Note su lotte di classe, nazione e internazionalismo in Engels e Marx
A partire da un libro di Domenico Losurdo
di Fortunato M. Cacciatore (Università della Calabria)
La storia di ogni società finora esistita è la storia
delle lotte di classe.
1.
Nella frase d’apertura del Manifesto del partito comunista, il plurale, Klassen- kämpfe, non è casuale, né accessorio, ma è una importante indicazione di lettura per i testi di Marx, di Engels e della loro eredità1. Una lettura che, commisurando il «piano filologico e logico» a quello della «storia reale» (e viceversa)2, provi a inoltrarsi nella complessità delle posizioni, delle contraddizioni, delle oscillazioni interne a una elaborazione teorica e pratica che, nel XIX secolo, ha saputo più di altre confessare la propria intrinseca storicità3. Una lettura che sappia tenere conto degli scarti tra le «definizioni», i «principi», le «teorie» e la loro «applicazione» in circostanze spazio-temporali differenti, o del tutto eterogenee. In tali sfasature, hanno luogo i momenti della pratica politica: sono i momenti in cui la strategia è messa alla prova della congiuntura e della sua irriducibile contingenza. Momenti nei quali, proprio in quanto scissi e contestati, i termini politici si definiscono, si traducono in principi o si istituiscono come elementi teorici fondamentali. Momenti nei quali l’inimicizia non è mai pura perché determinata dall’amicizia che (più o meno inconsapevolmente) vincola tra loro i contendenti (termini, concetti e rispettivi portatori) nella disputa di una tradizione filosofica, politica e lessicale condivisa. Le semplici opposizioni non reggono al fuoco della polemica, a cominciare dalla dicotomia nazionalismo/cosmopolitismo. Assertori del principio di nazionalità si appellano al fine ultimo dell’umanità cosmopolita, per sfuggire alle chiusure nazionaliste; sostenitori del cosmopolitismo si appellano, per incarnarlo, all’esemplarità di una Nazione (della propria).
In questione è l’eredità della Rivoluzione francese. Tra le poste in gioco: l’associazione, insocievole fin dalla Dichiarazione del 1789, di Nazione (repubblicana, basata sulla sovranità popolare) e punto di vista (Absicht) cosmopolita. Alla vigilia di un’altra rivoluzione, sul finire degli anni ’40 del XIX secolo, il dibattito si riapre. Per tracciarne termini e contorni, può essere utile ricorrere a un articolo di Engels, pubblicato nel 1847 dal «Northern Star» (organo di stampa cartista) e poi riedito dalla «Deutsche-Brüsseler-Zeitung»4. Al centro dell’attenzione: un intervento di Louis Blanc e un passaggio, in particolare, nel quale il cosmopolitismo repubblicano si converte nel segno di esemplarità della Nazione (propria). La specialité nazionale si manifesta nel presunto possesso di un esclusivo «senso dell’universale» (per parafrasare Paul Valéry).
Dice Blanc nel discorso riportato da Engels:
«Noi abbiamo bisogno dell’unione della democrazia. E nessuno s’inganni: noi pensiamo e lavoriamo non per la sola Francia, ma per il mondo intero, perché il futuro della Francia comprende in sé il futuro dell’umanità. In realtà ci troviamo in questa mirabile situazione, che, senza mai cessare di essere nazionali, siamo necessariamente cosmopoliti, e persino più cosmopoliti che nazionali»5.
Ma il valore esemplare di una Nazione, senza il quale essa si esaurirebbe nella chiusura nazionalista, non può riconoscersi che per distinzione da un'altra nazione, eletta a modello negativo. Sotto accusa, nella fattispecie, è l’Inghilterra, come c’era d’attendersi. Continua Blanc:
«Chiunque si definisca democratico e voglia in pari tempo essere inglese, rinnega la storia del suo stesso paese, perché la parte avuta dall’Inghilterra nella storia fu sempre la lotta dell’egoismo contro la “fraternité”. Allo stesso modo, il francese che non volesse essere cosmopolita rinnegherebbe la storia del suo paese, perché la Francia non poté mai far prevalere un’idea che non fosse a beneficio del mondo intero»6.
Pertanto, il francese, che rifiutasse il proprio cosmopolitismo, rinnegherebbe, a sua volta, la storia del suo paese:
«Signori, al tempo delle crociate, quando l’Europa mosse per conquistare il Santo Sepolcro, la Francia prese il movimento sotto la protezione delle sue ali. Più tardi, quando il clero voleva imporci il gioco della supremazia papista, vescovi gallicani difesero i diritti della coscienza. E negli ultimi giorni della vecchia monarchia, chi appoggiò la giovane America repubblicana? La Francia, sempre la Francia! E ciò che era vero per la Francia monarchica, come potrebbe non essere vero per la Francia repubblicana? Dove troviamo, nel libro della storia, qualche cosa che appena somigli all’ammirevole abnegazione, al disinteresse della repubblica francese che, esausta per il sangue versato sulle nostre frontiere e sul patibolo, trovò ancora sangue da versare per i suoi fratelli batavi! Sconfitta o vittoriosa, essa illuminava i suoi stessi nemici con i raggi del suo genio! Che l’Europa ci mandi sedici eserciti, e le manderemo in cambio la sua libertà»7.
