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“Lavori” in corso


rivoluzione cubanaQuesto è un primo bilancio teorico delle attività svolte insieme fino ad ora. È il tentativo di rendere sommariamente conto delle questioni con le quali ci siamo misurati, del modo in cui le abbiamo affrontate, delle risposte – più o meno provvisorie – che siamo stati in grado di apportarvi. Non partendo da una lettura preesistente, dall'adesione a una dottrina particolare, ci siamo trovati giocoforza gettati sul cammino di una (ri)elaborazione che deve costantemente ritornare su se stessa per misurare la propria solidità. Questo percorso non può essere lineare: come in un labirinto, possiamo ad un tratto ritrovarci in un vicolo cieco, e allora dobbiamo tornare indietro, tentare vie differenti. Siamo costantemente esposti al rischio dell'impasse. Tale debolezza non è di carattere soggettivo; è una difficoltà che la critica di segno anticapitalista (e coloro che se ne fanno portatori), porta oggi con sé, per così dire “costitutivamente”, lacerata com'è tra la tentazione di un ritorno ad un marxismo “duro e puro” e le varie erranze teoriche post-anni '70. Il margine che si apre tra questi due scivolamenti – che equivale, nella teoria in senso stretto, allo scarto reale tra la necessità, per il proletariato, di dover agire come una classe, e il suo diniego di questa stessa appartenenza di classe – è il luogo in un cui si fa la teoria comunista oggi. Ci torneremo sopra.


La cesura

La “crisi” è ormai sulla bocca di tutti. Agli albori del nostro dibattito, si è trattato immediatamente di inquadrare il fenomeno. Si è posta la necessità di una chiave interpretativa di riferimento, come degli occhiali per mettere meglio a fuoco.

Utilizzando una sorta di ammodernamento della teoria dei “cicli lunghi” di Kondrat'ev – i “cicli sistemici di accumulazione” di Arrighi e Silver, integrati con altri elementi teorici della Scuola francese della Regolazione – eravamo spinti a vedere nelle crisi del capitalismo, soprattutto delle fasi di riassestamento del normale corso dell'accumulazione: periodicamente il sistema non riesce più a riprodursi tale qual'è, va incontro a dei limiti (che sono però relativi), dunque è costretto a darsi una veste nuova, una differente configurazione che può abbisognare di un tempo anche lungo per imporsi, dovendo coinvolgere diversi livelli – l'organizzazione del lavoro, l'innovazione del prodotto e del mezzo di produzione, i settori di punta, i “compromessi sociali”, gli equilibri geopolitici – i quali giungono con traiettorie e ritmi ineguali al punto di convergenza. La lotta di classe, lungi dall'essere favorita dal quadro di decomposizione del ciclo di accumulazione anteriore, riprende allorché la sua ristrutturazione si compie, mettendo in movimento una nuova figura centrale proletaria: l'artigiano proletarizzato nel 1871, l'operaio professionale negli anni '20, l'operaio-massa negli anni '60 etc. «Ad una determinata composizione tecnica della forza-lavoro, condizionata dalla configurazione concreta che il processo lavorativo di volta in volta assume, corrisponde necessariamente un sistema di comportamenti sociali che, prescindendo da condizionamenti socio-politici secondari, può essere considerato tipico, nel senso che tende a riprodursi in tutte le situazioni in cui siano contemporaneamente date le determinazioni fondamentali». (Lapo Berti, “Astrattizzazione del lavoro”, in Sergio Bologna, La tribù delle talpe, Milano, 1978). È quando il ciclo di accumulazione ha appena iniziato a flettersi – dunque non al suo climax, né al momento di più intensa crisi – che il proletariato diviene più aggressivo e tende a minare le basi stesse dell'accumulazione. L'utilità (vedremo se vera o presunta) di questo schema risiederebbe nella possibilità di prevedere, sulla base di un'analogia retrospettiva, il portato di una ristrutturazione, e individuare in tal modo le frazioni del proletariato che vengono messe maggiormente in movimento (o viceversa dissolte) da quest'ultima. A partire dall'inizio degli anni '70, i vari livelli a cui abbiamo accennato sono tutti entrati in crisi – crisi del fordismo-taylorismo, crisi dello Stato keynesiano, crisi del mercato automobilistico, crisi dell'egemonia americana etc. – e da allora il modo di produzione capitalistico è entrato in una lunga e caotica fase di ristrutturazione, non ancora giunta a compimento; ma – adducendo come esempio la Grande Depressione (1873-1896), in particolare per quanto concerne il rigonfiamento della sfera finanziaria – l'idea di fondo era che, nella storia del capitale, una simile fase di “decantazione” fosse tutt'altro che inedita. All'epoca (autunno 2010), in uno scritto d'occasione rimasto inedito, appuntavamo: «[...] per quanto l'attuale crisi sia stata – e ancor più sarà – foriera di miseria e disgregazione sociale, non va esclusa la possibilità che essa rappresenti soltanto un passaggio verso un nuovo ciclo di espansione del capitale [...] Quel che è certo, reciprocamente, è che la ristrutturazione avviata negli anni Settanta non è giunta a compimento, e non ha messo capo, almeno per il momento, ad alcun modello di accumulazione alternativo al cosiddetto fordismo-keynesismo.

«Ad ogni modo, le lotte che hanno punteggiato e che continuano a connotare la fase attuale (ormai ultratrentennale), malgrado si siano espresse talvolta in forme radicali, hanno avuto un carattere quasi esclusivamente difensivo, settoriale e locale; sono state, per lo più, una mera risposta all'attacco portato dal capitale, su scala mondiale, alle condizioni di “vita” e di lavoro dei proletari (occupazione, salario diretto e indiretto etc.) [...] l'azione delle burocrazie sindacali volta a neutralizzare, là dove si presentano, le spinte verso un superamento della dimensione corporativa e locale, si innesta sull'inerzia generale della classe, dove prevale, se non l'apatia, la tendenza a considerare i problemi in un'ottica strettamente settoriale o, peggio, aziendale [...]» (F. B., Sul senso della nostra presenza..., inedito).


