con il suo modello spaziale per «zone concentriche», per «nuclei multipi», o per «settori radianti». Quindi la città keynesiana:

[a]l contrario della città fordista, nazionale, topografica e visibile, la città keynesiana inizia a trasformarsi in un organismo trasnazionale irriducibile al modello topografico e invisibile nei suoi meccanismi. Questo perché nel 1969, esattamente l’anno del primo atterraggio sulla Luna, negli Stati Uniti nacque la prima rete di comunicazione elettronica […], e la materia che ci circonda iniziò a mutarsi in immateriali unità d’informazione. Un evento paragonabile soltanto al mitico scontro tra Ulisse e Polifemo […]: allora lo spazio veniva per la prima volta alla luce; negli anni Settanta, preso nella rete, iniziò a morire. (FARINELLI 2003: 189)

A partire dagli anni Settanta, la città deve infatti fare i conti con la rivoluzione informatica. In realtà, spiega Farinelli, sono quattro i fenomeni, contemporanei, che conducono alla progressiva sparizione del modello keynesiano: la fine dei programmi di redistribuzione del Dopoguerra, l’accelerazione e soprattutto l’orizzonte sempre più internazionale degli scambi economici, la decentralizzazione degli impianti di produzione, lo sviluppo di nuove tecnologie basate sul trattamento dell’informazione. Sono questi processi a condurre alla differenziazione del lavoro nei due settori dell’economia formale, basata sull’informatizzazione, e dell’economia informale e illegale, basata sullo sfruttamento del lavoro degradato. La specificità della nuova forma urbana sarà allora quella di essere in parte invisibile: da una parte, la natura elettronica e immateriale dei flussi d’informazione, dall’altro proprio l’informalità dei sistemi produttivi, rendono la città una specie di ibrido, prodotto di due logiche coesistenti e inseparabili. Se la logica del sistema dei flussi «disarticola, in senso sociale prima ancora che spaziale, ogni struttura locale», d’altra parte, «i valori locali restano indispensabili, proprio perché è su di essi che l’economia informazionale si regge» (FARINELLI 2003: 191). Proprio negli stessi anni, Marshall McLuhan coniava il termine «villaggio globale» per rappresentare la trasformazione informatica che permetteva di abolire il rapporto tra centro e periferia: «la nostra civiltà specializzata e frammentata, strutturata secondo i modello centro / margine sta sperimentando improvvisamente una ricomposizione istantanea di tutte le sue parti meccanizzate in un tutto organico. Questo è il nuovo mondo del villaggio globale» (MCLUHAN 1994: 93). Nella riduzione del mondo a «villaggio globale» e nella trasformazione della città in «città globale» assistiamo quindi ai due esiti della trasformazione informatica: in entrambi i casi è il rapporto tra città e mondo a dover essere ricodificato.

«Megalopoli», «città globale» e «villaggio globale» sembrano ereditare, d’altronde, l’antica pulsione utopica della città a inglobare il mondo: la megalopoli sul terreno dell’estensione, la città globale come nodo neuronale della rete informatica, immateriale, che, avvolgendo con i suoi fili, sia materiali che immateriali, sulla geografia planetaria, costituisce il motore decisivo del modello produttivo rappresentato, in altri termini, dal villaggio globale. Sia la megalopoli che la città globale tendono ad annullare la separazione tra mondo e città, ma nella «città globale» la città mantiene ad ogni modo una sua peculiarità, non fosse altro che quella di snodo tra le connessioni che attraversano anche altre città: in questo senso, essa mantiene però il suo statuto di «luogo» solo a condizione di svuotarlo dall’interno. Per integrarsi nel sistema produttivo globale, la città globale dev’essere anche un non-luogo, assumere cioè le forme di una struttura di passaggio, che può essere sostituita qualora venga meno la sua funzione o qualora per il sistema produttivo risulti alla fine più conveniente spegnerla[5]. Del resto, come spiega ancora Farinelli, il modello della città globale rende del tutto evidente il passaggio epistemologico, che caratterizza il moderno, dal paradigma della mappa a quello del globo. In questo senso la città globale può essere davvero considerata il terminale ultimo di questo passaggio. La rappresentazione del globo implica infatti necessariamente uno sguardo esterno, intemporale e immateriale, in quanto collocato in un punto indeterminato del vuoto. Non è un caso, perciò, che la tecnica che consente al primo astronauta di «sottrarsi, con il suo girotondo intorno alla Terra, alla moderna equivalenza […] tra mondo e immagine cartografica del mondo» (FARINELLI 2003: 192) sia la stessa che consente la creazione delle città globali:

[P]er il soggetto che si aggira intorno al globo lo spazio non esiste, né dove il soggetto si trova né sulla sfera: i passi del soggetto obbediscono a una misura che non è certo standard, e sul globo non esiste la scala, ma le proporzioni delle sue parti dipendono dalle reciproche relazioni interne, secondo una logica esclusivamente autoreferenziale. (FARINELLI 2003: 193)