I redattori del “Northern Star”, nel loro commento (anche questo citato da Engels), mettono in discussione anzitutto il «carattere cosmopolitico» attribuito alla Francia prima della rivoluzione, rivendicando il contributo allo sviluppo del mondo (ovvero il cosmopolitismo) dell’Inghilterra. Si ritorce contro Blanc la sua stessa logica:
«(…) l’Inghilterra ha inventato la macchina a vapore, l’Inghilterra ha costruito le ferrovie, due cose che, crediamo, valgono un bel po’ di idee. Ebbene, l’Inghilterra ha fatto queste invenzioni per sé stessa o per il mondo? I francesi si vantano di diffondere la civiltà dappertutto, specialmente in Algeria. E chi ha diffuso la civiltà in America, in Asia, in Africa e in Australia, se non l’Inghilterra? Chi ha fondato proprio quella repubblica alla cui liberazione la Francia ha in qualche modo partecipato? L’Inghilterra, sempre l’Inghilterra. Se la Francia ha aiutato la repubblica americana a liberarsi dalla tirannia inglese, due secoli prima l’Inghilterra aveva liberato la repubblica olandese dall’oppressione spagnola (…) Quanto alle idee che i filosofi francesi del XVIII secolo, Voltaire, Rousseau, Diderot, D’Alembert e altri hanno tanto divulgato, dove avevano avuto origine queste idee, se non Inghilterra? Non dimentichiamo mai Milton, il primo difensore del regicidio, Algernon Sidney, Bolingbroke e Shaftesbury (…)»8.
Chi avrebbe più titoli cosmopoliti? La particolarità francese o quella inglese?
Ma la critica del «Northern Star» non si limita alla ritorsione, fa un passo oltre, richiamando in causa la democrazia (in nome della quale Blanc rivendica il primato cosmopolita della nazione francese): per essere democratici, si «deve» rinnegare il proprio paese, «ripudiare ogni responsabilità per un passato pieno di miseria, tirannia, oppressione di classe e superstizione». La democrazia non ammette eccezioni rispetto alla responsabilità per gli atti di re e aristocratici in tempi passati:
«ciò che per Blanc è uno svantaggio dei democratici inglesi, per noi è un grande vantaggio: il fatto che essi devono ripudiare il passato e guardare esclusivamente al futuro»9.
Rinunciare alla «durezza della propria nazionalità» (non alla nazionalità tout court) significa, per i democratici, «protestare» contro la pretesa d’essere sempre già elettivamente cosmopoliti, senza discontinuità, senza distinzioni e disuguaglianze generate da divisioni ritenute naturalmente o storicamente stabilite una volta per tutte. I democratici, allora,
«non si contentano dell’asserzione da parte francese, che in quanto francesi essi sono già cosmopoliti: asserzione che equivale a chiedere che tutti gli altri debbano diventare francesi»10.
Questa la conclusione della risposta cartista, con l’approvazione di Engels, che, nell’introdurre il dibattito, aveva tenuto a sottolineare il rapporto tra critica e possibilità di unione tra i democratici:
«L’unione dei democratici delle varie nazioni non esclude le critiche reciproche. Senza tali critiche essa è impossibile. Senza critica non c’è intesa e quindi non c’è unione»11.
L’articolo di Engels è certo un intervento occasionale, per definizione. Ma vi si può leggere (con l’aiuto di Losurdo) una indicazione più generale. Provo a riassumerla: le «critiche reciproche» sono condizione dell’unione tra i democratici perché rimarcano la tendenza, iscritta fatalmente nell’affermazione unilaterale (quindi astratta) di un principio o di un ideale (che sia nazionalista o cosmopolita), a convertirsi nel suo contrario. Nel caso qui in discussione: senza la critica della pretesa di una Nazione, per quanto trasformata dalla rivoluzione, a incarnare l’universale (o il cosmopolitico), nell’indifferenza per la diversità delle condizioni e dei rapporti di forza, nell’indistinzione tra nazioni egemoni e nazioni subalterne, l’unione dei democratici diviene di fatto impossibile. Questa la posizione di Engels e di Marx mentre si accingono a pubblicare il Manifesto. Ma si può rintracciare lo stesso orientamento anche in seguito. Vale la pena citare a testimonianza una lettera del 1866, in cui Marx prende di mira la riduzione delle nazioni a pregiudizi antiquati operata dagli esponenti della «jeune France». Scena del resoconto è il Consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (istituita due anni prima):
«(…) si ebbe una discussione sull’argomento d’attualità, la guerra [franco-prussiana] (…) Anche i signori italiani sono nuovamente intervenuti. La discussione, come era prevedibile, was wound up soprattutto sulla “question of nationality” e sulla posizione che dovevamo assumere al riguardo (…) I francesi (…) gave vent alla loro cordiale antipatia verso gli italiani.
Del resto, i rappresentanti (non operai) della “jeune France” se ne uscirono fuori con questo, che tutte le nazionalità e perfino le stesse nazioni sono “des préjugés surannés”. Stirnerismo proudhonizzato. Dissolvere tutto in piccoli “groupes” o “com- munes”, che a loro volta fonderanno una “unione”, ma non uno Stato. E dunque questa “individualizzazione dell’umanità” e il corrispondente “mutualisme” debbono aver luogo, mentre la storia in tutti gli altri paesi si ferma, e tutto il mondo attende che i francesi siano maturi per compiere una rivoluzione sociale. Poi essi ci metteranno davanti agli occhi i loro esperimenti, e il resto del mondo soggiogato, farà come loro (…)».
In tal modo, la precipitosa «negazione delle nazionalità» diviene funzionale all’affermazione di una «nazione modello»12, o esemplare, in discorsi che finiscono per riprodurre, più o meno inconsapevolmente, la retorica e gli orientamenti politici dello «sciovinismo più esaltato»13.
2.
