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conflitti e strategie 2

Un passaggio essenziale nella teoria di Marx

di Gianfranco La Grassa

20079Si tratta di un brano, un semplice e solo brano delle migliaia di pagine scritte da Marx e spesso pubblicate dai suo successori, magari con aggiunte non sempre messe in evidenza nella loro non stesura (o almeno non completa e letterale) fatta proprio da lui. Ma non m’interessa nulla di tutto questo. L’importante è fissare le parti salienti di una teoria scientifica e mostrarne la rilevanza ancora attuale e, ancor più, laddove essa va rielaborata alla luce dell’esperienza storica di un secolo e mezzo! Riporto quindi un brano tratto dal III Libro de “Il Capitale”, cap. XVII.

«Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui REALMENTE ATTIVI NELLA PRODUZIONE, DAL DIRIGENTE ALL’ULTIMO GIORNALIERO [maiuscolo mio].

Nelle società per azioni la funzione è separata dalla proprietà del capitale e per conseguenza anche il lavoro è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di produzione e dal plusvalore. Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ritrasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non più però come proprietà privata di singoli produttori [come erano gli artigiani precapitalistici; nota mia], ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà sociale immediata. E inoltre è momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni, che nel processo di riproduzione sono ancora connesse con la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali.

…………………………[qui vi è un pezzo che si può tralasciare]

Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni [non vi fischiano le orecchie?]. E’ produzione privata senza il controllo della proprietà privata. ».

Discorso che mi sembra estremamente chiaro e non bisognoso di molti commenti per quel che significa. Certamente Marx scrive (appunti poi sistemati da Engels) un secolo e mezzo fa. E mi sembra presentare alcuni momenti di modernità. Tuttavia, ha in testa il capitalismo "borghese", nato da quello mercantile e che presenta varie commistioni con elementi delle tradizioni, cultura, mentalità, della società precedente, in mano alla nobiltà. Ad un certo punto, almeno nella traduzione, salta fuori il nome di imprenditore, ma Marx non ha nozione dell’impresa come si andrà configurando già a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo; e che vedrà soprattutto il fiorire novecentesco del capitalismo statunitense, quello definito assai più tardi (1941) da Burnham capitalismo “manageriale”. Si tratta di quel capitalismo che per il momento ho definito, dopo un paio di decenni di studio, "formazione sociale degli strateghi (funzionari) del capitale".

In Marx il fulcro dell’impresa è in realtà l’opificio industriale, sede del processo lavorativo in quanto trasformazione di materia prima in prodotto finito: di consumo oppure di investimento come ad es. le macchine e il complesso strumentale da impiegare in ulteriori processi trasformativi. Egli prende dunque in considerazione soltanto il dirigente di fabbrica, quello che poi verrà indicato dal marxismo successivo, ivi compreso Lenin, quale “specialista borghese”. Marx, insomma, attribuisce chiaramente al dirigente in oggetto, nella prima fase del capitalismo, la proprietà dei mezzi di produzione. Come scrive anche nelle Glosse a Wagner, l’ultimo lavoro economico di Marx scritto (ma pubblicato dopo la sua morte) negli anni 1881-82 – tra l’altro lo stesso periodo in cui invia la lettera (risposta) a Vera Zasulič, da cui i “marxisti” fuori di testa hanno tratto la conclusione che Marx smentisse tutta l’analisi de “Il Capitale” – in cui si afferma che il proprietario capitalista “contribuisce a creare ciò di cui si appropria”, cioè il plusvalore (che è il pluslavoro della forza lavoro salariata). E anzi per Marx (come per Lenin e ogni marxista scientifico e non “pietistico”) “senza direttore d’orchestra l’orchestra non suona” (per quanto bravi siano gli orchestrali). Di conseguenza, il capitalista di quella prima fase del modo di produzione capitalistico non solo “contribuisce a creare”, ma è proprio essenziale per la creazione (la produzione); senza di lui, addio pluslavoro e plusvalore, non si crea nulla.