Il difetto principale di questa analisi è di assumere determinate caratteristiche, specifiche della contraddizione tra proletariato e capitale in una determinata fase storica (il “compromesso fordista”, 1945-1975) e in un determinato luogo del mondo (USA ed Europa, principalmente), per retrofletterle sulla storia precedente e proiettarle sul presente e sul futuro, sopravvalutando la coerenza dell'insieme come elemento funzionale del modo di produzione capitalistico e come obbiettivo, consapevole o meno, della sua ristrutturazione. Si assume un modello di ristrutturazione “compiuta” al quale si raffronta la situazione attuale, dando per scontato che una ristrutturazione debba necessariamente compiersi in un certo modo: l'archetipo della ristrutturazione ideale diviene preponderante sul capitalismo realmente esistente. «Gli anni '80 sono gli anni della sconfitta operaia [...] Il lavoro alla catena viene progressivamentesostituito dai bracci meccanici del robot. È la fine dei gruppi omogenei e della rigidità operaia, la fine lenta ma irreversibile della fabbrica fordista quale luogo di grandi concentrazioni operaie e della contiguità fisica degli operai tra di loro. La cooperazione degli operai in fabbrica mediata, come era stato fino ad allora, dalla macchina, si rovescia nella cooperazione delle macchine tra loro mediata ora dai singoli operai [...] una rottura storica di tale radicalità e profondità da dissolvere nel nulla la visibilità operaia [...]» (cfr. Raffaele Sbardella, Astrazione e movimento reale, in “Vis-à-vis” n. 7, 1999). È però di un'evidenza stringente che le difficoltà già presenti all'epoca nell'individuazione di un sostituto dell'operaio-massa, non abbiano, nel corso dei 10 anni successivi, accennato a diminuire, ma siano perfino aumentate: «[...] l'identità della passata composizione di classe è disgregata e muta, quella della nuova non accenna ad emergere» (ibid.). Sul versante dell'accumulazione, dal 2007 ad oggi, le cose non hanno poi fatto che peggiorare, e andando al sodo, vi è stata semplicemente una ripresa accelerata di processi di ristrutturazione già in corso dagli anni '70: attacco sistematico al costo della forza-lavoro, delocalizzazioni, ulteriore diffusione della “flessibilità”, intensificazione dello sfruttamento, distruzione del salario indiretto, tendenziale eliminazione dei contratti nazionali di riferimento e di ogni garanzia. Tutto questo ci ha costretti a considerare la fase attuale non per come dovrebbe essere ma per come effettivamente è, prendendo la ristrutturazione permanente e la fine dell'identità operaia non come fenomeni transitori in vista di qualcos'altro che deve venire, ma come la forma specifica in cui si è ristrutturata la lotta di classe.

L'utilità di una periodizzazione del modo di produzione capitalistico, risiede appunto nella possibilità di individuare delle rotture storiche. Come hanno recentemente chiarito i compagni di Endnotes (cfr. The history of subsumption, in “Endnotes” n. 2, aprile 2010), ciò permette di sfuggire alla metafisica implicita di una teoria della lotta di classe, all'interno della quale ogni singola determinazione storica verrebbe volatilizzata in una filosofia della storia, sia essa una teleologia o un eterno ritorno dell'uguale. Di fronte all'autocelebrazione post-modernista del capitale, in molti, nel milieu anticapitalista, hanno comprensibilmente puntato a sottolineare l'invarianza del modo di produzione capitalistico, già evidenziata da Marx: «La vera, specifica funzione del capitale in quanto capitale è [...] la produzione di plusvalore, e questa [...] non è altro che produzione di pluslavoro, appropriazione di lavoro non pagato all'interno del processo di produzione reale; pluslavoro che si esprime, si materializza, in plusvalore». (Il Capitale, cap. VI inedito). Fermo restando che tutto ciò – a quasi 150 anni di distanza dalla pubblicazione del primo libro de Il Capitale – è ancora perfettamente vero, rimane il fatto che il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale che ha una storia, così come ha una storia la contraddizione proletariato-capitale che lo sostanzia. Se registriamo come fatti acquisiti il tramonto del movimento operaio e dei suoi programmi, dobbiamo egualmente essere disposti ad ammettere non solo che la prospettiva di cui ci facciamo portatori abbia avuto una genesi storica – fin qui nulla di clamoroso
– ma anche che questa stessa genesi non sia stata casuale, ma si sia data in un momento storico ben preciso, in modo del tutto interdipendente dal tramonto del movimento operaio. Gli anni '70 del Novecento segnano una cesura storica senza precedenti. Inizialmente essa appare unicamente come conclusione di una fase espansiva e quindi come espulsione di forza-lavoro dal processo produttivo, “de-integrazione dei lavoratori”, “peggioramento delle condizioni della classe operaia”. Ma è la contraddizione fra proletariato e capitale intesa come un tutto complesso e articolato, a trasformarsi. Da un lato, l'integrazione dei sindacati allo Stato nel contesto di crisi, determina una divaricazione tra sindacalismo ed esistenza formale dei sindacati: l'autorganizzazione diviene difensiva, il riformismo prende le armi (Brigate Rosse etc.). Dall'altro, per il proletariato diviene sempre più difficoltoso fissare un'identità che sussuma sotto di sé tutte le altre identità particolari. È così, ad esempio, che il femminismo si afferma non più come rivendicazione di uguaglianza ma, al contrario, come affermazione di una differenza irriducibile: «Noi rimettiamo in discussione il socialismo e la dittatura del proletariato. La forza dell'uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla. Sputiamo su Hegel. Siamo contro il matrimonio. [...] La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante. Comunichiamo solo con donne». (Manifesto di Rivolta Femminile, in Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, 1974).

La stessa messa a punto (implicita o esplicita), da parte della teoria rivoluzionaria, delle nozioni di autonegazione del proletariato e di immediatezza del comunismo, operata – in modo differenziato e caotico, ma anche simultaneo e convergente – da un certo numero di individui e gruppi che partecipavano alle lotte di classe del periodo in Europa e negli USA, non può essere interpretata né come la verità finalmente disvelata del movimento rivoluzionario, né come semplice errore o deviazione – ciò che in entrambi i casi equivarrebbe ad assegnare alla teoria un'esistenza indipendente che certamente non possiede – ma come un'espressione tra le altre di una discontinuità nella produzione di teoria, che fa tutt'uno con una discontinuità nella contraddizione di classe.


