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Possiamo, quindi dobbiamo

Alain Badiou

[Questo testo è stato estratto dall'intervento pronunciato in occasione di una conferenza tenutasi a Londra nel maggio 2009 al Birbeck Institute, per iniziativa di Alain Badiou e Slavoj Žižek, dal titolo On the idea of Communism. Gli atti di questo incontro, che hanno visto la partecipazione di alcuni dei principali filosofi contemporanei, sono stati raccolti in un libro che ha visto la pubblicazione in Francia, Spagna e Inghilterra. In Italia, con il titolo L’idea di comunismo, lo stesso libro sarà disponibile nel mese di aprile nel catalogo delle edizioni DeriveApprodi.  Segnaliamo che il testo qui riportato non rappresenta la versione integrale dell'intervento]

L’operazione «Idea del comunismo» richiede tre componenti originarie: una componente politica, una componente storica e una componente soggettiva. Cominciamo dalla componente politica. Ovvero da quel che chiamo una verità, una verità politica. A proposito della mia analisi della Rivoluzione culturale (verità politica per eccellenza), un commentatore del giornale britannico «The Observer», si è sentito in diritto di affermare che, alla sola constatazione del mio rapporto positivo con un simile episodio della storia cinese (che per lui, naturalmente, non è stato altro che un caos sinistro e omicida), c’era da congratularsi del fatto che la tradizione empirista inglese avesse «vaccinato [i lettori dell’“Observer”] contro ogni indulgenza verso il dispotismo dell’ideocrazia». Si congratulava, insomma, del fatto che l’imperativo dominante nel mondo odierno fosse «Vivi senza Idea». Per fargli piacere, comincerò quindi col dire che, dopotutto, si può descrivere in modo puramente empirico una verità politica: come una sequenza concreta e databile in cui sorgono, esistono e svaniscono una nuova pratica e un nuovo pensiero dell’emancipazione collettiva. Se ne possono anche fornire alcuni esempi: la Rivoluzione francese tra il 1792 e il 1794, la guerra popolare in Cina tra 1927 e il 1949, il bolscevismo in Russia tra il 1902 e il 1917 e – purtroppo per l’«Observer», anche se non credo che gli altri esempi gli risultino più graditi – la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, almeno tra il 1965 e il 1968. Ciò detto, dal punto di vista formale, cioè filosofico, stiamo parlando in questo caso di procedure di verità, nel senso che ho conferito a questo termine fin da L’essere e l’evento. Tornerò sull’argomento tra poco. Si noti per il momento che ogni procedura di verità prescrive un Soggetto di questa verità, un Soggetto che, anche dal punto di vista empirico, non è riducibile a un individuo.

In secondo luogo la componente storica. Come si evince dalla datazione: una procedura di verità è iscritta nel divenire generale dell’Umanità in una forma locale, i cui supporti possono essere spaziali, temporali o antropologici. Epiteti quali «francese» o «cinese» non sono altro che indici empirici di tale localizzazione. Essi permettono di comprendere perché Sylvain Lazarus parli di «modi storici della politica» e non di «modi» tout court. Esiste infatti una dimensione storica di una verità, sebbene quest’ultima sia in ultima istanza universale (nel senso che attribuisco a questo termine nella mia Etica o nel mio San Paolo. La fondazione dell’universalismo), o eterna (come preferisco definirla in Logiques des mondes e nel Secondo Manifesto per la filosofia). Si vedrà in particolare come, all’interno di un determinato tipo di verità (politica, ma anche amorosa, artistica o scientifica), l’iscrizione storica implichi la relazione tra verità differenti e situate quindi in punti differenti del tempo umano generale. In particolare, una verità può avere effetti retroattivi su altre verità create in precedenza. Tutto questo esige una disponibilità trans-temporale delle verità.