Successivamente – per effetto non della “lotta di classe”, ma invece della competizione intercapitalistica in cui pochi hanno successo e molti falliscono – si verifica la centralizzazione del capitale con passaggio alla forma oligopolistica di mercato, caratterizzata fra l’altro dall’impresa quale “società per azioni”. A questo punto, nella previsione di Marx, il dirigente della “fabbrica” diventerebbe un lavoratore salariato a tutti gli effetti e verrebbe quindi a far parte dell’“associazione dei produttori”, cui spetterebbe ormai l’esecuzione dell’intero processo produttivo; il capitalista si riduce a mero proprietario (ad es. azionista) e il suo profitto è una “quasi” rendita (il dividendo azionario). Questa appunto l’interpretazione marxiana del processo evolutivo capitalistico, che risulta in tutta evidenza dal lungo brano citato.

“Qui casca il palco”. E qui è iniziata tutta la mia opera di revisione per eliminare quella centralità della proprietà, ormai superata. Si tratta di quella privata, quella di cui parla Marx. Non cambia proprio un gran che con quella statale. Questa potrebbe perfino essere ancora peggiore se dà vita ad un ceto di “burocrati” pressoché incapaci e soltanto succubi di un potere politico miope; assai diversa l’attitudine produttiva attribuita da Marx all’insieme dei produttori associati, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”. Egli però scriveva nel 1860 e anni successivi; non è certo lui il responsabile della perdita di efficacia interpretativa del marxismo, ma i suoi seguaci incancreniti per ben oltre un secolo a cianciare sul preteso “socialismo”, sulla formazione sociale di quelli che non sono mai diventati “produttori associati”.

Già Kautsky (e Lenin non lo critica su tale punto) aveva capito che non si andava per nulla costituendo qualcosa di simile. Il gruppo dirigente dei processi produttivi, pur eventualmente privo della proprietà, era indicato come insieme di “specialisti borghesi”, pienamente assegnati alla classe dominante in convergenza semmai con i proprietari assenteisti (rispetto alla direzione di detti processi produttivi), che tuttavia invece sono spesso proprio gli strateghi delle politiche imprenditoriali nella “concorrenza” che solo gli stupidi liberisti riducono a semplice competizione nel mercato. In realtà, il grande dirigente d’impresa (ma non più dei processi produttivi) è proprio colui che assicura il collegamento con i veri apparati del potere politico, funzionale a detta “concorrenza”. Non a caso, un grande dirigente rivoluzionario come Lenin intuisce benissimo che il “monopolio” (la centralizzazione dei capitali) “non annulla la concorrenza, ma la spinge al suo livello più alto”. Ed è ovvio che sia così, dato che non si tratta più di concorrenza ma di reale conflitto (strategico) per le “sfere d’influenza”, conflitto che ingloba e dà forma specifica alla concorrenza mercantile.

I marxisti – dovendo riconoscere che l’alta dirigenza della produzione, pur non proprietaria, non faceva parte del “proletariato” o “classe operaia”, presunto soggetto della “rivoluzione anticapitalistica” – hanno allora insistito sulla rivoluzionarietà del “semplice giornaliero” (o poco più su), insomma dell’operaio di fabbrica, del Charlot di “Tempi moderni”. Veri fraintendimenti, che sono stati pure miei. Tuttavia, da più di vent’anni ho faticosamente iniziato una “marcia” almeno in buona parte diversa, di cui non parlo qui (ho scritto ormai centinaia, anzi potrei dire migliaia, di pagine in proposito). Tuttavia, ci sono problemi lungo la nuova via che non ho certo risolto. Ho scritto negli ultimissimi anni alcuni libri sempre dibattendo tale problema onde affinarlo per quanto possibile.

Ultimamente ho anche consegnato ad un blocco di video su Marx (le “dieci discussioni” accompagnate da un libro su “Denaro e forme sociali”) la coerentizzazione del suo modello teorico. Che io sappia, non esiste una altrettanto rigorosamente organica esposizione del modello teorico (scientifico) di Marx; anche al di là di ciò che egli avrebbe effettivamente detto o voluto dire. Non m’interessa affatto riempire le pagine di sue citazioni e cercare di diventarne l’esegeta e il “corretto interprete”. Per me Marx è una sorta di Galilei della scienza sociale. Bisogna capire quale salto ha fatto fare a quest’ultima al di là della consapevolezza che poteva averne all’epoca; mettendo inoltre in luce i limiti di tale modello teorico, proprio dovuti ai tempi in cui esso fu formulato.