Lotte quotidiane e produzione teorica

Anche il più incauto difensore dell'invarianza del marxismo e del programma comunista è costretto ad ammettere, per non ricadere nell'aborrito idealismo, che la teoria del proletariato non è cascata dal cielo. Essa è dunque un prodotto dei conflitti di questo mondo. D'altro canto, costui, difendendo l'“invarianza”, difenderà l'immutabilità di un corpus che deve essere preservato piuttosto che rielaborato; ciò, al fine di conservarlo “puro” per il Gran Giorno, al fine di difenderlo dall'inquinamento del mondo borghese: «Il disinfestamento a cui dedichiamo il novanta per cento della povera opera nostra non si completerà che in un avvenire lungo e continuerà molto dopo di noi: è quello che combatte l'epidemia di tutti i luoghi e di tutti i tempi, ovunque e ognora pericolosa, dei revisori, aggiornatori, contemplatori, innovatori. [...] si tratta di individuare il virus e applicarvi l'antibiotico, che cocciutamente ravvisiamo nella continuità della linea, nella fedeltà ai princìpi, nel preferire novecentonovantanove volte su mille la rimasticazione catechistica all'avventura della nuova scoperta scientifica -che richiede ali di aquila, e a cui si sente chiamata dal destino ogni zanzara.» (Amadeo Bordiga, Il marxismo dei cacagli, in “Battaglia Comunista” n. 8, 1952 ). Come se le lotte, dopo aver suscitato l'apparizione del Verbo, dopo aver forgiato la Dottrina, avessero smesso, dall'oggi al domani, di fare ciò che avevano fatto fino a quel momento: produrre teoria. Come se non fossero, da quel giorno, che alla ricerca del Logos smarrito. Il tempo si incaricherebbe dell'onere di effettuare la sintesi: le lotte si dirigeranno esse stesse, necessariamente, verso la loro teoria, ovvero la teoria già costituita che esse “ricercano” e che esse “apprendono” poiché l'hanno prodotta.

Non ci va meglio se ci volgiamo a ciò che scrisse sull'argomento l'eterodossa Internazionale Situazionista: «Contrariamente ai micro-partiti che non cessano di andare a cercare gli operai, con lo scopo fortunatamente diventato illusorio di disporne, noi attenderemo che gli operai siano condotti dalla loro lotta reale fino a noi; e allora noi ci porremo a loro disposizione» (“Internationale Situationniste”, n. 11, 1967). Questa concezione della teoria come corpus definito e preesistente, è all'opera ogni volta che l'IS tenta di esplicare il senso della propria produzione teorica, compresa come infusione di coscienza alle tendenze incoscienti delle lotte. La pratica ricercherebbe una verità che la teoria detiene, ed è attraverso di essa che questa pratica arriverebbe a compiersi. La teoria esiste e la lotta di classe viene a congiungersi con essa. La lotta di classe non viene essa stessa concepita come produttrice di teoria: lateoria esiste già. È evidente che questa concezione è una contraddizione in termini, poiché non si può sostenere, da un lato, che la teoria si forma nel corso della lotta di classe e, contemporaneamente, che essa è un insieme di verità costituite che il proletariato deve fare proprie.

Allora, delle due l'una: o si concepisce la lotta di classe senza teoria – ciò che non è mai esistito e mai esisterà – ammettendo che ciò in cui quest'ultima ha un ruolo da giocare possa esistere senza di essa, e che la formulazione della teoria comunista non ha nulla a che vedere con la lotta di classe; oppure si concepisce la lotta di classe come produttrice di teoria, e la teoria comunista come un forma particolare di teoria prodotta dalla lotta di classe.

Avanziamo su questa seconda ipotesi. Le lotte di ogni giorno producono incessantemente una teoria in senso lato, che può essere orale, scritta, buona, pessima, enunciata verbalmente o meno; ma poiché le lotte non sono fatte né da muti né da decerebrati, è un fatto che questa produzione incessante esista in ogni lotta. Il “problema” è che la quasi totalità delle lotte in una fase non rivoluzionaria, sono lotte quotidiane su obbiettivi d'interesse immediato per i proletari che le fanno, lotte che – siano vittoriose o sconfitte – nascono e muoiono nel magma della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Ed è qui che inizia la produzione di teoria in senso stretto: si creano, in questo magma della riproduzione del capitale, dei punti di coagulo, costituiti da individui singoli o da gruppi, attraverso i quali viene conservata e rielaborata la teoria in senso lato che le lotte producono costantemente. In questi punti di coagulo, la rielaborazione è una critica, consapevole o meno, della dispersione della teoria prodotta dalle lotte nella riproduzione del capitale, dunque una teoria del movimento d'insieme delle lotte di ogni giorno. Di qui, la formazione di varie correnti, che possono essere più o meno in rapporto a ciò che definiamo “rivoluzione”, che egualmente possono essere più o meno consapevoli della relazione che intrattengono con le lotte quotidiane dalle quali traggono il “materiale” che poi rielaborano; nondimeno queste correnti “dipendono” tutte da questocorso quotidiano, e non potrebbero esistere senza di esso. È dunque qui che noi stessi ci situiamo.

Ora, la peculiarità del momento attuale è che, in contrasto con la fase storica precedente, in cui le modalità di svolgimento della lotta di classe erano quelle del movimento operaio e dei suoi programmi, e dunque della rivoluzione come affermazione del lavoro sul capitale, le correnti teoriche odierne sono in gran parte ancora sconquassate dalla scomparsa di un'identità operaia forte, e si misurano costantemente col fatto che i comportamenti di classe della maggioranza dei proletari non sono affermativi di un'appartenenza di classe, ma esprimono al contrario un rapporto negativo con tale appartenenza. In ciò, si trova la ragion d'essere di varie elaborazioni che, a partire dalla fine degli anni '70, hanno tutte teorizzato, in modi anche molto diversi, il superamento della contraddizione tra proletariato e capitale nel quadro del capitalismo stesso: l'anarchismo insurrezionalista (cfr. Alfredo M. Bonanno, Anarchismo e società post-industriale, 1993), il Gruppo Krisis (cfr. Ernst Lohoff, La fine del proletariato come inizio della rivoluzione, in “Invarianti”, n.29 e 30, 1997), o ancora, ad un livello più mainstream, Giorgio Agamben con i suoi filosofemi sulla “piccola borghesia planetaria” e la “singolarità qualunque” (cfr. La comunità che viene, 1992), solo per citarne alcune. Sebbene il più delle volte queste teorizzazioni siano prive della necessaria fondatezza, esse non vanno squalificate e denunciate come “deliranti” o “piccolo-borghesi”: ciò non ci spiega affatto perché esse esistano. Gli sviluppi problematici della teoria rivoluzionaria contemporanea derivano tutti, in ultima istanza, dall'impossibilità, per il proletariato, di opporre al capitale ciò che esso è all'interno del modo di produzione capitalistico come fondamento della rivoluzione.