Nel 1847, anche il principio della Nazione rivendicato da Mazzini attende la sua realizzazione, restando sospeso all’imminenza di una «lotta» che avrebbe investito tutto il «Continente». Il passo che segue è tratto da uno scritto intitolato La questione europea:
«(…) l’Europa s’accosta rapidamente a una terribile crisi: una lotta suprema fra i popoli e i
loro despoti (…)
Sordo dapprima, il tuono ha rumoreggiato minaccioso durante gli ultimi diciassette anni: domani o dopo domani avverrà un’esplosione: qualunque tentativo di conciliazione sarà inutile. Fra i due campioni, la Forza sarà in breve il giudice (…) La nazionalità è la bandiera di combattimento. Vi sono razze in lotta: milioni di uomini che la mano di Dio ha posti in determinate circoscrizioni geografiche, che hanno una lingua loro propria, e sono tenuti al guinzaglio, governati da altri uomini, dai quali gli usi, le tendenze, la lingua sono totalmente estranei ad essi; popoli senza nome, senza bandiera, senza segno esteriore di vita nel consorzio delle nazioni, che sentono agitarsi in fondo ai loro cuori quella spontaneità, quella coscienza di una missione da compire nel mondo, di una frase dell’umanità da rappresentare che costituisce l’individualità [l’autodeterminazione] di una nazione»14.
La Nazione è la base insostituibile della lotta per l’emancipazione dei popoli. O, secondo una metafora usata spesso da Mazzini, il fulcro indispensabile per la leva di ogni mobilitazione democratica in vista dell’Umanità pacificata come fine ultimo. L’ascesa della democrazia è intesa come lo sviluppo di una legge di cui gli uomini (raccolti in nazioni) devono farsi gli agenti: la «legge del progresso». Senza questa legge e il suo sviluppo non si darebbero né «vita», né «movimento», né «religione». Non si darebbe, in una parola, «Provvidenza»15. Mazzini può essere annoverato tra i sostenitori del principio della nazionalità «proclamato in uno spirito etico “universalistico”»16. Il principio della nazionalità si presenta e si pretende in quanto affermazione di ogni singola Nazione (e, in tal senso, nel lessico di Gellner, sarebbe comunque una «nazionalismo»)17. Ciascuna è in diretto rapporto con Dio (quello cristiano) e, quindi, uguale alle altre.
«La legge di Dio non ha due pesi e due misure. Cristo venne per tutti: parlò a tutti: morì per tutti. Non possiamo desiderare che i figli di Dio siano uguali innanzi a Dio e ineguali innanzi agli uomini»18.
Il rinvio alla trascendenza è chiamato a giustificare la pluralità nell’uguaglianza. Dio assicura l’uguaglianza tra gli uomini e tra le nazioni nella loro particolarità e garantisce, al contempo, l’universalità della forma nazionale. Ne deriva, per il sostenitore repubblicano del principio di nazionalità, che la Nazione non solo deve rifiutare ogni forma di egoismo, ma deve fornire la base per il processo di superamento del nazionalismo (ricondotto da Mazzini al principio dinastico dell’ancien régime, che, a suo avviso, i comunisti confonderebbero con il principio nazionale tout court).
Ma il superamento delle chiusure e dei conflitti nazionali, in vista della fraternità tra i popoli, deve comunque avvenire attraverso l’affermazione del principio di nazionalità. Principio a base di una Nazione oppressa (a partire dall’Italia naturalmente) che, tuttavia, non esiste al presente e deve ancora costituirsi e diffondersi in maniera plurale in tutta Europa, perché si possa instaurare un’alleanza pacifica tra i popoli. È a questa Nazione futura che viene assegnato il ruolo di mediazione per la risoluzione dei conflitti sociali intra-nazionali e delle guerre internazionali.
Mazzini, come si è detto, ricorre a una metafora meccanica: la patria deve servire come «punto d’appoggio» della leva operante in vista della costituzione di una «Europa dei popoli»19. E tale è anche il fulcro della polemica mazziniana sia contro il cosmopolitismo20 sia contro il comunismo (quest’ultimo annoverato tra gli eredi infedeli ed estremi del sansimonismo e del fourierismo).
«Il Comunismo, l’ultima frazione della Democrazia europea, ha acquisito, per il numero dei suoi aderenti, una certa importanza tra le file dei democratici. In Francia, in una parte della Svizzera e in Germania, ha ottenuto il consenso da un considerevole numero di persone, appartenenti in particolare alla classe lavoratrice (…)».
I lavoratori avrebbero accolto il «sistema» dei comunisti, fondato sull’uguaglianza, perché più semplice e più efficace per alleviare i loro «mali immediati». Tuttavia, mancando della «capacità intellettuale» in grado di causare le «rivoluzioni», i comunisti avrebbero potuto al massimo scatenare una «sommossa». I lavoratori, «uomini d’azione», resterebbero separati dagli «uomini di pensiero». L’esistenza stessa della fazione comunista sarebbe conseguenza di tale «fatale linea di demarcazione». Il «Comunismo opererebbe come uno «spirito di scissione» (per usare la formula di Sorel e Gramsci). Come si legge nei Thoughts upon Democracy in Europe, vero e proprio contraltare del Manifesto21, il comunismo
«supera il Sansimonismo e il Fourierismo nell’assoluto disprezzo del passato, di ogni tradizione storica, di ogni manifestazione della vita interiore dell’Umanità. Il Sansimonismo, riconoscendo almeno l’importanza del problema religioso, presenta la propria dottrina come una prosecuzione di quella di Gesù; il Fourierismo, nella sua esagerata ed esclusiva adorazione della libertà umana, riconosce almeno la sacralità di uno degli elementi essenziali della persona (…)».