Infine la componente soggettiva. Si tratta della possibilità per un individuo, definito come semplice animale umano e nettamente distinto da ogni Soggetto, di decidere di diventare una parte di una procedura di verità politica. Di diventare insomma un militante di una verità. In Logiques des mondes e, più recentemente, nel Secondo Manifesto per la filosofia, ho descritto questo tipo di decisione come un’incorporazione: il corpo individuale, con tutto quel che esso comporta in termini di pensieri, di affetti, di potenzialità attive ecc. diventa uno degli elementi di un altro corpo, il corpo-di-verità, esistenza materiale in un dato mondo di una verità in divenire. È il momento in cui un individuo dichiara di poter oltrepassare i limiti (di egoismo, di rivalità, di finitezza) impostigli dall’individualità (o dall’animalità, che è la stessa cosa). Lo può nella misura in cui, pur restando quell’individuo che è, egli diventa anche, per incorporazione, parte agente di un nuovo Soggetto. Chiamo soggettivazione questa decisione, questa volontà. In termini più generali, una soggettivazione è sempre il movimento attraverso il quale un individuo fissa il posto di una verità rispetto alla propria esistenza vitale e al mondo in cui questa esistenza si dispiega. Chiamo «Idea» una totalizzazione astratta dei tre elementi originari, una procedura di verità, un’appartenenza storica e una soggettivazione individuale. È possibile quindi fornire immediatamente una definizione formale dell’Idea: un’Idea è la soggettivazione di una relazione tra la singolarità di una procedura di verità e una rappresentazione della Storia.

Nel caso in questione, si dirà che un’Idea è la possibilità per un individuo di comprendere come la propria partecipazione a un processo politico particolare (il proprio entrare in un corpo-di-verità) sia anche, in un certo senso, una decisione storica. Grazie all’Idea, l’individuo, in quanto elemento del nuovo Soggetto, realizza la propria appartenenza al movimento della Storia. La parola «comunismo» è stata per circa due secoli (dalla Communauté des Egaux di Babeuf fino agli anni Ottanta del secolo scorso) il nome più importante di un’Idea situata nel campo delle politiche d’emancipazione, delle politiche rivoluzionarie. Essere un comunista significava probabilmente essere un militante di un Partito comunista in un determinato paese. Ma essere un militante di un Partito comunista significava essere uno dei milioni di agenti di un orientamento storico dell’Umanità nel suo insieme. La soggettivazione legava, nell’elemento dell’Idea del comunismo, l’appartenenza locale a una procedura politica e l’immenso dominio simbolico della marcia dell’Umanità verso la propria emancipazione collettiva. Distribuire un volantino in un mercato significava anche salire sulla scena della Storia.

[...] È in questo contesto che bisogna pensare e avallare l’importanza dei nomi propri in ogni politica rivoluzionaria. Importanza in effetti spettacolare e paradossale. Da una parte, infatti, la politica d’emancipazione è essenzialmente la politica delle masse anonime, la vittoria dei senza-nome, di coloro che sono tenuti dallo Stato in una mostruosa insignificanza. Dall’altra parte, essa è completamente segnata da nomi propri che l’identificano storicamente e che la rappresentano, ben più profondamente che non nel caso delle altre politiche. Perché dunque una tale sfilza di nomi propri? Perché questo glorioso Pantheon di eroi rivoluzionari?

Perché Spartaco, Thomas Münzer, Robespierre, Toussaint-Louverture, Blanqui, Marx, Lenin, Rosa Luxemburg, Mao, Che Guevara e tanti altri? Perché tutti questi nomi simbolizzano storicamente, nella forma di un individuo, di una pura singolarità di corpo e pensiero, il tessuto raro e prezioso delle precarie sequenze della politica come verità. Il fine formalismo dei corpi-di-verità si traduce qui in esistenza empirica. L’individuo qualunque trova in individui gloriosi e tipici una mediazione della propria individualità, la prova che è possibile forzarne la finitezza. L’azione anonima di milioni di militanti, d’insorti, di combattenti, in sé irrappresentabile, è concentrata e contata come uno nel simbolo semplice e potente del nome proprio. I nomi propri partecipano così all’operazione dell’Idea, e quelli che abbiamo appena citato sono componenti dell’Idea del comunismo nelle sue differenti tappe. [...]

Ci domanderemo a questo punto: perché mai è necessario il ricorso a un’operazione tanto ambigua? Perché mai l’evento e le sue conseguenze devono esporsi nella forma di un fatto, e spesso di un fatto violento, che le diverse varianti del «culto della personalità» accompagnano? Perché mai una tale assunzione storica delle politiche d’emancipazione?