Le “officine del mondo” dell'Estremo Oriente (soprattutto la Cina) hanno costituito, fino ad oggi, una significativa eccezione a tutto ciò; ma fino a un certo punto. In primo luogo, l'acuirsi della crisi mondiale, rendendo palesi i prevedibili limiti dell'esportazionismo cinese, sta già modificando in profondità il carattere delle lotte proletarie quotidiane, giocoforza sempre più rivolte alla conservazione del posto di lavoro piuttosto che ad ottenere aumenti salariali. In secondo luogo, se alla fine degli anni '90 l'attacco alla “ciotola di ferro per il riso” (metafora per la garanzia del posto di lavoro) nelle aziende statali non ebbe conseguenze catastrofiche, fu proprio grazie allo sviluppo dell'esportazionismo e dei subappalti; prese dentro a questo sviluppo, le lotte della nuova generazione hanno in effetti ottenuto aumenti salariali talvolta notevoli, ma in un contesto di crescita regionale, inscritta all'interno di una nuova divisione internazionale del lavoro basata sulla compressione salariale – non di una espansione generale del modo di produzione, come in Europa negli anni '60. Il sogno di un neo-fordismo keynesiano dagli occhi a mandorla, amico del popolo e perfino dell'ecosistema, e in grado di dare nuove prospettive al capitalismo mondiale grazie alla guida illuminata del PCC, è esistito solo nella testa di qualche intellettuale occidentale (cfr. Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, 2007; Loretta Napoleoni, Maonomics, 2010). Gli operai cinesi – forse avvertiti dall'esempio giapponese degli anni '80-'90 sulle possibilità di durata del boom
– hanno tentato di agguantare quanto era in loro potere; oggi, sempre più, si troveranno – come in Italia o in Francia – di fronte alla minaccia della delocalizzazione, e con margini di resistenza ristretti, che sono, in fin dei conti, sempre più simili in qualunque angolo del pianeta.


Autorganizzazione e autoattività

Nell'autunno 2010 – sull'onda del movimento studentesco che sarebbe poi sfociato nella grande manifestazione del 14 dicembre a Roma – andava diffondendosi, negli ambienti militanti a noi più prossimi, una sorta di strano mantra dell'autorganizzazione. In seguito ad alcune nostre discussioni, circolò sul web uno scritto nel quale è rintracciabile una prima analisi critica dell'autorganizzazione, considerata come «una mera forma, un involucro privo di vita, del tutto indifferente rispetto al proprio contenuto. Qualsiasi cosa può essere “auto-organizzata”, incluso il proprio sfruttamento! Basti pensare alla storia del movimento cooperativo; oppure ai diversi tentativi di autogestione della produzione che hanno punteggiato la storia del movimento operaio: dall'occupazione delle fabbriche torinesi, nel 1919-20, fino al più recente caso della Zanon, in Argentina. Lo stesso movimento dei Consigli, nella Germania del Primo dopoguerra, autentico focolaio di rivoluzione in quegli anni, si collocava per lo più in una prospettiva di autogestione del capitalismo. [...] Pensare che l'autorganizzazione rappresenti la “panacea di tutti i mali”, significa peccare di “formalismo” e attribuire a una forma organizzativa delle virtù salvifiche che non possiede e non possiederà mai». (cfr. F. B., Critica della forma-sindacato e limiti dell'autorganizzazione proletaria).

Nel gennaio 2011, nel nostro testo di presentazione, scrivevamo sull'autorganizzazione una cosa abbastanza diversa: «Gli operai non sono scomparsi [...] è piuttosto [...] quell'insieme di costumi, luoghi, miti e riti che caratterizzavano la vita (e la riproduzione materiale) della forza-lavoro del passato, ad estinguersi. Per questo, ancor meno di ieri, la rivoluzione potrebbe essere oggi l'estensione di un contropotere già esistente, l'affermazione di ciò che i proletari sono all'interno della società del capitale [...] La rivoluzione non è più quella. L'autorganizzazione è il suo primo momento. Ma questa ha cessato di essere il principio di qualsivoglia rifondazione societaria, non è più la prefigurazione della comunità futura; l'autonegazione del proletariato non può che esserne il superamento». In questi due passaggi emergono due differenti concezioni dell'autorganizzazione: nel primo essa viene considerata come forma pura e a-storica, sempre valida, da cui semplicemente non è il caso di attendersi ciò che non può dare; nel secondo, essa viene invece storicizzata come forma appropriata ad un contenuto specifico: l'autorganizzazione dei produttori in vista della società futura dei “produttori associati”. L'ipotesi sottesa al secondo passaggio citato, è che la ristrutturazione post-anni '70 abbia portato ad uno sconvolgimento così forte nella composizione di classe del proletariato, e in generale nei rapporti di classe, da distruggere non solo il movimento operaio “ufficiale”, ma anche – per usare l'espressione di Karl-Heinz Roth – “l'altro movimento operaio”, quello dell'autonomia e dell'autorganizzazione – che trovava anch'esso la propria ragion d'essere in un proletariato che, pur mutando periodicamente nella composizione di classe (migrazioni, salto tecnologico etc.), era sempre in grado di trovare una nuova stabilizzazione interna. Con l'avvento della ristrutturazione senza fine, la composizione di classe è costantemente sconquassata da immani ondate migratorie, dal carattere diffuso del processo produttivo, da una fascia sempre più estesa di sottoccupazione che va a dileguare il rigido confine tra impiego e disoccupazione etc. Gli stessi motivi che impediscono la ricomposizione di una classe costantemente in subbuglio, impediscono allo stesso tempo che possa emergere e generalizzarsi una figura “dominante”, analoga a quella dell'operaio professionale degli anni '20 e dell'operaio-massa degli anni '60; per questo motivo, le ipotesi sul “proletario informatico” come nuova figura centrale, formulate a partire dagli anni '70, non hanno mai trovato la minima conferma nella realtà. La conformazione ondivaga, variabile, ultra-segmentata e dissestata della classe, non potrà ricomporsi – paradossalmente – se non nella comunizzazione, ovvero nell'attimo in cui la classe sarà sul punto di dissolversi definitivamente.