Il comunismo, invece, tenderebbe ad abolire tanto la religione nell’indifferenza quanto la libertà sotto «il pesante assolutismo della sua formula organizzativa». E accamperebbe la pretesa di possedere il «segreto del mondo», scovato «sotto il cuscino di tale o talaltro dei suoi capi». Dal giorno di questa scoperta daterebbero l’inizio dell’«Umanità» e la sanzione definitiva del suo destino. Il comunismo neutralizzerebbe qualsiasi aspirazione al progresso:
«Tutti i grandi problemi, che l’intelligenza umana ha sollevato in migliaia di secoli, diventano perfettamente inutili. Il Comunismo ripete la frase di Omar: “O tutto ciò che dite è nel Corano, e allora è inutile; o se non c’è, è pericoloso”; e cancella con un tratto di penna tutti gli elementi di umanità fino a ora riconosciuti, tutte le manifestazioni della vita umana dell’inizio del mondo».
Il comunismo invaliderebbe ogni studio delle «successive trasformazioni del diritto di proprietà», cancellando il «grande principio» per cui la proprietà in generale sarebbe «il segno del lavoro umano». Altrettanto inutile sarebbe «parlare di patria»: l’abolizione della patria (country), della nazionalità «è per il Comunismo un fatto, se non compiuto, almeno decretato».
Per Mazzini, il principio della divisione del lavoro, concordata all’interno dei corpi nazionali, deve preservarsi, per garantire l’omogeneità di questi ultimi, e deve tradursi nella divisione pacifica del lavoro tra le nazioni.
Proprio ciò che, nella prospettiva di Marx e di Engels, annulla qualsiasi possibilità di pacificazione e rende impraticabile (ovvero solo pensabile, o immaginabile) una soluzione degli antagonismi affidata alla fede nelle capacità di unificazione del principio nazionale.
Scrive Mazzini:
«Senza Patria non è Umanità, come senza organizzazione e divisione di lavoro non esiste speditezza e fecondità del lavoro. Le nazioni sono gli individui dell’umanità come i cittadini sono gl’individui della nazione. Come ogni uomo vive di una vita propria e d’una vita di relazione, così ogni nazione; come i cittadini di una nazione devono farla prospera e forte coll’esercizio delle loro diverse funzioni, così ogni nazione deve compiere una missione speciale, una parte del lavoro a seconda delle proprie attitudini per lo sviluppo generale, per l’incremento progressivo dell’umanità. Patria e Umanità sono dunque egualmente sacre. Dimenticare l’umanità sarebbe un sopprimere ogni intento di lavoro: cancellare, come alcuni vorrebbero, la nazione sarebbe un sopprimere lo stromento col quale noi possiamo raggiungere l’intento»22.
E ancora:
«La Patria è la nostra lavoreria: i prodotti della nostra attività devono stendersi da quella a beneficio di tutta la terra; ma gli istrumenti del lavoro che noi possiamo meglio e più efficacemente trattare, stanno in quella, e noi non possiamo rinunziarvi senza tradire l’intenzione di Dio e senza diminuire le nostre forze (…) Prima di associarsi colle nazioni che compongono l’Umanità, bisogna esistere come Nazione»23.
Mazzini ribadirà le stesse idee nel 1871 (in Nazionalismo e nazionalità): il lavoro ha la sua «condizione essenziale» nella «divisione». Se si accetta questo principio per la più piccola «impresa industriale», occorre riconoscerlo anche per l’«impresa che abbraccia le generazioni passate e future».
«Or che altro è la Nazionalità se non la divisione del lavoro nell’Umanità? Non sono i popoli (…) gli operai dell’Umanità? Non è ciò che noi chiamiamo nazionalità una attitudine speciale avverata dalla tradizione d’un popolo, a compire meglio d’un altro un dato ufficio nel lavoro comune?»24.
I passi del Manifesto sul proletariato senza patria possono leggersi in polemica contro questa concezione del Vaterland, base di una Nazione omogenea, presupposta o proiettata nel futuro. La missione nazionale giustifica le divisioni e ricompone (o neutralizza) gli antagonismi che altrimenti deriverebbero da queste ultime. Come per gli «storiografi borghesi», così per i sostenitori della preminenza del principio nazionale, il movimento storico finisce con la liberazione dalla servitù feudale e dalla coercizione corporativa25. Scompare l’altro lato della storia, il suo lato cattivo, o l’altra parte della liberazione: la separazione di produttore e mezzi di produzione. Solo sulla base di questa rimozione, il nazionalista repubblicano può sperare nella cooperazione di proprietari e operai in una lotta comune.
Per Marx, senza l’abolizione degli «attuali»26 rapporti di proprietà, che condizionano il «reciproco sfruttamento dei popoli», sarebbe impossibile risolvere i «conflitti nazionali e industriali». Solo la «vittoria del proletariato sulla borghesia» darebbe il «segnale della liberazione di tutte le nazioni oppresse»27. Tale è la ragione, spiega Engels, dell’interesse mostrato dai «democratici tedeschi» per la «liberazione della Polonia» (e per le questioni nazionali nella loro specificità, purché non si obliterino, nell’analisi e nel giudizio politico, le divisioni e i conflitti che scindono l’unità presunta della Nazione). Le parole di Engels si iscrivono al centro delle riflessioni di Losurdo sul nesso tra lotte di classe e lotte per il riconoscimento tra i popoli28:
«Una nazione non può diventare libera e in pari tempo continuare a opprimere altre nazioni. Non si può quindi avere la libertà della Germania, se la Polonia non è liberata dall’oppressione tedesca. E, dunque, la Polonia e la Germania hanno un interesse comune, i democratici polacchi e tedeschi devono lavorare insieme per liberare le due nazioni»29.