La ragione più immediata sta nel fatto che la storia ordinaria, la storia delle vite individuali, è prigioniera dello Stato. La storia di una vita è in sé, indipendentemente da ogni decisione e da ogni scelta, una parte della storia dello Stato, le cui mediazioni classiche sono la famiglia, il lavoro, la patria, la proprietà, la religione, i costumi... La proiezione eroica, ma individuale, di un’eccezione a tutto questo – così come lo è una procedura di verità – ambisce a essere condivisa con gli altri, non vuole mostrarsi solo come eccezione, ma anche come possibilità ormai comune a tutti. Ed è proprio questa una delle funzioni dell’Idea: proiettare l’eccezione nell’ordinario delle esistenze, riempire di una dose d’inaudito ciò che si contenta di esistere. Convincere il mio entourage individuale, mio marito o mia moglie, i vicini e gli amici, i colleghi, che c’è anche la favolosa eccezione delle verità in divenire e che non siamo condannati all’omologazione delle nostre esistenze dai limiti imposti dallo Stato. Certo, sarà in ultima istanza solo l’esperienza nuda o militante della procedura di verità a forzare qualcuno a entrare nel corpo-di-verità. Ma per condurlo fino al punto in cui quell’esperienza si dà, per renderlo spettatore, e quindi anche già per metà attore, di quel che importa a una verità, la mediazione dell’Idea, la condivisione dell’Idea sono quasi sempre necessarie. L’Idea del comunismo (quale che sia il nome che le viene dato e che d’altronde conta poco: nessuna idea è identica al suo nome) è ciò attraverso cui è possibile dire il processo di una verità nel linguaggio impuro dello Stato, spostando così, per un certo tempo, le linee di forza attraverso le quali lo Stato prescrive quel che è possibile e quel che è impossibile. In una simile prospettiva, il gesto più semplice consiste nel portare qualcuno a una vera riunione politica, lontano da casa, lontano dai suoi parametri esistenziali abituali, in una residenza di operai del Mali, per esempio, o ai cancelli di una fabbrica. Una volta giunto nel luogo dal quale procede una politica, sarà lui a decidere se incorporarsi o se ripiegare su se stesso. Ma perché possa venire sul luogo, occorre che l’Idea – e da due secoli a questa parte, o forse fin da Platone, un’idea del genere è l’Idea del comunismo – lo pre-disponga nell’ordine delle rappresentazioni, della Storia e dello Stato. Occorre che il simbolo venga immaginariamente a sostegno della fuga creatrice del reale. Occorre che fatti allegorici ideologizzino e storicizzino la fragilità del vero. Occorre che una povera e decisiva discussione tra quattro operai e uno studente in una sala buia sia ingigantita per un momento nelle dimensioni del Comunismo e possa così essere al contempo quel che è e quel che sarà stata in quanto momento della costruzione locale del Vero. [...]

La seconda ragione è che ogni evento è una sorpresa. Se non lo fosse, sarebbe stato prevedibile come un fatto e quindi si iscriverebbe nella Storia dello Stato, il che è contraddittorio. Si può dunque porre il problema in questi termini: come prepararci a simili sorprese? Il problema sussiste anche quando siamo già militanti delle conseguenze di un evento anteriore, anche quando siamo già inclusi in un corpo-di-verità. Certo immaginiamo lo sviluppo di nuovi possibili. Ma l’evento che accade renderà possibile quel che, anche per noi, resta ancora impossibile. Per poter anticipare, almeno dal punto di vista ideologico o intellettuale, la creazione di nuovi possibili, dobbiamo avere un’Idea. Un’Idea che includa ovviamente la novità dei possibili messi in luce dalla procedura di verità di cui siamo i militanti, e che sono dei possibili-reali, ma che includa anche la possibilità formale d’altri possibili, ancora insospettati. Un’Idea è sempre l’affermazione che una nuova verità è storicamente possibile. E poiché la forzatura (forçage) dell’impossibile in direzione del possibile ha luogo per sottrazione rispetto alla potenza dello Stato, si può dire che un’Idea afferma che quel processo di sottrazione è infinito: è sempre formalmente possibile spostare ancora una volta la linea di divisione fissata dallo Stato tra il possibile e l’impossibile, per quanto radicali possano essere stati gli spostamenti precedenti, compreso quello cui prendiamo parte attualmente in quanto militanti. Questo è il motivo per cui uno dei contenuti dell’Idea comunista oggi – contro il motivo ricorrente del comunismo come obbiettivo da raggiungere par mezzo della concezione di un nuovo Stato – consiste nell’afferma-re che il deperimento o l’estinzione dello Stato è certo un principio che deve essere visibile in ogni azione politica (come è espresso dalla formula: «politica a distanza dallo Stato», così come il rifiuto obbligatorio di ogni inclusione diretta nello Stato, di ogni domanda di finanziamento statale, di ogni partecipazione alle elezioni, ecc.), ma che è anche un compito infinito, perché la creazione di nuove verità politiche sposterà sempre le linee di divisione tra i fatti statali, e quindi storici, e le conseguenze eterne di un evento.