Non pretendo però di aver risolto il problema. Non lo posso fare io, che appartengo alla vecchia epoca storica iniziata grosso modo con il marxiano “Manifesto del Partito comunista” (1848) e già in fase di trapasso (troppo lenta per la vita umana) da alcuni (pochi) decenni; fase oggi in accelerazione, ma non ancora vicina alla piena entrata nella nuova epoca. Quelli come me (di orientamento marxista ovviamente) hanno il compito di mettere ordine nella vecchia teoria, di estrarne il “succo” in base alle conoscenze attuali e alla esperienza storica di un buon secolo e mezzo. La mia reale intenzione è di far rilevare sia le alterazioni che essa subì già appena morto Marx sia l’errata sua previsione di dati eventi e la non realizzazione di altri pur iniziati in suo nome. Al massimo si possono indicare alcune ipotesi di revisione e fuoriuscita (ma sempre da “quella porta”). A chi saprà vivere realmente la “fase storica” che avanza, senza inutili nostalgie e indebite “frenate”, spetterà il compito di arrivare a nuove ipotesi e magari anche a effettive sintesi in ben diverse teorizzazioni intorno alla società, alle sue strutture e dinamiche evolutive.

Per questo ritengo fondamentale l’effettiva messa in circolazione delle mie “dieci discussioni su Marx” con il libro “Denaro e forme sociali”. ESIGO che tale mia “fatica” venga distribuita senza ulteriori indugi. In tutta la vita sono stato boicottato soprattutto dagli schifosi intellettuali e “operatori culturali” di una “sinistra”, che da alcuni decenni ormai è il cancro della nostra società; e che molti idioti (di ogni orientamento) confondono con i comunisti. Io sono stato comunista. E parlo al passato non per abiura, ma solo per il riconoscimento che nella storia certi movimenti si esauriscono. Per fare un esempio, continuo a nutrire grandi simpatie per i giacobini e il loro essenziale “anno del terrore”. Non posso però dirmi giacobino ai giorni nostri. E quindi nemmeno mi dico comunista, ma certo stimo e ricordo con affetto i “fu” comunisti e odio invece mortalmente gli ancora “sinistri”; perfino più degli ancora “destri” (ma anche loro…. per carità!). Parlo ovviamente dei gruppi dirigenti dei diversi schieramenti. I seguaci vanno considerati con ben altro atteggiamento più benevolo. I nervi però saltano spesso di fronte a certi farabutti e mentitori.

Avanti con Marx in una sua completa riformulazione!