Per quanto concerne i rapporti di classe, autorganizzazione e autoattività non sono proprietà inerenti a una pretesa natura rivoluzionaria del proletariato; sono forme storiche (=potenzialmente cadùche) di attività di classe, che presuppongono la capacità della classe di istituire un certo rapporto con se stessa, per mezzo di un tessuto di autonomia già esistente, che si estende in progressione dalle lotte quotidiane alla rottura rivoluzionaria (capitalizzazione delle lotte, continuità organizzativa etc.). «La storia non registra che intervalli fuggitivi nel corso dei quali il proletariato può acquisire la sua completa autonomia di fronte allo Stato capitalista» (Piombo, mitraglia, prigione: ecco come risponde il Fronte Popolare agli operai di Barcellona che osano resistere all'attacco capitalista, in “Bilan” n. 41, maggio-giugno 1937). Tutto ciò non ha più alcun fondamento. Oggi, quando agiscono in quanto classe, i proletari non esperiscono affatto l'essere classe per sé, cioè l'autonomia, ma l'essere classe per il capitale, l'essere in tutto e per tutto presso il capitale. Oggi, in Italia, in Francia, negli USA, quando gli operai lottano, generalmente (e giustamente) lo fanno per mantenere il posto di lavoro, per evitare la dismissione dello stabilimento
o la delocalizzazione; lo spirito della lotta è allora questo: senza queste mura, senza queste macchine, noi non siamo niente. Non è questione di “integrazione”, ossia dell'esistenza o meno di un'aristocrazia operaia, se è vero che la crisi attuale si sta già incaricando di bastonare a dovere i “figlioli prodighi” della classe; al contrario, la proletarizzazione montante e la miseria non elimineranno, ma renderanno anzi più visibile questa caratteristica delle lotte attuali, che si può riassumere così: non esiste più alcuna differenza tra essere-operai ed essere-operai-per-il-capitale. O si smette, nella comunizzazione, di essere operai, oppure si rimane operai per il capitale; fino alla comunizzazione, non vi sarà che la società attuale. Intendiamoci: la possibilità della lotta rivoluzionaria è senz'ombra di dubbio un portato della lotta rivendicativa di ogni giorno; il punto è come. Se è vero che – scomparsa ogni autonomia – la difesa della condizione proletaria è indistinguibile dalla riproduzione del capitale, allora tale difesa (sia essa vittoriosa o perdente), presa in sé e per sé, non è portatrice di alcunché. D'altra parte, se il rapporto tra le lotte quotidiane e la rivoluzione non è più di transcrescenza ma di rottura, ciò implica anche che non esistono lotte offensive o difensive in quanto tali. Esistono dei momenti di “frattura” – che possono sopraggiungere anche nell'ambito delle lotte reputate più difensive – in cui questa identità (essere-operai = essere-operai-per-il-capitale) sembra implodere; sono questi i momenti in cui si prefigura ciò che sarà la comunizzazione. Quando dei proletari, spinti dall'andamento della lotta, sono costretti a mettere essi stessi in questione la loro rivendicazione iniziale, ovvero ad agire contro di essa, oppure a non rivendicare più nulla, allora si apre una crepa nel fatto di agire come una classe – una crepa che porta con sé la rimessa in causa dell'appartenenza di classe, come fosse un'oggettività estranea contro la quale la lotta è andata a scontrarsi, e che solo l'autonegazione in quanto classe può abbattere.

Dal 1848 all'inizio della ristrutturazione senza fine negli anni '70 del Novecento, l'autonegazione del proletariato è rimasta subordinata alla sua affermazione in quanto classe; da ciò il carattere “lavorista” delle misure di transizione socialista: generalizzazione della condizione proletaria a tutti gli strati della società, riduzione della giornata lavorativa, retribuzione per mezzo dei buoni di lavoro. «La società comunista comincia appena ad emergere e respinge l'antica: essa riconosce solo il lavoratore, e rifiuta l'ozioso come non-umano [...] Si ha, in un certo senso, la formazione di un Gemeinwesen [una comunità, ndt] fondato sul lavoro. Nel capitalismo era il capitale che mediava l'esistenza dell'uomo, mentre ora essa è mediata dal lavoro». (Jacques Camatte, Il Capitale Totale. Il “capitolo VI” inedito de Il Capitale e la critica dell'economia politica, 1976). Ironia della storia, sarà lo stesso autore di queste righe – consumata la rottura col bordighismo ufficiale – ad intravvedere la caducità del programma e i tratti della nuova fase: «Nel periodo di dominio formale del capitale, la rivoluzione si manifestava all'interno stesso della società: lotta del lavoro contro il capitale; oggi essa [...] si leva contro il capitale e contro il lavoro, si tratta di una lotta contro il capitale e contro il lavoro, come due aspetti della stessa realtà. In altri termini il proletariato deve lottare contro il proprio dominio al fine di [...] distruggere sia il capitale sia le classi. [...] Non c'è più da realizzare nessun socialismo inferiore, e la fase di dittatura del proletariato si riduce alla lotta per la distruzione della società capitalista, del potere del capitale» (ibid., Prefazione). Incapace di articolare teoricamente il nuovo rapporto intercorrente tra le lotte quotidiane del proletariato e il comunismo – ossia tra l'“essere immediato” (conservatore) della classe e il suo “essere mediato” (rivoluzionario), compresi l'uno come una mistificazione e l'altro come un'essenza da disvelare, un dover-essere – non deve stupire la deriva successiva di Camatte, dall'abbandono della teoria delle classi e del valore-lavoro al neo-gnosticismo, passando per la scoperta di Freud e della psicanalisi, per giungere infine al primitivismo: «Oh Uomo, quale sbaglio separarti dalla Natura!»