Ma, se le lotte di classe non possono (e non devono) astrarre dalle lotte delle nazioni oppresse per la liberazione e il riconoscimento, vale anche il contrario. Non solo per ragioni dialettiche, ma per gli effetti pratici che possono sortire dall’appello all’insurrezione in nome di una presunta omogeneità nazionale e della sua unità politica data per spontanea. Come Marx fa notare in un articolo del 1853, commentando l’accusa di indifferenza rivolta alle «classi superiori» da Aurelio Saffi in seguito alla sconfitta e alla repressione della rivolta milanese scoppiata il 6 febbraio dello stesso anno:
«Ora, è un grande progresso per il partito mazziniano l’essersi finalmente convinto che, persino nel caso di insurrezioni nazionali contro il dispotismo straniero, esistono quelle che si è soliti chiamare differenze di classe e che, nei moti rivoluzionari, ai giorni nostri, non è alle classi superiori che si deve guardare. Forse i mazziniani faranno un altro passo avanti e arriveranno a capire che devono occuparsi seriamente delle condizioni materiali della popolazione italiana delle campagne se vogliono che il loro “Dio e Popolo” abbia un’eco»30.
3.
La «questione nazionale», nel suo continuo riproporsi (almeno a partire dal 1848)31, è uno di dei momenti, o, si potrebbe dire, uno dei Kampfplätze nei quali Marx ed Engels dibattono criticamente con una serie di altre posizioni (come quelle appena illustrate) e sperimentano (o comunque lasciano che il lettore sperimenti) l’impossibilità di limitare le lotte di classe a una sola delle loro dimensioni. Nei testi stessi di Marx e di Engels, l’ora dell’ultima istanza (la lotta di classe tra borghesia e proletariato, capitale e lavoro, la lotta di classe nella produzione) non suona mai pura, o, in altre parole e senza neutralizzarne la funzione critica (che segna l’originalità degli interventi di Marx e di Engels), non si dà mai se non sovradeterminata da altri incontri e conflitti. Sottolineare il plurale nell’incipit del Manifesto non significa relativizzarne il contenuto, ma evitare ogni riduzionismo (economicista, politicista o di altro tipo). E significa, forse, comprendere le ragioni per cui, nel corso del tempo, sia stata possibile la sua ricezione, oltre la cerchia «angusta»32 della diffusione iniziale e «in modi che non erano stati immaginati da Marx e da Engels» (dalla Rivoluzione del 1917 alle lotte per la decolonizzazione)33.
«Non ci sono dubbi: costante è l’attenzione [di Marx e di Engels] riservata alla lotta che il proletariato è chiamato a condurre contro la borghesia. Ma si esaurisce in ciò la lotta per l’“emancipazione umana”, per l’“emancipazione universale”?»34.
È stato detto innumerevoli volte che in Marx e in Engels non è dato rinvenire una definizione o una teoria della nazione e/o della nazionalità (una critica che va di pari passo con la denuncia di un deficit di teoresi politica). Non è mia intenzione attestare o smentire ancora una volta questa tesi, ma provare a mostrare (o a offrire alcuni saggi molto parziali di) come l’introduzione delle lotte di classe (nella storia e nella sua «scienza») costringano a riformulare i termini del problema stesso. In rapporto agli eventi del ’48 (periodo in cui siamo per ora situati), mi pare che la situazione possa riassumersi (ancora) con le osservazioni di Edward H. Carr. Marx ed Engels, egli scrive,
«non tentarono in questa circostanza [quella delle rivoluzioni del 1848], né del resto in alcun’altra, di formulare una teoria completa del nazionalismo. Di fronte agli eventi del 1848, il loro atteggiamento nei riguardi della questione nazionale fu condizionato dalla situazione generale della rivoluzione borghese, e non differì sensibilmente da quello dei liberali e dei democratici in generale. Era chiaro infatti che le rivendicazioni indipendentistiche non potevano moltiplicarsi all’infinito, e che pertanto si imponevano dei criteri discriminativi»35.
È intorno alla «scelta», o, se si vuole, al giudizio politico relativo a questi «criteri», che si dividono i vari orientamenti all’interno del movimento democratico36. Risolutamente critici e sprezzanti nei confronti dei teutomani, i quali cercano (allora come ora) la «storia della libertà» nelle «foreste vergini», confondendola con la «storia della libertà del cinghiale», Marx ed Engels devono confrontarsi, al contempo, con i loro (temporanei) alleati. Nel 1848, per gli autori del Manifesto, a prevalere erano «gli interessi generali della democrazia» e questi servivano da riferimento per distinguere tra nazioni “rivoluzionario-democratiche” e nazioni “reazionarie” (ciò non significa che il criterio fosse infallibile e non ricorresse a giustificazioni extra-politiche, o analoghe a quelle criticate nelle filosofie della storia più tradizionali). Né Marx né Engels – obietta René Gallissot «affrontano il problema della nazione in quanto tale». Le loro posizioni si sarebbero sempre regolate in funzione della «pratica politica»37. Ma è possibile isolare il «problema della nazione» in quanto tale senza rinviare alla «pratica politica»?
Sarebbe stato possibile farlo nel ’48? Sarebbe possibile farlo, in generale, senza sottrarre alle condizioni e alle trasformazioni storiche (da cui la pratica politica dipende) un in quanto tale della Nazione?
Ora, la presunta assenza (o mancanza) di una «spiegazione teorica»38 (o di una definizione) della nazione e/o della nazionalità può essere interpretata come un effetto della critica materialista della storia nel suo tentativo di emancipare quest’ultima da ogni ipoteca teleologica e da ogni identificazione di un Soggetto omogeneo, indiviso e situato positivamente al di qua o al di là delle lotte di classe. La pratica politica, a sua volta, deve farne a meno.
