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Tra reazione e avanguardie. Composizione del rider in Italia

di Andrea Rinaldi

A seguito delle mobilitazioni dei rider in alcune città italiane, Andrea Rinaldi ci offre un'analisi delle componenti che attraversano questo settore lavorativo

rider75Durante una nota trasmissione radio (La Zanzara) che è un po’ un coacervo di rancore via telefono, chiama un uomo che si qualifica come rider, il presentatore se la ride con un po’ di disprezzo classista, il lavoratore (bolognese) si fa subito benvolere con qualche battuta da ‘uomo di strada’ che piace tanto alla produzione, poco dopo cattura sdegno e attenzione ammettendo candidamente che quando non gli viene lasciata la mancia dai clienti dei quartieri alti si riserva il diritto di sputare sui campanelli. Sulla radio di Confindustria non si parla di condizioni lavorative e sfruttamento, dei veri motivi per cui un lavoratore finisce a sfogarsi (anche legittimamente) sui clienti, e il rider in questione è probabilmente estraneo alle mobilitazioni in corso a Torino, Milano, Bologna. Però dal suo gesto, assolutamente non isolato, che ispira benevolenza dallo speaker di destra e orrore allo speaker di sinistra, vengono fuori alcune questioni, che bene o male muovono questo articolo.

Sarebbe inutile rimarcare ulteriormente l’utilità strategica per il sistema economico che hanno i rider in questa pandemia, i rischi che corrono o la paga da fame con cui vengono retribuiti. Difatti si accumulano sui giornali innumerevoli inchieste e articoli sulla subalternità della loro condizione, molti meno ovviamente sulle punte di radicalità e utilità raggiunte dalle loro mobilitazioni.

Come si accennava, in alcune grandi città italiane sono in corso mobilitazioni da metà Ottobre, questo perché le condizioni contrattuali dei fattorini collaboratori delle aziende di Assodelivery (Glovo, Deliveroo, UberEats e fino a pochi giorni fa JustEat) si sono evolute in peggio grazie alla mossa di un importante sindacato (Ugl) che si è autonominato rappresentante dei rider e che ha stipulato un contratto con le piattaforme che conferma il cottimo, elimina gli incentivi e le statistiche e di fatto aumenta la precarietà cancellando la prenotazione delle ore ma mettendo un meccanismo di freelogin. In sostanza un sistema di cottimo puro e semplice senza un orario di lavoro. Questo contratto, per quanto su certi aspetti illegale, al momento è in vigore, e i rider sono stati costretti a scegliere tra il firmare un contratto su cui non hanno avuto voce in capitolo e il licenziamento.

Le mobilitazioni sono quindi nate in risposta a questo asse tra sindacato e padroni, mentre altri sindacati, come i confederali, non hanno organizzato nessuna mobilitazione ma ovviamente hanno fatto la voce grossa con il (loro) governo: come si permette un sindacato minuscolo di strappare la finta contrattazione con il governo a CGIL-CISL-UIL? D’altronde l’uso storico che il sindacato fa delle vertenze è acquisire potere contrattuale, potere economico (dato da tessere e relativi finanziamenti pubblici) e potere mediatico. Da anni si susseguono annunci, in particolare in accordo con il governo cinquestelle, di volere regolarizzare i rider, ovvero trasformare il loro lavoro da collaborazione autonoma (spesso con partita Iva) a lavoro dipendente. I sindacati - ma anche alcuni autoeletti rappresentanti dei rider dal basso, come nel caso di Riders Union Bologna - si sono prestati a questa passerella che a due anni di distanza non ha portato a nulla se non ad un accordo peggiorativo e un po’ di visibilità per sindacati e soprattutto per Luigi Di Maio, allora ministro del lavoro.

Fortunatamente al di fuori dei circuiti sindacali sono nate mobilitazioni come a Torino e Milano che hanno portato la lotta contro il caporalato digitale (di questo in effetti si parla) a un livello più alto, e in questi giorni abbiamo visto blocchi ai fastfood che impediscono l’acquisto e l’asporto della merce, cortei in bici che bloccano le arterie principali delle città e vere e proprie azioni contro i crumiri che continuano a lavorare. Come al solito, il teatrino mediatico di sinistra non si è fatto attendere, con i soliti moniti «va bene la protesta, ma non sono queste le forme» ecc… ma non ci soffermiamo. Molto più interessante è osservare il dibattito interno alla categoria sociale dei rider, una categoria magmatica e indefinita non inquadrabile unicamente per sesso, età o etnia, che si incontra e si scontra davanti alle centrali produttive del delivery ma soprattutto nei gruppi facebook e whatsapp di lavoratori.