Prefigurazione del processo rivoluzionario nelle lotte quotidiane

La struttura che accomuna tutte le lotte di classe particolari della fase attuale, risiede nel conflitto tra il carattere irrimediabilmente “riformistico” delle lotte e il fatto che, in via tendenziale, ogni rivendicazione è delegittimata e non può essere soddisfatta. Il superamento di questa situazione contraddittoria non avverrà quando il proletariato “comprenderà” – magari grazie all'intervento dei “rivoluzionari” – che questo mondo non offre più nulla e dunque non ha più senso rivendicare alcunché, non essendo rimasta altra via fuorché la rivoluzione. Non essendo la classe in grado di esprimere un'autoattività, la rivoluzione non può darsi come “campo rivoluzionario” già esistente, ma solo come superamento dei limiti delle lotte attuali. Nell'attività militante di coloro che – divisa la realtà fra volontà cosciente e corso oggettivo del mondo – credono di essere già “al di là” delle “illusioni riformiste” della maggioranza dei proletari, può manifestarsi effettivamente una prefigurazione di questo superamento, che sarà la rimessa in causa della riproduzione del proletariato in quanto classe; ma solo come una tra molte altre, e in un certo senso suo malgrado. L'attività militante è del tutto interna al corso quotidiano della lotta di classe; non si aggiunge ad esso dall'esterno, ma – prigioniera com'è del feticismo del capitale – non può nemmeno stagliarsi al di sopra o al di là di questo corso quotidiano, come forse vorrebbe. Il feticismo, che l'attività militante non può comprendere che come “illusione” (da cui si crede al riparo) e come “menzogna” da smascherare, è un momento necessario della lotta di classe, finanche nel corso della rottura rivoluzionaria: nessuna rivoluzione si fa contro la formula algebrica del saggio di profitto. L'affermazione teorica del comunismo si dà come individuazione e critica dei limiti necessari delle lotte attuali, non come critica delle ideologie. Come comprese Althusser, l'ideologia non fa altro che interpellare gli individui in quanto soggetti, dunque in quanto semplici volontà contrapposte al corso oggettivo; la critica “radicale” delle ideologie, prefiggendosi di smascherare la Menzogna per mostrare la Verità, rimane dunque essa stessa ideologica.

I frangenti delle lotte attuali in cui si prefigura ciò che sarà la comunizzazione, sono quelli in cui la contraddizione della rivendicazione – allo stesso tempo “necessaria” e “inutile” – si tende a tal punto da aprire una frattura nell'azione di classe stessa, dentro la lotta. In questi frangenti è una frazione del proletariato – partendo dalla difesa della propria riproduzione come classe-per-il-capitale – a mettere in questione praticamente questa stessa riproduzione. Ne è stata un'illustrazione recente (maggio-giugno 2011) la pratica degli operai del Bangladesh che – rivendicando maggiore salario – sono stati “costretti” ad attaccare i mezzi di produzione, dando fuoco alle fabbriche dove lavoravano. Anche le lotte operaie del 2009, in Francia, hanno presentato caratteristiche similari: l'ondata di licenziamenti dovuti a dismissioni e riduzioni di organico – a cui si è aggiunta l'impotenza di tutti i sindacati (compresi quelli di base) nell'imporre dei negoziati, rifiutati da parte padronale – ha condotto una minoranza operaia sul terreno dell'azione illegale (sequestrando manager, minacciando di scaricare materiale tossico nell'ambiente etc.), la quale è riuscita in tal modo a riaprire le trattative e a strappare quasi sempre degli indennizzi molto maggiori rispetto a quelli stabiliti per legge. Diversamente da coloro che, trovandosi in una situazione analoga, hanno rimesso in funzione i macchinari e hanno continuato a lavorare senza il vecchio padrone, nella speranza di trovarne uno nuovo, questi proletari hanno evidentemente puntato tutto sulla possibilità di posticipare al massimo il momento del ritorno sul mercato del lavoro.

Le lotte contro il CPE in Francia del 2006, il movimento studentesco del 2010 in Italia (in particolare la manifestazione di Roma del 15 dicembre) e quello del 2011 in Cile, hanno egualmente vissuto la rimessa in questione delle tipiche rivendicazioni corporative studentesche, da parte di una minoranza di studenti che – stanca di difendere l'istituzione universitaria, “ghetto d'oro in un mare di merda” – non poteva fare altro che, paradossalmente, continuare a lottare senza rivendicare più nulla. «Dopo l’ennesima riforma scolastica, gli studenti avevano già avviato un percorso di lotte, ma la rabbia che oggi è esplosa a Roma va ben oltre quella degli studenti contro il DDL Gelmini, eoltre anche a quella dei cittadini contro le politiche di questo governo. È la rabbia di tutte quelle persone, quelle individualità, che hanno preso coscienza che è l’intero sistema economico, politico e sociale a dover saltare via. Non a caso sono state scelte le banche, le vetrine dei negozi, le macchine di lusso, i blindati delle forze dell’ordine e i palazzi del potere come obiettivi principali su cui sfogare anni di oppressione». (Assemblea di Scienze Politiche Occupata
– Bologna, Oggi la capitale, domani il capitale, volantino, dicembre 2010). Le parole di questo volantino mostrano come le rotture della fase attuale ne prefigurino il superamento, ma ne facciano ancora, allo stesso tempo, totalmente parte: la “frattura” manda in pezzi la rivendicazione studentesca, ma ricrea immediatamente altri limiti e altre problematiche (il capitale inteso come una cosa, la questione della presa di coscienza, l'individuo come soggetto rivoluzionario etc). Anche le numerose rivolte senza rivendicazioni degli ultimi 15 anni che hanno avuto il proletariato delle metropoli occidentali come principale protagonista – pur significative – non sfuggono a questo quadro. Coloro che contrappongono gli “esclusi” agli “inclusi” (o il proletariato eccedentario agli operai di fabbrica) non comprendono la portata della ristrutturazione capitalistica, in particolare il fatto che la cosiddetta “flessibilità” tenderà a fare sempre più labili i confini tra esercito industriale attivo ed esercito industriale di riserva, aumentando la sovrappopolazione “fluttuante” che entra ed esce dalla produzione di plusvalore (cfr. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII). Questo fatto si ripercuote già oggi nell'avvicendarsi degli attori delle rivolte: se a Los Angeles nel 1992 (e ancora in Francia nel 2005) a sollevarsi è soprattutto un massa segregata di disoccupati cronici, il dicembre greco del 2008, ed anche i riots inglesi dell'agosto 2011, presentano una composizione sociale molto più variegata e difficilmente definibile. «Lavoro alla mattina, “insurrezione” alla sera», questa formula lapidaria, tratta da un comunicato di precari in occupazione alla Facoltà di Economia dell'Università di Atene, evidenzia al meglio la peculiarità della fase: anche degli “onesti lavoratori” possono – scoperta dell'acqua calda – essere dei rivoltosi; eppure la loro capacità di incidere sulla produzione di plusvalore risulta ancora alquanto limitata.