La logica del globo, per cui «a una piccola superficie corrisponde un grande volume», corrisponderebbe dunque alla logica dell’accumulazione capitalistica, che, se prima ha sfruttato lo spazio, adesso appare disomogenea, anisotropica, in quanto «retta dall’assenza di un centro, e fondata al contrario sull’esistenza di una pluralità di possibili centri virtuali, come appunto di fatto accade sulla superficie del globo» (FARINELLI 2003: 193). Allo stesso modo, l’apparenza topografica della città globale, nella quale le categorie di spazio e tempo non spiegano quasi nulla, «è una spoglia dalla quale non si ricava più nulla di plausibile e concreto circa il funzionamento del mondo» (FARINELLI 2003: 193). È una città che abitiamo continuamente, «anche quando abbiamo l’impressione di esserne davvero molto lontani, di stare all’altro capo del pianeta» (FARINELLI 2003: 193). In questa città, pertanto, neanche il cosmopolitismo ha più senso: laddove, nella città cosmopolita, lo spazio dell’urbs si voleva rappresentazione della complessità, per quanto dominata, del mondo, ora spazio dell’urbs e orbs coincidono in una indifferenza che è però sempre più scevra di complessità, non essendovi più un altrove da includere nella rappresentazione. È la stessa rappresentazione, in questo modello, a divenire impossibile, se non in quanto momento tra gli altri di una dinamica di informazione e di rappresentazione elettronica e globulare.

Ragionando preliminarmente sull’essenza metodologica del suo lavoro intorno ai Passages, Benjamin chiariva come per lui non avesse senso parlare di «epoche di decadenza» (BENJAMIN 2002: 511). Applicare il proprio sguardo al negativo della storia consentirebbe così di includere nello sguardo storico almeno una parte di questo negativo, aprendo la strada ad un’apocatastasi storica in grado di reimmettere nel presente tutto il passato (BENJAMIN 2002: 513). In altre parole, «la “comprensione” storica va intesa fondamentalmente come una sopravvivenza del compreso e, dunque, come base della storia, va in genere considerato quanto è stato riconosciuto nell’analisi della ‘sopravvivenza dell’opera’ e della sua ‘fortuna’» (BENJAMIN 2002: 514). Pensare la globalizzazione implica dunque, oggi, costruire una epistemologia adeguata ad essa, pensare in termini «complessi», scegliere insomma un punto di osservazione adeguato all’oggetto, applicare il nostro sguardo al negativo, coscienti di «essere condannati al pensiero incerto, a un pensiero trapassato da fori, a un pensiero che non possiede nessun fondamento assoluto di certezza» (MORIN 2005: 69), significa pensare in condizioni drammatiche e sapere di poterlo fare. In fondo, non diversamente da quanto Benjamin faceva, pensando la città del XIX secolo negli anni ’30 del XX, si tratta oggi di seguire il filo utopico che ha prodotto la città e il villaggio globale in cui siamo immersi, fare la genealogia, attraverso il modello della città che si fa mondo, di quell’«impero» che Hardt e Negri tentavano di rappresentare ancora all’inizio del secolo, riattualizzando una nozione che sembrava essere stata definitivamente allontanata dalla storia e la cui cogenza epistemologica consentiva invece loro di dare conto dei fenomeni di deterritorializzazione attraverso cui una nuova sovranità governamentale si faceva strada, appunto in quanto «globalizzazione»[6]. Analizzare la globalizzazione come l’effetto di lungo periodo delle utopie che hanno voluto fare, dell’intero pianeta, una città e della città una rappresentazione del mondo diventa così una possibile pista per cartografare oggi il negativo della nostra storia globale, l’u-topia non cartografabile di ogni carta: il negativo dei «passages» della nostra «città globale» e i sotterranei del «villaggio globale».


BIBLIOGRAFIA
BENJAMIN, Walter (2002). I «passages» di Parigi. Volume primo. Einaudi: Torino.
FARINELLI, Franco (2003). Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo. Einaudi: Torino.
HARDT, Michael; NEGRI, Antonio (2002). Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione. Rizzoli: Milano.
KING, Anthony D. (1990). Global cities. Post-imperialism and the Internationalization of London. Routledge: London and New York.
KUHN, Thomas S. (1999). La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Einaudi: Torino.
LYOTARD, Jean-François (2001). L’inumano. Divagazioni sul tempo. Lanfranchi: Milano.
MACLUHAN, Marshall (1994). Understanding Media. The Extensions of Man. The MIT Press: London and New York.
MORIN, Edgar (2005). Introdução ao pensamento complexo. Meridional / Sulina: Porto Alegre.
NANCY, Jean-Luc. (2002). La création du monde, ou la mondialisation, Galilée: Paris.
SCHMITT, Carl (1986). Cattolicesimo romano e forma politica. Milano: Giuffré.
SLOTERDIJK, Peter (2013). In the World Interior of Capital: For a Philosophical Theory of Globalization. Tr. W. Hoban. London: Polity.
SIMPSON, Tim (ed.) (2017). Tourist Utopias. Offshore Islands, Enclave Spaces and Mobile Imaginaries. Amsterdam University Press: Amsterdam.
SOUSA SANTOS, Boaventura (org.) (2001), Globalização. Fatalidade ou utopia?, Porto: Edições Afrontamento.

* Questo testo è stato scritto grazie al finanziamento della FCT – Fundação para a Ciência e a Tecnologia, Portogallo – attraverso il progetto DFA/BD/5403/2020 e il progetto «Fragmentation and Reconfiguration: Experiencing the City between Art and Philosophy» PTDC/FER-FIL/32042/2017.

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