Questi gruppi sono utilizzati soprattutto da italiani, giovani o meno giovani, tanti padri di famiglia, tante partite IVA che fanno consegne come integrazione ad altri lavori, alla cassa integrazione o ai sussidi di disoccupazione; tendenzialmente si scorge tanta rabbia ma anche difesa ad oltranza della propria categoria e del proprio lavoro. Questo settore che potremmo definire autoctono e adulto è maggioritario nelle province e nelle piccole città e minoritario nella grandi città, e soprattutto ha introiettato la mentalità stereotipata della partita IVA, che vuole guadagnare e non chiede elemosina, vuole lavorare e vuole semplicemente essere messo in condizione di farlo, pandemia o meno. Spesso sono le stesse persone che su questi gruppi si vantano del loro guadagno a fine mese, cifre che a lordo superano i 1300 euro, ma tolti ritenuta d’acconto, mance, benzina e eventuali danni non superano quasi mai i 1000 euro, anche a fronte di 50 ore di lavoro. Quello che per alcuni di loro è importante dimostrare è la loro performance lavorativa, ovvero che chi si lamenta lo fa in quanto scansafatiche. Vogliono altresì dimostrare che essere un rider è da furbi e non da sfruttati, quindi ricacciare una aurea di subalternità ed eliminare l’etichetta di disperato, povero e sfruttato. Questo settore difende la sua scelta di integrazione al reddito che, in funzione di poter continuare ad essere rider come secondo lavoro o in accompagnamento a cassa integrazione e sussidi, definiscono come un «non-lavoro» che appunto deve rimanere autonomo e intermittente, pena l’eliminazione della possibilità di lavorare e guadagnare in qualsiasi città, a qualsiasi ora, dopo mesi di inattività, in contemporanea con i sussidi, in qualsiasi momento tu ne abbia bisogno, senza l’ansia del controllo del datore, senza dover fare formazione e senza dover garantire a qualcuno la tua disponibilità.

Questi elementi di estremo precariato, in questa società caratterizzata invece da rapporti lavorativi costruiti sulla paura del padrone, sull’ansia della prestazione, sull’orario fisso, sui colloqui arbitrari e sui cv gonfiati di skill e titoli, sono beni preziosi per chi ha visto sconvolgere la propria vita e la propria routine dalla crisi e dal lockdown e non riesce a trovare una fonte di reddito dignitosa. Fare il rider (e tutti hanno iniziato convinti che sarebbe stato un appoggio temporaneo salvo essere successivamente smentiti dalla realtà) è un mezzo di adattamento e anche una via di fuga dall’incubo del lavoro subordinato e dalla depressione provocata dall’insuccesso nella ricerca del lavoro (in particolare per uomini bianchi di mezza età con famiglia, che subiscono maggiormente lo stigma sociale della disoccupazione, dell’improduttività e dell’inutilità). Con le piattaforme tendenzialmente si viene messi in condizione di lavorare quasi subito senza un padrone che si sfoga giornalmente delle sue frustrazioni, senza essere costretti a farsi andar bene il bon ton con i colleghi o gli orari da caserma.

Ovviamente dopo tutte queste aspettative inizia in totale autonomia il lavoro, che nei fatti è un lavoro subordinato all’algoritmo, alla concorrenza con gli altri rider, alle statistiche, alla velocità e alla produttività (ovvero quanti ordini riesci a completare e quindi quanto ti trovi in banca a fine mese). Ma nonostante questo, per la situazione di crisi, per la sua flessibilità e per la differenza apparente dal lavoro subordinato, rimane un lavoro che per quel settore autoctono/adulto è considerato positivamente, anche se nell’attesa di lavori migliori è passato dall’essere un secondo lavoro ad essere l’unica fonte di reddito.

Le aziende questo lo sanno, ed essendo in espansione su tutto il territorio nazionale proprio grazie alle misure del lockdown sono tra le poche realtà che richiedono e attraggono forza lavoro anche in un momento storico come questo dove le assunzioni sono praticamente bloccate. Molti ex lavoratori dipendenti sono così costretti ad approdare a questa forma di collaborazione autonoma mettendo a valore il proprio tempo, ovviamente, ma anche i propri mezzi di trasporto, trasformandosi in un libero professionista, idealmente capace di potere guadagnare quanto vuole, ma nella pratica «libero» solo di fare 50 ore di bicicletta per una paga da fame.

Le aziende come Deliveroo sono state capaci di costruire fidelizzazione non tanto del cliente quanto più di questa composizione di lavoratori che su un totale di sette/ottomila dipendenti garantiscono la tenuta del sistema anche di fronte a scioperi, come quelli di inizio Novembre, che hanno messo a repentaglio la fornitura del servizio stesso (e difatti nelle giornate di sciopero e di astensione dal lavoro compaiono incentivi sulle consegne per chi vuole lavorare). Soprattutto per questo è quindi importante soffermarsi sulla composizione di questo settore, per capire come scardinare narrazione e potere della cosiddetta gig-economy, che tanto gig (lavoretto) non è. I giornali non riescono a vedere la reale strutturazione etnica e generazionale del rider, che in parte è fatta di un ceto medio declassato, e quindi costruiscono la narrazione romantica, così cinematica, dei giovani studenti che si pagano gli studi. Esiste una fetta fatta sì da giovani (intesi come studenti universitari) ma aldilà del dato numerico di chi in Italia si è loggato almeno una volta con una piattaforma (si parla di un numero assai superiore ai 10mila) le componenti più produttive, che lavorano spesso e tanto, che garantiscono la stragrande maggioranza del servizio, e che contano sul mestiere di rider per il sostentamento, sono adulti (quindi anche anagraficamente giovani ma fuori dal circuito della formazione), italiani e stranieri.