Del frazionamento interno al proletariato si è già detto; aggiungiamo qui che la massiva incorporazione delle donne nella forza-lavoro mondiale non ha smesso di crescere dall'inizio degli anni '60 ad oggi; è prevedibile che col montare delle lotte, tale fenomeno, data l'assenza di un'identità operaia forte che possa dominare le contraddizioni di genere, sarà produttivo di una forte rivendicazione identitaria di genere da parte delle donne, che determinerà a sua volta ulteriori divisioni. Se ciò dovesse verificarsi, l'affermazione dell'identità di genere nel corso quotidiano della lotta di classe confermerebbe l'impossibilità che vi possa essere una unità di classe preliminare al processo rivoluzionario. Ciononostante, qualunque femminismo – tendente in quanto tale ad affermare un'identità di genere e quindi a riprodurla, riproducendo così il rapporto di genere – si troverà, presto o tardi, di fronte alla necessità dell'autonegazione, che si prefigurerà anch'essa in una serie di rotture all'interno del femminismo stesso. Ogni tentativo di riformare o eliminare il rapporto di genere senza attaccare i rapporti di produzione, si rivelerà fallimentare; il separatismo non potrà in nessun caso rappresentare una soluzione. Sfruttamento e genere possono essere soppressi solo simultaneamente, ma il rapporto tra i due è ineguale. La riproduzione del genere come «riproduzione delle condizioni di produzione» (Althusser) può essere messa in crisi solo da un violento attacco ai rapporti di produzione, fattore decisivo per l'avvio di un processo rivoluzionario. Il proletariato non può portarsi su questo terreno “spontaneamente”, grazie alla semplice crescita quantitativa delle lotte proletarie per la difesa della condizioni di vita e di lavoro, né vi può essere portato da un'entità politica esterna; solo una generalizzazione di “fratture” come quelle fin'ora descritte, di cui solo alcune frazioni si faranno carico, imporrà al resto del proletariato in lotta l'attacco alla propria riproduzione come classe all'interno del sistema capitalistico.


Comunizzare il mondo

Rapporti sociali determinati plasmano un mondo a loro immagine e somiglianza e producono, tra l'altro, i bisogni individuali e sociali ed i modi di soddisfarli: «Se l'uomo si distingue dagli altri animali per l'illimitatezza e l'estensibilità dei suoi bisogni, d'altro canto non esiste un animale capace di contrarre nello stesso incredibile grado i suoi bisogni e di limitarsi, come lui, al minimo delle condizioni di vita, in breve non esiste un animale che possieda lo stesso talento ad irlandesizzarsi.» (Karl Marx, Pagine preparatorie per Il Capitale, s.d.). In questo passo possiamo leggere allo stesso tempo la realtà ristretta dei rapporti sociali attuali e, in negativo, le possibilità di un'auto-produzione senza fine di rapporti tra individui immediatamente sociali. Ad ogni modo, non sarà l'integrità del programma o, ancor peggio, dell'ideale, a disfarci della merda che il mondo così com'è oggi ci rifila o ci nega, ma un processo in cui la trasformazione degli individui – dell'attività, dei bisogni – sia identica alla trasformazione delle circostanze. «Il soggetto alternativo all'esistente non si trova già dato, ma è solo l'esito di una trasformazione di sé che si dà nella prassi stessa di trasformazione [...]» (Roberto Finelli, Classi, fantasmi e post-modernità, in “Vis-à-vis”, n. 8, 2000). Tale processo non sarà armonioso ma conflittuale, e potrà esacerbare all'estremo le tensioni fra le classi, e all'interno del proletariato stesso. Almeno in un primo momento, solo la maggioranza dei senza riserve e una frazione minimale della piccola borghesia (soprattutto i più giovani, gli studenti declassati etc.) saranno in sintonia con la comunizzazione, mentre il resto degli strati intermedi vi vedrà una minaccia alla conservazione della propria condizione sociale; perciò una parte di essi raggiungerà immediatamente la controrivoluzione aperta (ad esempio, costituendo degli organi para-statali di repressione), mentre un'altra troverà riparo nelle file del democratismo radicale. Sarà necessario mandare in rovina tutta questa gente che – come la storia si è più volte incaricata di dimostrare – tenterà fino all'ultimo di mantenere il proprio status, e naturalmente l'approfondirsi della crisi, unitamente alle sollevazioni selvagge nelle metropoli – al loro carattere anti-mercantile e distruttivo – aiuterà in questo senso.

I rapporti di produzione capitalistici si prolungano nella divisione fra città e campagna, nell'urbanistica, nelle tecnologie, nei saperi etc. La comunizzazione dei rapporti fra individui coinciderà dunque con uno sconvolgimento radicale del paesaggio e della distribuzione degli umani sulla crosta terrestre, dei procedimenti di produzione e dei modi di interazione con l'ambiente circostante – sia come attività che come coscienza sociale; tutto ciò si dipartirà dall'eliminazione dell'impresa e del mercato come luoghi circoscritti e separati dalla riproduzione immediata della vita materiale, così come dall'eliminazione del denaro (e dunque del salario) come elemento mediatore tra sfere di vita separate.

Come già rimarcato, il passaggio decisivo sarà dunque l'attacco ai rapporti di produzione. Dalla sollevazione argentina del 2001 fino ad oggi, passando per l'insurrezione in Cabilia (Algeria) dello stesso anno e le sommosse nelle banlieues francesi del 2005, fino al dicembre greco del 2008, ai recenti tumulti in Nordafrica e alla rivolta nel Regno Unito dell'estate 2011, il vero limite di tutte queste esplosioni sociali – al di là delle differenti estensioni – non è stata una presunta debolezza nell'attacco alla macchina statale; è stata l'incapacità di rivolgersi ai rapporti di produzione che ha sempre permesso allo Stato di reagire e riorganizzarsi con facilità. Sovente l'autorganizzazione si è rivelata essere il surrogato prodotto dalla lotta per supplire a questa incapacità: così è successo in Cabilia nel 2001, e gli avvenimenti che vanno sotto il nome di “Primavera Araba” hanno mostrato una difficoltà analoga – difficoltà che, più di ogni altra cosa, spiega la deriva democratoide delle iniziali rivolte del pane proletarie. Naturalmente, per i proletari egiziani, tunisini e libici non cambierà assolutamente nulla, dato che – vi siano o meno i Gheddafi o i Mubarak di turno al potere – continueranno a menare la solita vita da schifo; ma confidiamo che non mancheranno di esprimere (assai poco democraticamente) questo loro convincimento, di qui a breve.

