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Pubblichiamo qui di seguito la risposta di Loris Campetti (Bocciate un irregolare) e di Guido Viale (Non solo lotta di classe) all'intervento di Bellofiore, Halevi, Tomba e Vertova "La classe non è acqua", seguita dalla replica (Questioni accademiche) di questi ultimi.

 




BOCCIATE UN IRREGOLARE

Loris Campetti

Non so se sarei in grado di superare un esame di marxismo al cospetto di una commissione giudicante preparata e severa composta da Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi, Massimiliano Tomba e Giovanna Vertova (il manifesto, 13 luglio).

Quasi sicuramente sarei bocciato, e sarebbe giusto così: troppo tempo è passato dalle mie letture del Capitale e altri testi su cui credevo di essermi formato. In più, queste letture sono state da me contaminate dallo studio di troppi irregolari del marxismo, alcuni/e addirittura consiliari (consiliari, non conciliari). Certo mi sono perso per strada "affogando" il «conflitto di classe in senso stretto» in un «generico movimentismo» che ha confuso il mio cervello a proposito del rapporto tra reddito e lavoro. Il fatto più grave, però, è che con questo deviazionismo avrei contaminato la testata su cui mi onoro di scrivere. Se dico che è entrata in crisi una certezza novecentesca che è stata prevalente nella sinistra e nel sindacato - la inseparabilità del reddito dal lavoro - mento, perché Marx e i sani marxisti avevano fatto un ragionamento molto più avanzato. Faccio ammenda per non aver basato la mia riflessione sui fondamentali. Faccio anche ammenda per aver tentato di mettere in comunicazione la lotta di classe «in senso stretto» con i movimenti invece di considerarli fumose (spero non maleodoranti) insorgenze sociali.

Alcuni, non so i quattro amici scriventi al manifesto, ritengono addirittura colpevole la mancata battaglia del giornale per dissuadere gli amici della Fiom dall'intrattenere relazioni pericolose e inquinanti con precari, studenti, ambientalisti, attivisti dei beni comuni. E poi, ha poco da vantarsi Landini per aver messo al centro della sua piattaforma il nodo del cosa, come, quanto e dove produrre: non solo forse non ha letto Marx, ma neanche ha riflettuto sulle lotte "operaie" degli anni Sessanta e Settanta, «una tradizione che forse a tutt'oggi è più ricca delle 'novità' che insegue il manifesto».

Eccoci serviti. Non essendo all'altezza di competere sul piano teorico con compagni più preparati di me (lo dico con convinzione, senza sfottere), mi limito ad invitare, con affetto, i nostri amici collaboratori Riccardo e Joseph e con rispetto Massimiliano Tomba e Giovanna Vertova, a darsi una calmata, per evitare ai lettori di pensare che il duro conflitto oggi in atto in Italia, in Europa e nel mondo sia determinato da uno scontro di posizioni tra marxisti linea rossa e marxisti linea nera. E li invito a mettere a disposizione il loro sapere per aiutare chi quotidianamente combatte sotto l'incalzare dell'attacco avversario. Dove l'avversario forse ha letto Marx e forse no, ma certamente è orientato da un pensiero diverso: il pensiero unico.

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NON SOLO LOTTA DI CLASSE

di Guido Viale

Gentili accademici, mi dispiace essere incorso nelle vostre critiche, dato che di alcuni di voi nutro la massima stima (di altri non posso, perché, nella mia insipienza, non ho mai letto nemmeno uno scritto). La cosa che più mi dispiacerebbe è però che voi smetteste di comprare o di leggere il manifesto per colpa mia. Per questo cerco di spiegarmi.

Premetto che io Il Capitale l'ho letto e, in gioventù, anche studiato. Però le vostre critiche mi fanno pensare - e solo ora - di non averne capito abbastanza. Un'altra cosa che non capisco - e non lo dico certo per dissociarmi, è che cosa accomuni il mio articolo, oggetto delle vostre critiche, a quello di Loris Campetti. Per cui rispondo solo a ciò che rinfacciate direttamente a me.

Altra premessa: mi considero un divulgatore e non un teorico e faccio grandi sforzi per rinchiudere quello che cerco di comunicare nello spazio ristretto del numero delle battute concesso in un quotidiano, per di più di ristretta foliazione. Se scrivessi un testo accademico - cosa che non ho mai fatto né mai farò - o un rapporto di lavoro - che è stato ciò che mi ha impegnato maggiormente nella mia vita professionale - in cui la precisione fa aggio sulla lunghezza, avrei forse aggiunto qualche inciso in più. Se però le espressioni che ho usato lasciassero adito a errori che potrebbero portare i lettori su un cammino sviante, dovrei riconoscere di essere venuto meno ai miei doveri di divulgatore. In tal caso ne farei sicuramente ammenda.