Comments

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armando ermini
Monday, 02 December 2019 16:40
dal che si deduce, giustamente, l'inanità dei liberisti antistalisti, che sognano la chimera di un capitalismo spontaneo, solo mercato e società civile. Gli Stati hanno sempre svolto una funzione fondamentale, non solo come cani da guardia, ma come regolatori o direttamente come costruttori dei mercati nazionali.
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armando ermini
Monday, 02 December 2019 16:37
Dal che ne discende, giustamente, l'inanità dei liberisti-antistalisti che sognano un chimerico capitalismo spontaneo, tutto economia e società civile e senza Stato, che invece, sia pure in forme diverse, è sempre stato non solo il cane da guardia ma direttamente promotore degli assetti economici, a partire dalla creazione dei mercati nazionali.
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Eros Barone
Sunday, 17 November 2019 13:32
E’ giusto cercare di cogliere quanto di positivo e di fecondo è presente anche nelle posizioni di un ex marxista (ed ex comunista) come Gianfranco La Grassa, al netto dell’oggettivismo spinoziano di derivazione althusseriana e di una lettura della crisi mondiale come esclusivo conflitto geopolitico fra gruppi dominanti che è molto affine a quella del partito di “Lotta comunista”, anche se declinata in senso (non internazionalista ma) nazionalista. Così come è stato giusto, a suo tempo e tra le altre cose, far tesoro della sua precisazione concernente il concetto marxiano di lavoro astratto, il quale non si basa solo sul processo di dequalificazione del lavoro, come spiegava già Rosdolsky, ma sul fatto che tutti i lavori nel capitalismo sono astratti nella misura in cui entrano in contatto con la società attraverso il mercato, cioè la moneta. E’ poi doveroso rammentare che quando sopravvenne la crisi degli anni Settanta del secolo scorso e il marxismo diventò concettualmente indeterminato, La Grassa, insieme con la Turchetto, Bellofiore, Losurdo e Preve, rappresentò, nell’àmbito della cultura marxista, una delle poche eccezioni rispetto all’abbandono del terreno della critica dell'economia politica. Se ci si pone da questo angolo visuale, è altresì doveroso ribadire che la ‘crisi del marxismo’ non è mai esistita, e che sarebbe più esatto parlare di crisi dei marxisti, poiché la malattia più grave della sinistra nostrana, fin dai tempi di Antonio Labriola, nasce, come ha giustamente sostenuto in questi ultimi decenni la rivista “La Contraddizione” raccolta attorno al critico dell’economia politica Gianfranco Pala, dall’insufficienza di marxismo e segnatamente (per usare l’icastico sintagma brechtiano) dagli “usi gastronomici e culinari” del medesimo. Quanto prima rilevato non deve, comunque, suonare come giustificazione del grave errore commesso da La Grassa, quando questi arrivò a sostenere, negli anni Ottanta, la tesi di derivazione francofortese ed operaista secondo cui, di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione si annullerebbe. Quanto poi al sito “Conflitti e Strategie”, siccome vale sempre il detto popolare: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, vi è solo da sperare che la sbandata filo-leghista di questo sito, che ho seguito con un certo interesse per le sue analisi geopolitiche, venga corretta e che i suoi animatori (Petrosillo e La Grassa) riescano a risolvere correttamente il problema dell’identificazione della natura di classe della Lega. Se infatti è disgustoso l’opportunismo di cui hanno dato e danno prova le sinistre sia moderate che radicali del nostro paese, non a caso uno dei più reazionari in Europa anche a causa del carattere trasformistico e collaborazionistico, antiproletario e antimarxista, di siffatte sinistre, non meno spregevole e funesto è il carattere (‘para-’ e/o ‘cripto-’) fascista che impronta le destre e la mobilitazione reazionaria delle masse di cui esse sono il veicolo e il moltiplicatore.
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Franco Trondoli
Sunday, 17 November 2019 12:33
Freud diceva che ci sono tre mestieri impossibili: psicoanalizzare, educare e governare. Mi pare che su questo abbia ancora ragione. Notate; parla di mestieri; non di filosofia, non scienza, ma forse piu' di "tecnica". Orbene, adesso, in seguito potrò anche cambiare idea, sono per una versione" cibernetica " del procedere. Che cosa significa ?: significa immaginare l'uomo che manovra il timone di una nave con equipaggio, in mezzo all'oceano in tempesta, scatenata da potenze naturali incontrollabili ed ingovernabili che spingono in ogni direzione. Bisogna trovare un porto di approdo. Bisogna saper fare, come il macellaio che segue la nervatura della carne per tagliarne i pezzi migliori, come i sarti/e che cuciono ritagliando. Vedo questo "processo", piuttosto che quello "Aristotelico" di mettere in forma dall' esterno con codificazioni già costituite. Un lungo viaggio, senza sicurezze. Governare l'ingovernabile, sapendo che e' la potenza dietro di noi che ci spinge. Accompagnare l'implosione del capitalismo, e' questo il grande problema. Cordialmente
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Paolo Selmi
Sunday, 17 November 2019 00:11
Caro Gianfranco,
e cari Luca (a cui porgo il mio calorosissimo Bentornato!) e Michele, aggiungo alle vostre riflessioni un piccolo contributo. Le società per azioni riducono il ruolo del "padrone" capitano d'industria, fondatore e proprietario dei mezzi di produzione a quello di socio e, tutt'al più, di "amministratore delegato". In realtà il passaggio è ancora più complesso e, ora, l'amministratore delegato può essere addirittura un esterno, come nel caso di Marchionne, uno che di macchine fino ad allora non aveva mai capito un tubo. Il problema è che anche i "soci", ormai, non solo di macchine possono anche non capirne un tubo ma, in molti casi, NEPPURE GLI INTERESSA. L'unica cosa che interessa loro è il dividendo staccato a fine anno o, peggio ancora, operazioni di acquisto e rivendita di intere società nel breve termine, senza alcuna prospettiva (caso del mercato mondiale del private equity)
Mi riferisco, ovviamente, alle holding finanziarie globali. La più grande, la statunitense Black Rock, nel 2009 aveva un patrimonio di circa 3 mila miliardi di USD (http://theconversation.com/who-owns-the-world-tracing-half-the-corporate-giants-shares-to-30-owners-59963 et https://www.globalresearch.ca/exposing-the-financial-core-of-the-transnational-capitalist-class/5349617) e controllava il 6.1% degli asset azionari dei 299 maggiori conglomerati industriali al mondo (ibidem). Oggi, nonostante la crisi, nonostante continui a investire nel carbon fossile ("BlackRock, Vanguard, Axa raise coal holdings despite climate fears" https://www.ft.com/content/b2470d0b-8e38-3643-bf1e-da042f382057), il suo tesoretto è più che raddoppiato! ("Based in New York, BlackRock is the world’s largest asset manager with US$6.5 trillion assets under management (AUM)" http://ieefa.org/wp-content/uploads/2019/07/Inaction-BlackRocks-Biggest-Risk-During-the-Energy-Transition_August-2019.pdf).