L'attacco ai rapporti di produzione diviene radicale con la presa collettiva dei mezzi di produzione, in gran parte messi a riposo dalle astensioni di massa dal lavoro. Non a caso evitiamo il concetto di appropriazione: «I rapporti sociali capitalistici sono inscritti nella materia, incorporati negli strumenti tecnologici di cui facciamo uso nel lavoro e nel tempo libero, incistati nella forma delle abitazioni e nell'urbanistica, così come nei saperi e nelle relazioni interpersonali» (Il Lato Cattivo, Chi siamo, cosa vogliamo, a chi ci rivolgiamo, volantino, gennaio 2011). La presa dei mezzi di produzione è fin da subito una trasformazione che toglie, ove possibile, ai mezzi di produzione il loro carattere materiale capitalistico; è una distruzione di quelle “forze produttive” che non si prestano a tale trasformazione. Il movimento di comunizzazione può realizzare tale presa proprio perché non è il movimento dei “produttori associati”, non è la forza-lavoro che fa la rivoluzione per poi tornare al lavoro. Ad ogni modo, non è facile sostenere l'esistenza di un luogo del pianeta, per il quale sia necessario uno sviluppo delle forze produttive come precondizione materiale del comunismo.

Si può dire allora che la comunizzazione sia una dittatura del proletariato? Sì e no. Come già accennato, la ristrutturazione del modo di produzione capitalistico ha minato in profondità le condizioni che davano un fondamento alle forme già esperite della lotta di classe, ed al senso stesso di una dittatura di classe. Nonostante le differenze tra aree geo-storiche e la loro influenza su queste forme, si può escludere, ad esempio, un revival dei consigli operai – stile Russia '17 o Germania anni '20 – in una qualunque parte del globo; i momenti organizzativi che si daranno, saranno più probabilmente di carattere territoriale – considerata anche la rilevanza dell'esercito industriale di riserva su scala internazionale. In secondo luogo, la distruzione della struttura verticale della fabbrica fordista e la conseguente diffusione globale dell'outsourcing, ha paradossalmente aumentato la vulnerabilità del sistema ai blocchi della produzione: date anche le ridotte scorte di magazzino caratteristiche del just-in-time, se alla Fiat – che ormai si occupa perlopiù di assemblaggio – non arrivano più le componenti a causa di uno sciopero nell'azienda che le produce, gli operai cosa assembleranno? Proprio a causa della polverizzazione del tessuto produttivo sul territorio e della fine della connessione dell'accumulazione capitalistica alle aree nazionali – tipica invece del “compromesso” fordista-keynesiano – l'inizio di un processo rivoluzionario in un punto qualunque del globo, troverà un'immediata diffusione su scala mondiale o sarà stroncato sul nascere. L'assenza di rivendicazioni potenzialmente unificanti renderà vano, per qualsiasi aggregazione permanente definitasi “rivoluzionaria”, l'intento di capitalizzare le lotte su basi programmatiche.

D'altra parte, «la rivoluzione è un problema di forza, non di forma» (Danilo Montaldi): come la maggior parte degli atti della lotta di classe, il carattere del processo rivoluzionario su scala mondiale rimane antidemocratico e di dittatura sociale – benché non di classe in senso stretto, in quanto accelerata decomposizione di tutte le classi.

Il feticismo sociale prodotto dagli odierni rapporti sociali di produzione, implica l'opposizione rigida di un'oggettività meccanica avente leggi proprie – una sorta di «seconda natura [...] determinabile soltanto quale riepilogo di necessità constatate» (György Lukàcs, Teoria del Romanzo) – ad una soggettività presuntivamente “libera” e autodeterminata dalla propria “volontà”. Questa opposizione feticistica deriva dalla contraddizione fra proletariato e capitale, ovvero tra i mezzi di produzione esistenti come capitale, da un lato, e la compravendita di forza-lavoro per mettere in funzione questi mezzi – alla quale gli individui capitalisti e proletari partecipano “liberamente”, come soggettivazione di funzioni contingenti alla classe di appartenenza – dall'altro. Non si tratta, per la teoria del comunismo, di negare l'economia e le sue leggi come realtà separate, ma di considerare queste realtà non più come la base su cui si svolge la contraddizione di classe, ma come un momento della sua riproduzione. «Si può e si deve dissolvere ogni legge economica in un momento del rapporto contraddittorio tra proletariato e capitale: la caduta tendenziale del saggio di
profitto, il concetto generale di ristrutturazione del capitale, il capitale come contraddizione in processo» (Sur la critique de l'objectivisme, in “Théorie Communiste”, n. 15, febbraio 1999).

Non possiamo più figurarci la rivoluzione – alla maniera, marxista o meno, comunque hegeliana e umanista – come la vittoria del Soggetto sull'Oggetto, dell'Uomo sui suoi Prodotti, della Libertà sulla Necessità. Nel gioco come nella guerra, l'opposizione è un fatto banale. La contraddizione è un fenomeno complesso, poiché implica l'unità come precondizione trascendentale del conflitto. Il superamento della contraddizione strutturante l'odierno modo di produzione, determinerà un cambiamento tale che le stesse nozioni correnti di soggettività e oggettività, libertà e necessità, attività e condizioni, saranno ridefinite o soppresse. In tutto questo, la “natura” del proletariato, se compreso come un soggetto autonomo rispetto al capitale, rimane un enigma: le due “soluzioni” prodotte dal movimento operaio – Lenin: il proletariato, lasciato a se stesso, non è in grado di spingersi oltre il sindacalismo; l'“estremismo”: il proletariato è naturalmente rivoluzionario, ma pervertito dal riformismo, dalla burocrazia, dai partiti etc. – hanno entrambe colto due aspetti immediati della classe, ma fermandosi a questo livello di empirìa, non hanno potuto fare altro che alimentare ed esasperare una problematica impossibile a risolversi. «La massa è sempre ciò che deve essere a seconda delle circostanze, ed è sempre in procinto di diventare qualcosa di totalmente diverso da ciò che sembra essere». (Rosa Luxemburg, Lettera a Mathilde Wurm, 16/2/1917). Parafrasando questa formula si potrebbe dire che il proletariato è ad ogni momento, in rapporto alle circostanze, semplicemente ciò che deve essere. Noi allo stesso modo, in esso.

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