Le vostre critiche sembrano appuntarsi su due frasi che ho usato: «mancano i soldi e si ha paura di rompere il tabù dei bilanci, che sono fatti di debiti e quindi in mano alle società di rating». Ok. Non ho mai detto però che la «mancanza di soldi» o che «il tabù del pareggio di bilancio» siano fatti naturali. Anzi, ho scritto che, di fronte a una sollevazione della Grecia - e a maggior ragione di tutti i paesi sotto scacco - soprattutto se appoggiati, volenti o nolenti, dai rispettivi governi, i soldi si troverebbero: «Basterebbe quindi che Papandreu...si schierasse dalla parte dei suoi concittadini che si oppongono alla svendita del paese. L'Unione Europea sarebbe allora costretta ad aprire la borsa, non solo per la Grecia, ma per tutti gli Stati membri in difficoltà». Addirittura ho precisato che «per un'operazione del genere (cioè «trovare i soldi») non mancano proposte operative di ingegneria finanziaria». Non ho neanche mai scritto, come si evince invece dalle vostre critiche, che il problema sia «ingabbiare le agenzie di rating». Anzi, ho scritto, anche se in un precedente articolo: «le società di rating, interamente controllate dai big della finanza internazionale...che sta ora scommettendo sul fallimento di quegli Stati che si sono svenati per salvarla, svenando a loro volta i propri cittadini». Il problema sarebbe quindi quello di «ingabbiare», per usare la vostra espressione, non le società di rating, ma la finanza internazionale; che è come a dire «ingabbiare» il capitale. Obiettivo che credo ci accomuni, magari in una formulazione più appropriata. Ma non son certo io ad aver parlato di «ingabbiare».

La sostanza delle nostre divergenze - se ci sono - e della vostra irritazione - che sicuramente c'è - rimanda forse, se ho capito bene, alla vostra tesi secondo cui «l'appropriazione dei beni comuni (si verifica) solo in conseguenza delle modalità della produzione e della riproduzione capitalistica». Ma chi ha mai scritto il contrario? Certo non io. Quello che penso io è che una politica di riappropriazione dei beni comuni - che vuole dire lotta per il loro controllo diffuso e condiviso - mina le basi «territoriali» del potere del capitale: quelle che più direttamente coinvolgono il lavoro vivo; il quale «vive» sempre in un qualche territorio. La lotta per i beni comuni, e per far diventare «comuni», o più comuni, certi beni è lotta di classe? Anche, ma non solo. Forse è di qui in poi che non andiamo più d'accordo.

Con immutata stima.


Questioni accademiche

Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi, Massimiliano Tomba, Giovanna Vertova

Questa è la replica che abbiamo scritto (con Joseph Halevi e Massimiliano Tomba) alle risposte di Loris Campetti e Guido Viale comparse su il manifesto del 13.07.2011. La abbiamo spedita al quotidiano, con richiesta di pubblicazione. Se dovessero tagliare, abbiamo chiesto che la versione integrale vada sul loro sito.

Avevamo scritto una lettera al manifesto. Da compagne/i a compagni, nel rispetto degli interlocutori, portando argomenti. Quello che abbiamo sperimentato è invece: (i) un giornale che ha ‘tagliato’ pezzi essenziali del nostro ragionamento (ci voleva molto a chiedere a noi di fare i tagli?); (ii) Guido Viale che esordisce con ‘Gentili accademici’; (iii) Loris Campetti che ci tratta come “marxisti della cattedra”, e ci invita a ‘darci una calmata’.

No, compagne/i, così non va. C’è bisogno di discutere, dunque anche dissentire. Viale è stato correttissimo nel pubblicare sul suo blog la versione INTEGRALE della nostra lettera (non poteva farlo anche il manifesto?), come nel ragionare sui contenuti. Chi avesse letto il suo articolo, trova per esempio un “Ok”, preceduto e seguito da un punto. Ok che vuol dire una cosa precisa: era sbagliato dire che “i soldi non ci sono”, e va ammesso che attribuire i problemi alle società di rating è un po’ precipitoso. Viale è troppo modesto. No, Guido, uno che scrive, spesso, sul manifesto articoli – belli e importanti – non è un ‘divulgatore’, ha una responsabilità politica. Possiamo ragionare, tra compagne/i, senza irritarci? Magari impariamo a vicenda. Possiamo dire che oggi i mercati, e persino le aborrite società di rating, non hanno affatto torto, fustigano manovre poco credibili, devastanti, aliene da qualsiasi razionalità economica? Possiamo dire che passare la ‘colpa’ dalle società di rating alla finanza internazionale non ci porta molto lontano? Che sbagliamo se crediamo che la finanza non abbia nazione e il denaro sia impazzito (non lo stiamo attribuendo a te, ma, come dire?, l’idea gira) C’è metodo, e forse anche patria, in questa follia. Perché non partiamo piuttosto dalle analisi di De Cecco? Lì almeno si capisce la geopolitica, e a ben vedere si ha pure una buona base per cominciare a ragionare di potere e di classe.