In altre parole, il capitale finanziario non solo presta soldi a quello industriale, ma lo possiede. E non serve neppure detenere la maggioranza assoluta del pacchetto azionario:

"Finance capital not only lends the money to corporations that enables them to expand, and dictates movements in share markets that signal the success or failure of corporate management. Finance capital owns the corporations. And so the distinction between finance capital and other types of capital (in particular industrial capital), while useful in some respects, is misleading in others. This is because, in the end, industrial capital is finance capital. If there was once a time when the world was dominated by large corporations owned by a few families and individuals, whose personal values, quirks and preferences shaped the way those corporations behaved, that time has passed. The world is dominated by corporations who follow the logic of finance capital – the logic of money – because that is what they are. Their logic is not the logic of individuals but the logic of a class. In earlier years there were transnational individuals who crossed national boundaries in search or profit, and transnational corporations who built empires of profit." (https://research-repository.griffith.edu.au/bitstream/handle/10072/37499/64037_1.pdf?sequence=1)

E qui riprendo il ragionamento di Michele sul movimento IMPERSONALE del Capitale. Anche la Cina "rossa", perché i propri capitalisti possano avere maggior accesso alle quote azionarie all'estero, hanno ultimamente dovuto fare concessioni, guarda caso, a holding finanziarie come JP MORGAN (2500 miliardi di dollari di capitale) e NOMURA (la maggiore giapponese)
https://www.scmp.com/business/companies/article/3003915/china-grants-jpmorgan-and-nomura-approval-take-controlling ). Il che significa che il "movimento impersonale", globalizzato e globalizzante, su cui si fonda l'intero ciclo di produzione e riproduzione della merce, è sempre più SCOLLEGATO da qualsiasi logica industriale.
Una fabbrica che produce SCOLLEGANDO, ALIENANDO la produzione stessa dalla logica industriale cui dovrebbe sottendere è lo stadio finale di questo mondo allo sfacelo. E' uno schiaffo a chi parla di innovazione, di ricerca e sviluppo, di efficacia ed efficienza, di sistemi di gestione della qualità, come portato del modo capitalistico di produzione, dominato dalla "libera concorrenza" e dal "libero mercato", in opposizione magari al modo socialistico di produzione, che più di uno, in questi giorni, celebrando la caduta del muro, agita come spauracchio o "fine di un incubo" per la cui fine provare un "senso di liberazione".

A proposito, segnalo domani a Milano al centro Concetto Marchesi la presentazione, CON L'AUTORE, del libro di Hans Modrow, ultimo Presidente della DDR, "La perestroika e la fine della DDR. Come sono andate veramente le cose", Mimesis, 2019.
http://www.centroconcettomarchesi.it/

Anch'io sono ANCORA comunista perché, se è pur vero che la proprietà sociale dei mezzi di produzione e la conduzione pianificata dell'economia, di per sé costituiscono condizione necessaria ma non sufficiente per una piena, completa, edificazione di un modo di produzione in senso socialistico (è come avere forno in temperatura, farina, acqua, lievito e sale e meravigliarsi perché il pane non esce da solo), tuttavia senza di esse tutto questo è inconcepibile. I trent'anni dalla caduta di quel muro e la restaurazione del modo capitalistico di produzione sull'intero pianeta in una degenerazione economico-sociale continua e che continua ad avvitarsi su sé stessa, lasciandosi dietro disastri sempre maggiori, ne sono stati la riprova.