La componente autoctona, che potremmo definire la parte reazionaria, è maggioritaria e diffusa soprattutto nelle provincie, in quei territori che difficilmente si possono attraversare in bicicletta, dove ci sono minori punti di delivery importanti, pochissime occasioni di socializzazione tra lavoratori, dove non ci sono organizzazioni rivendicative e dove il rider è una figura meno evidente in strada. In questi territori immensi dove non esistono forme di contestazione alle aziende, anche se non sono esenti da critiche, e dove la mentalità di molti lavoratori autonomi è fondamentalmente individuale, il rancore è così indirizzato soprattutto verso il mondo sindacale, verso i clienti e verso la componente combattiva del mondo dei rider. Poche ore dopo la mobilitazione del 7 Novembre si legge su un gruppo di lavoratori: «Il primo negro che mi impedisce di prendere un ordine lo prendo a catenate nel viso». A fargli eco altri lavoratori: «se mi toccano le prendono, è legittima difesa», «questo modo [quello dei blocchi, Ndr] è sbagliato e violento». A parlare sono lavoratori di Torino come anche di piccoli-medi comuni di tutta Italia, l’azienda spesso criticata ma mai contestata pubblicamente è sullo sfondo rispetto alla rabbia verso i colleghi e i sindacati genericamente intesi che, eliminando il sistema delle statistiche individuali, hanno trasformato un «lavoretto buono», che garantiva ai rider con più ore, più giudizi positivi, più velocità e più consegne portate a termine, di aver la priorità per segnarsi in calendario. Siamo ancora di fronte al risentimento dato dal declassamento?

Questo tipo di lavoratore esiste anche nelle grandi città, come il succitato rider bolognese che sputa sui campanelli, ma in queste città caratterizzate da mercati del turismo e della ristorazione completamente differenti c’è una forte componente giovanile, spesso legata all’università, spesso intermittente perché più appetibile nel mercato del lavoro, e soprattutto una componente straniera (in maggioranza pakistana), in buona parte combattiva, etnicamente solidale, in costante mobilitazione contro la truffa della collaborazione autonoma e dell’algoritmo. Ed è proprio questa componente straniera che ha segnato gli sviluppi e l’avanguardia delle lotte lavorative, che ha portato ad esempio l’azienda Glovo a chiudere i suoi uffici a Bologna dopo innumerevoli blitz spesso individuali o auto-organizzati, che ha superato e spinto gli autonominati rappresentanti dei rider e che ha rovesciato il tappo di questa nascente aristocrazia dei leader del cosiddetto sindacalismo di base, più attenti alle inutili conferenze in comune e alla riproduzione della loro immagine che alle istanze radicali che provengono dalla composizione di classe. Questo tappo è esploso più volte nel corso degli ultimi anni, quando tutte le tecniche di addomesticamento dei suddetti leader non hanno funzionato sulla rabbia dei lavoratori stranieri, che a differenza di molti giovani e autoctoni hanno molti meno strumenti per trovare altri lavori, e si trovano costretti a convivere per anni e anni con questo lavoro che non garantisce nemmeno contributi o disoccupazione. La praticità delle loro istanze spesso individuali e vendicative ha superato e supererà ancora, in forme forse inedite, la tendenza del sindacalismo (vero o raffazzonato) a mettere la vertenza e la riproduzione del ceto politico davanti allo sviluppo della forza collettiva, la questione è quindi saper organizzare questa rabbia spontanea.

Data la lettura parziale che abbiamo dato di questo settore rimane la questione più importante, ovvero se questo settore sia ricomponibile su un piano di attacco, tra stranieri e autoctoni, magari su un piano rivendicativo inedito, che non metta a rischio il ruolo di questo lavoro come sostegno ad altre entrate. Sicuramente la crisi che andrà ad approfondirsi aprirà le porte di questo impiego a molti altri settori sociali e altri italiani con partita IVA o dipendenti licenziati, ma con questo nuovo sistema di freelogin si limiterà probabilmente la capacità di guadagno, aumentando il malcontento anche di quei settori che fino ad oggi sono fiduciosi delle possibilità di guadagno del loro lavoro. Tutto questo mentre le lotte e la congiuntura internazionale hanno rotto il fronte padronale, con JustEat che esce da Assodelivery e promette l’assunzione diretta dei collaboratori da gennaio 2021, probabilmente assumendosi l’onere di licenziare di fatto moltissimi collaboratori e a suo malgrado aprendo nuovi scenari di lotta da sfruttare, piegare e votare all’attacco.

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