Il limite degli articoli di Viale è lo iato tra analisi e proposta. Viale, a ben vedere, propone un intervento, potente, sulla composizione della produzione: di lì il passo è brevissimo dal ‘quanto’ e ‘cosa’ si produce al ‘come’ e ‘dove’ si lavora. Ma allora perché, nell’articolo di cui criticavamo UNA riga, si ostina a giocare sulla opposizione fasulla tra liberismo e statalismo? Per poi scoprire - lo diciamo da tempo - che il c.d. liberismo è stato ‘pieno’ di statalismo. Come fa a mettere nel cestino della storia ogni pretesa ‘pianificatoria’, dal keynesismo, alla programmazione, al piano vero e proprio, (si è scordato il New Deal), se vuole le cose che dice di volere? In un altro articolo scrive che dobbiamo “ricostruire dal basso quello che Stati e Governi non sono più in grado di promuovere”. Abbiamo criticato l’hegelo-keynesismo: ora abbiamo l’hegelo-movimentismo. C’è bisogno di un movimento in cui la pari dignità di tutte/i nell’antagonismo contro il capitale, il produttivismo, il lavorismo ossessivo, stia dentro una ricostruzione di come il capitale si muove, di come il lavoro (tutto!) si frammenta ma anche lotta, di come la classe (nelle sue metamorfosi!) continua ad essere centrale.

Si dovrebbe discuterne. Campetti non ne ha voglia. Dei nostri argomenti, non ne vede uno. Se la prende per una battuta, destinata in realtà, scherzosamente, a Landini. Non c’è bisogno di leggersi Marx, è vero. Gli anglosassoni, per esempio, sono in grado di parlare di classi, di vivere la classe, fuori da un orizzonte ‘comunista’. Non c’è bisogno di essere marxisti, basta essere fabiani. Fossimo a quel livello! Sapremmo che forse, il sussidio di disoccupazione, o il piano Beveridge, non legavano mica il reddito al lavoro. Il punto è che le frasi sull’abbandono di certezze che non c’erano, e che noi non abbiamo mai condiviso, in dibattiti e articoli, non sono l’inizio, finalmente!, di un movimento dei lavoratori che si apre a un dialogo e a un confronto con altri soggetti, e altri movimenti. Come scrivevamo in un brano tagliato: “Forse dovremmo smetterla di […] di pronunciare autocritiche incomprensibili per quelle che tutto sommato sono esigenze politiche di breve termine, magari scambiando pezzi di ceto politico che si riciclano per espressione di movimento.” Dicevamo anche, riprendendo un dibattito avvenuto sul manifesto qualche anno fa, che se sul reddito di esistenza si accetta una discussione su un piano puramente redistributivo “si finisce puramente e semplicemente per avallare una supposizione, senza una base teorica né coerente né consistente, ma solo sloganistica, secondo cui il processo di valorizzazione avverrebbe nell'etere delle relazioni, con un corto circuito tra loro mercificazione e loro messa al lavoro.”

Se si vuole davvero parlare di queste cose, perché non partire da qui: siamo o non siamo per una piena occupazione il cui centro però sia il valore d’uso? Che conflitti sociali, che proposta politica, che ‘programma minimo’ questo configura? Si poteva parlare di questo, non di consiliarismo (alcune/i di noi sono nati a pane e Luxemburg). Che relazionarsi con ‘precari, studenti, ambientalisti, attivisti dei beni comuni’ sia politicamente centrale, come lo è il nesso produzione-riproduzione, lo diciamo da un bel po’. Che questo sia un’altra cosa dalla lotta di classe è tutta un’altra questione. Così l’occasione di una discussione va sprecata. E forse sarebbe opportuna: abbiamo già vissuto un ciclo dove le stesse persone sono passate dal ‘movimento dei movimenti’ alla subalternità al ‘social-liberismo’, con la repressione o l’ingabbiamento del conflitto sociale. E il manifesto che ha fatto il pendolo. Ma già, noi facciamo accademia …

 

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