Un abbraccio a tutti.
Paolo
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michele castaldo
Saturday, 16 November 2019 19:26
Caro Gianfranco,
non ho letto niente dei tuoi scritti, dunque è la prima volta che ti leggo e d'impatto dico di trovarmi al cospetto di uno studioso vero, non di tanti che hanno frequentato le scuole per prendere i voti, nel doppio senso inteso: per il punteggio agli esami, per il titolo, e per i voti da preti del marxismo, ovvero zelanti predicatori del più volgare riformismo capitalistico.
Mi trovo al cospetto, perciò, di uno studioso non pigro, che si è interrogato con straordinaria umiltà e non ha consegnato un nuovo credo ma ha abbozzato una discussione sulla quale invita a ragionare. Merito al merito.
Marx è un processo, è cioè un laboratorio e il peggior modo per denigrarlo è quello di santificarlo.
Fatta questa premessa aggiungo brevissime considerazioni.
Il segreto, tutto il segreto della teoria dei Grundrisse e del Capitale è concentrata in questa frase:
« E’ produzione privata senza il controllo della proprietà privata. ». Ovvero il modo di produzione capitalistico è IMPERSONALE, questo vuol dire che gli uomini obbediscono alle sue leggi piuttosto che dirigerle. Questa "semplice" verità viene totalmente rimossa dalla stragrande maggioranza dei marxisti. Per un motivo molto "semplice": l'uomo - in specie l'intellettuale marxista - vive l'illusione di dirigere un movimento storico con i mezzi di produzione.
Sicché gli strateghi sono persone impersonali, ovvero coprono ruoli che il processo oggettivo man mano è determinato dal MOTO. Esattamente quello che qui è mirabilmente sintetizzato:
«"formazione sociale degli strateghi (funzionari) del capitale" ».
In virtù di questo assunto il ruolo della personalità è nullo in quanto non è l'uomo (la personalità) a determinare il ruolo, no, ma è il ruolo che va alla ricerca del direttore d'orchestra. Esattamente come qui scrivi:
«E anzi per Marx (come per Lenin e ogni marxista scientifico e non “pietistico”) “senza direttore d’orchestra l’orchestra non suona” (per quanto bravi siano gli orchestrali). Di conseguenza, il capitalista di quella prima fase del modo di produzione capitalistico non solo “contribuisce a creare”, ma è proprio essenziale per la creazione (la produzione); senza di lui, addio pluslavoro e plusvalore, non si crea nulla. »
« Successivamente – per effetto non della “lotta di classe”, ma invece della competizione intercapitalistica in cui pochi hanno successo e molti falliscono – si verifica la centralizzazione del capitale con passaggio alla forma oligopolistica di mercato, caratterizzata fra l’altro dall’impresa quale “società per azioni”. A questo punto, nella previsione di Marx, il dirigente della “fabbrica” diventerebbe un lavoratore salariato a tutti gli effetti e verrebbe quindi a far parte dell’“associazione dei produttori”, cui spetterebbe ormai l’esecuzione dell’intero processo produttivo; il capitalista si riduce a mero proprietario (ad es. azionista) e il suo profitto è una “quasi” rendita (il dividendo azionario). Questa appunto l’interpretazione marxiana del processo evolutivo capitalistico, che risulta in tutta evidenza dal lungo brano citato».
A giusta ragione dici:
«“Qui casca il palco” »
« il grande dirigente d’impresa (ma non più dei processi produttivi) è proprio colui che assicura il collegamento con i veri apparati del potere politico, funzionale a detta “concorrenza».
Ovvero il potere politico è totalmente subordinato al potere economico ed alle sue leggi impersonali.
« Non a caso, un grande dirigente rivoluzionario come Lenin intuisce benissimo che il “monopolio” (la centralizzazione dei capitali) “non annulla la concorrenza, ma la spinge al suo livello più alto”. Ed è ovvio che sia così, dato che non si tratta più di concorrenza ma di reale conflitto (strategico) per le “sfere d’influenza”, conflitto che ingloba e dà forma specifica alla concorrenza mercantile».