[...] Globalmente, però, la forma moderna, cosiddetta «democratica», dello Stato borghese, di cui il capitalismo mondializzato è il supporto, può sembrare senza rivali in campo ideologico. Per tre decenni la parola «comunismo» è stata, infatti, vuoi del tutto dimenticata, vuoi praticamente identificata a imprese criminali. Da qui la generale confusione della situazione soggettiva della politica. Senza Idea, il disorientamento delle masse è inevitabile.

Svariati segni, tuttavia, indicano che questa fase reattiva si stia concludendo. Il paradosso storico è che, in un certo senso, oggi siamo più vicini ai problemi esaminati nella prima metà del XIX secolo che non a quelli ereditati dal XX. Come intorno al 1840, siamo di fronte a un capitalismo cinico, certo di essere la sola via possibile d’organizzazione sensata delle società. Da ogni parte ci viene suggerito che i poveri hanno il torto di esser poveri, che gli africani sono arretrati e che l’avvenire appartiene alle grandi borghesie «civili» del mondo occidentale o a coloro i quali, sul modello dei giapponesi, ne seguiranno l’esempio. Oggi come allora si ritrovano zone assai estese di estrema miseria all’interno degli stessi paesi ricchi. E disuguaglianze mostruose e crescenti tra paesi e tra classi sociali. La separazione netta, soggettiva e politica, tra i contadini del Terzo mondo, i disoccupati e i salariati poveri delle nostre società «sviluppate», da una parte, e le classi medie «occidentali» dall’altra, è assoluta e contrassegnata da una sorta di indifferenza carica di odio. Più che mai il potere politico, come lo dimostra l’unica parola d’ordine della crisi attuale, «salviamo le banche», altro non è che un procuratore del capitalismo. I rivoluzionari non sono uniti e sono scarsamente organizzati, vasti strati della gioventù popolare soccombono a una disperazione nichilista, la grande maggioranza degli intellettuali si mostra servile. Contro tutto ciò, altrettanto isolati quanto potevano esserlo Marx e i suoi amici al momento del retrospettivamente famoso Manifesto del partito comunista del 1847, siamo tuttavia sempre più numerosi a organizzare processi politici di tipo nuovo tra le masse operaie e popolari e a cercare tutti i mezzi possibili per sostenere nel reale le forme rinascenti dell’Idea comunista. Come all’inizio del XIX secolo, oggi il problema non è la vittoria dell’Idea, come si è creduto con troppa imprudenza e dogmatismo per gran parte del XX secolo. Quel che conta sono la sua esistenza e i termini della sua formulazione. Assicurare innanzitutto una forte esistenza soggettiva all’ipotesi comunista, questo è il compito che ha assolto a suo modo l’assemblea odierna. Ed è, lasciatemelo dire, un compito esaltante. Combinando le costruzioni del pensiero, che sono sempre globali e universali, con le sperimentazioni di frammenti di verità, che sono locali e singolari, ma universalmente trasmissibili, possiamo assicurare la nuova esistenza dell’ipotesi comunista o, meglio, dell’Idea del comunismo, nelle coscienze individuali. Possiamo inaugurare la terza fase d’esistenza dell’Idea. Possiamo, quindi dobbiamo.

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