Può forse comprendersi anche in tal modo la (presunta) «scarsa propensione» di Marx ed Engels a «teorizzare» adeguatamente «forme di identità di gruppo quali la razza e l’etnia»39. Per la «scienza della storia» in via di elaborazione ogni entità (Sein o Wesen), che sia individuale o collettiva, è sempre già un rapporto (Verhältnis) o un ensemble di rapporti sociali che assumono dimensioni inaudite, weltgeschichtlich, con lo sviluppo del mercato mondiale capitalista. È lo sviluppo dialettico del Weltmarkt (e della Weltli- teratur) a sovradeterminare (negli abbozzi dell’Ideologia tedesca e poi nel Manife- sto) il processo di «centralizzazione politica» in forma di «nazioni», in tempi e secondo rapporti di forze differenti. Lo stesso processo destabilizza, per le unità nazionali e, in generale, per le «comunità locali», ogni autarchia economica e politica.
«Provincie indipendenti, a malapena collegate tra loro, con interessi, leggi, governi e sistemi doganali diversi, sono state spinte a unirsi in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale»40.
Ma, nello stesso processo, all’autosufficienza e all’isolamento locali e nazionali
«subentra un commercio universale, una interdipendenza universale tra le nazioni. Ciò vale sia per la produzione materiale sia per quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano bene comune. L’unilateralità e ristrettezza nazionali diventano sempre più impraticabili, e dalle molte letterature nazionali e locali si sviluppa una letteratura mondiale»41.
Produzione e consumo (materiali e spirituali) ricevono un’«impronta cosmopolita» dalle rivoluzioni borghesi (politica e industriale) e, «con grande rammarico dei reazionari», l’estendersi del mercato mondiale privano l’industria della sua «base nazionale»42. L’isolamento nazionale viene annullato dalla dipendenza universale che vincola «ogni nazione civilizzata e ogni individuo» al mondo intero per la soddisfazione dei propri bisogni. In tal senso, il movimento innescato dallo sviluppo della «grande industria» distrugge la «esclusività naturale delle singole nazioni» (naturwüchsige Ausschliesslichkeit einzelner Nationen)43. Ma non le nazioni, le nazionalità (in astratto), o il rapporto, più o meno conflittuale, tra nazioni esistenti (come Stati) o immaginate, tra nazioni che opprimono e nazioni oppresse, colonizzatrici e colonizzate. L’indipendenza e l’autonomia d’azione effettive divengono privilegio delle grandi unità nazionali, se capaci di imporre la propria egemonia (politica ed economica) su altre nazioni e attraverso l’espansione coloniale. La storia si mondializza (certo, entro i confini del mondo quale poteva essere compreso da due Europei, negli anni ’40 del XIX secolo, in un’analisi che prova a indicare una tendenza in fieri, non già tutta realizzata al presente):
«se in Inghilterra viene inventata una macchina che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sovverte tutta la forma di esistenza di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico universale (…)
(…) questa trasformazione della storia in storia mondiale è (…) un fatto assolutamente materiale, dimostrabile empiricamente, un fatto di cui ciascun individuo dà prova nell’andare e venire, nel mangiare, nel bere e nel vestirsi»44.
La concorrenza mondiale, che trascina tutte le nazioni nel suo vortice, concentra ma isola, connette ma divide. Non solo i borghesi: ogni borghesia «è sempre in lotta», oltre che in commercio, con «le borghesie di tutti i paesi stranieri»45. Ma «ancor più i proletari», posti «gli uni di contro agli altri»:
«Perciò passa molto tempo prima che questi individui possano unirsi, senza tenere conto che i mezzi necessari per questa unione – se non deve essere puramente locale – le grandi città industriali e le comunicazioni rapide e a basso prezzo, devono prima essere prodotti dalla grande industria; e perciò non è possibile vincere, se non dopo una lunga lotta, tutte le forze organizzate contro questi individui che vivono isolati e in condizioni che riproducono quotidianamente l’isolamento. Esigere il contrario vorrebbe dire esigere che la concorrenza non debba esistere in quest’epoca determinata, o che gli individui debbano cavarsi dalla testa situazioni sulle quali essi, come individui isolati, non hanno alcun controllo».
Con la storia, si mondializzano scissioni e antagonismi. Gli effetti della divisione del lavoro si riproducono al livello delle unità nazionali e delle loro relazioni. E, come gli individui, così anche le nazioni si formano e agiscono in situazioni sulle quali non hanno controllo, o, per lo meno, non un controllo assoluto (sciolto dall’interdipendenza).
«I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le sue forze produttive, la divisione del lavoro, le relazioni interne (…) Ma non soltanto il rapporto di una nazione con altre, bensì anche l’intera organizzazione interna di questa nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro»46.
Nei rapporti fra le diverse nazioni, come all’interno di ciascuna di esse, «si manifestano» le medesime condizioni, che rendono impraticabile una politica di «riforme sociali» separate da «riforme economiche nel quadro internazionale». Tale è, per Marx, il disegno illusorio dei patrioti protezionisti:
«Se parlano con cognizione di causa e liberamente alla classe lavoratrice, [i protezionisti «veri e propri»] riassumono in queste parole la loro filantropia: è meglio essere sfruttati dai propri compatrioti che da stranieri.
Ma i protezionisti diranno: “In questo modo, dopo tutto, manteniamo almeno lo stato attuale della società. Bene o male assicuriamo un’occupazione al lavoratore e impediamo che egli sia gettato sul lastrico dalla concorrenza straniera”»47.
Questo è l’obiettivo massimo al quale devono ridursi i protezionisti (oggi, forse, sarebbero definiti “sovranisti”): la conservazione dello status quo. O possono, al limite, promuovere impossibili «riforme sociali all’interno del paese», convertendosi da reazionari in conservatori progressisti.