Qui pongo un interrogativo (e ti chiedo, se ti va di accennare una risposta): è vero che il “monopolio” (la centralizzazione dei capitali) “non annulla la concorrenza, ma la spinge al suo livello più alto”, ma proprio perché il meccanismo oggettivo non è lineare ci ha consegnato uno scenario dove l'apprendista stregone ha evocato fantasmi che gli si sono rivoltati contro. Cioè il modo di produzione capitalistico nato in Europa ed estesosi a macchia d'olio ormai in tutto il mondo ha creato dappertutto tanti concorrenti che si introducono come cunei nel centro del modo di produzione depotenziando la forza propulsiva accumulata finora. Basta guardare agli Usa di questa fase che sembrano tanto un cane che abbaia proprio perché non ha più forza come prima per mordere. Non che l'abbia persa del tutta, questo no, ma è una potenza declinante, questo è fuori di ogni ragionevole dubbio. E gli europei non stanno meglio.
Per dirla in breve: se è vero che il modo di produzione capitalistico è un movimento, tutti i movimenti - come il vento, il vero simbolo di movimento - hanno una loro nascita, un loro straordinario sviluppo e una loro fine. Perché dovrebbe fare eccezione il modo di produzione capitalistico?
«A chi saprà vivere realmente la “fase storica” che avanza, senza inutili nostalgie e indebite “frenate”, spetterà il compito di arrivare a nuove ipotesi e magari anche a effettive sintesi in ben diverse teorizzazioni intorno alla società, alle sue strutture e dinamiche evolutive».
Qui predisponi al meglio l'interlocutore e lo stimoli alla riflessione, ovvero a non appiattirsi su ricette bell'e pronte preparate da Marx o da chiunque altro proprio perché la storia è un processo e il passato non può avere futuro "semplicemente" perché la materia si modifica, i rapporti si modificano, i ruoli si modificano e innanzitutto non è possibile che una parte del tutto - cioè una classe di un modo di produzione possa disarcionare la classe al potere, impossessarsi del potere politico e instaurare la propria dittatura. Detto in modo brutale le classi, tutte le classi, volta per volta si modificano ma SONO COMPLEMENTARI.
Altrimenti detto: il modo di produzione è un meccanismo che prescinde dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, è un meccanismo in cui tutto si tiene o niente si tiene. Siamo arrivati a un punto in cui quel meccanismo non è più in grado di riprodurre valore e si avvia verso l'implosione. In che modo non è dato sapere e dovremmo tanto impegnarci a studiare le linee di tendenze.
Capisco bene questa affermazione
«Io sono stato comunista. E parlo al passato non per abiura, ma solo per il riconoscimento che nella storia certi movimenti si esauriscono»,
ma sapessi quanto mi piace dichiararmi Comunista in faccia ai denigratori del comunismo.
Evviva la faccia:
« continuo a nutrire grandi simpatie per i giacobini e il loro essenziale “anno del terrore”. »
E finalmente c'è chi ce l'ha questo coraggio a differenza di tanti mentecatti che continuano a leccare il culo alla borghesia come classe rivoluzionaria e democratica.
E qui mi fermo e ti porgo i più cordiali saluti.
Michele Castaldo
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Luca Benedini
Saturday, 16 November 2019 14:23
Caro Gianfranco, è la prima volta che ti leggo (nonostante le mie innumerevoli letture sono costretto pure io a fare selezioni...) e in generale mi trovo d'accordo su quanto dici qui. Mi limito a ricordare che un testo che mi pare prezioso su alcune errate previsioni di Marx ed Engels è l'ultimo scritto corposo dello stesso Engels: la sua "Introduzione" del 1895 al testo marxiano "Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850". Qui vengono rivisti e corretti alcuni di questi errori - divenuti dunque temporanei, perché poi corretti appunto - all'interno di un discorso complessivo che mi pare ancora di estrema modernità. Molti auguri!!!
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