«(…) ma, per la classe lavoratrice, non si tratta di mantenere lo stato attuale, bensì di mutarlo nel suo opposto (…) Il sistema protezionistico fornisce al capitale di un paese le armi per poter sfidare i capitali degli altri paesi; esso accresce la forza di quel capitale di fronte a quello straniero e, in pari tempo, crede di rendere piccolo e debole con gli stessi mezzi lo stesso capitale di fronte alla classe lavoratrice. Ma, in fin dei conti, ciò significherebbe fare appello alla filantropia del capitale, come se il capitale in quanto tale potesse essere filantropo. Tuttavia, le riforme sociali non possono mai essere attuate mediante la debolezza del forte: esse devono essere e sono ottenute dalla forza del debole»48.
4.
Nei Principi del comunismo (una delle matrici per il Manifesto), Engels aveva già risposto negativamente alla domanda se la rivoluzione potesse avvenire «in un paese soltanto»:
«La rivoluzione comunista non sarà (…) una rivoluzione solo nazionale, sarà una rivoluzione che avverrà contemporaneamente in tutti i paesi civili, cioè per lo meno in Inghilterra, America, Francia e Germania (…) Essa avrà una grande ripercussione sugli altri paesi del mondo, e modificherà radicalmente ed accelererà notevolmente l’attuale modo di sviluppo. È una rivoluzione universale e avrà perciò una portata universale»49.
Uno dei problemi che il Manifesto pone e lascia aperti (per Marx ed Engels stessi e per i loro futuri interpreti) è quello dell’articolazione tra la rivoluzione comunista (che si prepara all’interno dello sviluppo contraddittorio del capitale e non potrà essere che mondiale a sua volta) e la lotta di classe dei lavoratori in quanto lotta politica per la democrazia radicale il cui suo terreno d’azione si situa entro i confini delle nazioni. Due dimensioni (spazio-temporali) che non possono coincidere immediatamente: l’internazionalismo può essere considerato come un tentativo di mediarle, così come ai comunisti viene affidato il compito di «istanza di collegamento» tra i vari «partiti operai» e d’opposizione50. La rivoluzione democratica nazionale, solo politica, incontra limiti insuperabili nelle forme e nei contenuti praticabili in una società divisa in classi. Ma non si dà possibilità di rivoluzione comunista (che tende alla fine della politica, o, almeno, alla fine della politica intesa come Herrschaft di classe nella sua configurazione statale-nazionale), né si dà passaggio alla società libera da antagonismi di classe senza lotte (nazionali) per la democrazia. Il terreno nazionale è inaggirabile, la trasformazione della società deve passare attraverso la «conquista della democrazia», «Erkämpfung der Demokratie» (e, dunque, attraverso le forme della politica). L’internazionalismo – riassunto nello slogan finale «Proletari di tutto il mondo, unitevi!», che sostituisce il precedente «Tutti gli uomini sono fratelli»51 è l’orientamento strategico chiamato a far valere le ragioni della democrazia radicale (o sociale), e una certa eredità della Rivoluzione francese (quella del 1792), nelle diverse lotte nazionali. È l’«elemento costituente o rivoluzionario» in tempi di transizione – che impedirebbe alla democrazia stessa di «convertirsi a sua volta in difesa di certi interessi particolari», declinando l’equivalenza (moderna, post-rivoluzionaria) di cittadinanza e nazionalità contro il suo stesso «significato democratico»52. Ma, proprio perché promuove e istituisce articolazioni e collegamenti transitori, l’internazionalismo proletario non ha mai potuto escludere né alleanze tra classi differenti né il coinvolgimento nelle lotte di liberazione nazionale. Nella pratica politica, si complicano la logica e la configurazione «binaria del conflitto»53. Come scrive Losurdo:
«L’internazionalismo proletario può manifestarsi appoggiando movimenti di liberazione nazionale, che talvolta (nel caso della Polonia) vedono partecipare un fronte di lotta così ampio da poter includere persino la nobiltà (…)»54.
L’idea, la pratica, l’organizzazione dell’internazionalismo, le contraddizioni interne alla composizione plurale delle sue istituzioni, le sue crisi fino allo scioglimento successivo all’esperienza decisiva della Comune parigina possono essere considerate come dei banchi di prova (e di lettura critica) per le previsioni teleologiche o le precipitazioni escatologiche, rintracciabili non altrove se non negli stessi scritti finora citati di Engels e di Marx (e non solo in quelli cosiddetti “giovanili”)55. Ciò che Balibar ha chiamato «materialismo della politica» l’articolazione dell’analisi delle lotte di classe con la elaborazione di una strategia56 mette in gioco sia l’orizzonte d’attesa della rivoluzione come «lotta semplificata» e «unico grande colpo»57, sia l’estraneità del proletariato alle forme di «coscienza sociale» dominanti. Il proletariato non è immune dalla «terribile maledizione» dell’«orgoglio nazionale»58 e l’appartenenza a una classe (o, meglio, a una non-classe) non si traduce immediatamente in coscienza rivoluzionaria: senza passare attraverso le mediazioni di «rapporti sociali e politici», che non si esauriscono nell’opposizione di una classe contro un’altra (come se si fosse in presenza di due entità, a loro volta, date, indivise, anteriori alle relazioni in cui divengono riconoscibili)59.
«In altre parole, ogni individuo (e persino un gruppo) è collocato in un insieme contraddittorio di relazioni sociali, ciascuna delle quali gli assegna un ruolo di volta in volta diverso. Ben lungi dall’essere basato su un singolo “rapporto di coercizione”, il sistema capitalistico mondiale è l’intreccio di molteplici e contraddittori “rapporti di coercizione”»60.
L’appello finale del Manifesto sarà ripetuto in conclusione dell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (1864). Ma deve essere riletto dopo il riconoscimento e il bilancio di una sconfitta, cioè una volta svaniti i «sogni d’emancipazione» della «Primavera dei popoli», in un’epoca di «febbre industriale, marasma morale e reazione politica»61 e nella «rete mondiale» in cui «tutti i popoli vengono via via aggrovigliati»62. Appare sempre più evidente come la rivoluzione non possa decidersi definitivamente in un solo paese né in un solo continente, ma nemmeno contemporaneamente dappertutto, secondo un tempo unico, sotto una sola bandiera. L’appello all’unità internazionale dei proletari deve essere ricollocato in un quadro geopolitico ed economico mutato dalla crisi finanziaria del 1857, dalla Guerra civile americana (1861) e dalle lotte antischiaviste (per menzionare solo alcuni eventi salienti). Gli antagonismi attraversano le nazioni e, all’interno di queste, le classi stesse, comprese le classi lavoratrici, concentrate e, al contempo, dilaniate da una «politica estera» fondata sui «pregiudizi nazionali» messi al servizio del mercato del lavoro mondiale63. Il «sistema coloniale» descritto nel Capitale come uno dei «momenti» fondamentali della «cosiddetta accumulazione originaria» (e interminabile)64 il «dio straniero» che, a partire dal periodo della manifattura, aveva fatto «ruzzolar via» dall’altare i «vecchi idoli dell’Europa», proclamando che «fare del surplus era lo scopo ultimo e unico dell’umanità»65 si riproduce nei rapporti tra nazioni del vecchio mondo (nel rapporto tra Inghilterra e Irlanda, ad esempio).
«Nei paesi importatori di schiavi è (…) un principio che, per quanto concerne il loro impiego, l’economia più efficace consiste nello spremere il maggior rendimento possibile nel più breve tempo possibile dal bestiame umano (human chattle). Proprio nelle coltivazioni tropicali, dove spesso i profitti annuali eguagliano il capitale complessivo delle piantagioni, la vita dei negri viene sacrificata senza nessuno scrupolo (…) Mutato nomine de te fabula narratur! Invece di tratta degli schiavi leggi mercato del lavoro, invece di Kentucky e Virginia leggi Irlanda e distretti agricoli d’Inghilterra»66.
Non a caso l’attenzione di Marx e di Engels è costantemente attratta dalla situazione dell’Irlanda, colonia europea in cui la lotta per la liberazione nazionale e la lotta contro lo sfruttamento, pur non potendo concordare in tutto e per tutto, non possono essere dissociate. Alla fine degli anni ’60, Marx comincia ad ammettere apertamente la possibilità che la «leva» rivoluzionaria (la stessa metafora mazziniana) possa applicarsi altrove rispetto ai centri nazionali (civili, dominanti, europei) e non debba attendere necessariamente l’iniziativa delle classi operaie dei paesi più avanzati67. Così,
negli Stati Uniti del Nord, la lotta per la «giornata lavorativa normale» trova il suo innesco in una lotta solo apparentemente estranea o secondaria. È, scrive Marx, dalla «morte della schiavitù», con l’emancipazione (sebbene incompiuta) del lavoro in «pelle nera», che riceve una spinta decisiva «l’agi- tazione per le otto ore» diffusasi «dall’Atlantico al Pacifico, dalla Nuova Inghilterra alla California» (con gli «stivali dalle sette leghe»)68.
Come in altri momenti e riguardo ad altri eventi, anche sul «gigantesco scontro in atto negli USA»69, le polemiche interne al movimento operaio e socialista internazionale risultano istruttive (anche in prospettiva attuale). Le posizioni di Marx (e di Engels) entrano in conflitto con la tesi, più o meno condivisa da Proudhon e Lassalle, secondo cui l’impegno per l’abolizione della schiavitù avrebbe distolto l’attenzione dalla «questione sociale» da affrontare nella «metropoli capitalista»70.
In discussione sono gli orientamenti politici che Marx rimarcherà anche nel Programma di Gotha (1875) a proposito della riduzione di tutte le classi diverse dalla classe operaia a «massa reazionaria» e a proposito della riduzione della lotta per l’emancipazione entro i confini dell’«odierno Stato nazionale». Marx ribadisce, ancora una volta, che, per lottare, la classe operaia deve organizzarsi «in casa propria, come classe». Ma, oltre a sottolineare come i socialdemocratici tedeschi finiscano per confondere, nell’astrazione dello Stato nazionale odierno, il Reich di Bismarck con la repubblica democratica (condizione di possibilità politica delle rivendicazioni operaie), Marx critica radicalmente la separazione in due tempi di nazionale e internazionale:
«“l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente, “nell’ambito” del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati (…) E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli”, frase presa a prestito dalla borghese Lega per la libertà e la pace (…) Nemmeno una parola, dunque, sulle funzioni internazionali della classe operaia!
(…) [Pure il partito del libero scambio] sostiene che il risultato del suo sforzo è “l’affratellamento internazionale dei popoli”. Ma esso fa anche qualche cosa, per rendere internazionale il commercio, e non si accontenta affatto della consapevolezza che tutti i popoli, nel proprio paese, a casa loro, fanno del commercio»71.
Subito dopo, Marx riconosce che l’«attività internazionale delle classi lavoratrici» non potrà più dipendere, per la sua organizzazione, dalle forme e dalle politiche assunte dal «primo tentativo di istituire un organo centrale» (la Prima Internazionale, appunto) 72. Il «processo faticoso», ricco di contraddizioni, verso il «superamento della logica binaria», nell’analisi e nella pratica delle lotte di classe, resta «incompleto»73, perché intrinsecamente storico e politico. Se, nei testi di Marx e di Engels, c’è un filo conduttore, o un «criterio», a proposito di nazioni, nazionalità (e non solo), è forse proprio la sua continua ridefinizione e riapertura.
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