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Prefazione a “Stato e rivoluzione”

di Antonio Negri

Pubblichiamo qui la prefazione di Toni Negri a Stato e Rivoluzione per PGreco Edizioni

STATO E RIVOLUZIONE pREFAZIONE DI TONI NEGRI 1280x6401. A chi mi chiede quale libro possa meglio introdurlo al marxismo, rispondo: Stato e rivoluzione di Vladimir Ilich Lenin. Perché? Perché se Marx è il cervello, Lenin è il corpo del marxismo, e per i materialisti è nel corpo che risiede anche il cervello. Il marxismo non è infatti una teoria economica ma una critica dell’economia politica, laddove critica significa in primo luogo capacità d’analisi nell’immergersi in un mondo caotico e conflittuale, materialmente dominato da padroni che ti sfruttano e da un sovrano che ti comanda. Quel “ti sfrutta” e quel “ti comanda” significano che il comando ha a che fare con il tuo corpo, cioè con i corpi, le energie, le passioni, i valori di chi abita e lavora questo nostro pianeta. Lenin, con Stato e rivoluzione, mette i corpi all’interno della lotta quotidiana dove si annodano rivendicazione economica e passione politica, sforzo di emancipazione e potenza di liberazione. In questo primo approccio, Stato e rivoluzione significa: i corpi in lotta contro la materialità del comando capitalista.

Questo rapporto svela un primo significato del marxismo come critica: significa esserci dentro all’economia politica, starcidentro a quell’avviluppo di atti di sfruttamento e di mezzi di potere (di capitalismo e di sovranità), dentro alla connessione inscindibile che ne fa uno Stato. Lo Stato è sfruttamento dei corpi dei lavoratori ed è comando sui cervelli dei sudditi. Rivoluzione è la critica che i corpi esercitano contro quello sfruttamento e quel potere sovrano.

All’investimento del dentro, la critica fa dunque seguire, in contemporanea, la potenza del contro. Dire contro significa infatti comprendere come i corpi possano muoversi contro il capitale: significa dunque tradurre Il Capitale – libro inesauribile della critica marxista – in esperimento materialista di una rivoluzione possibile.

Perché la coniugazione “dentro-contro” segue e determina la mutazione materialista dell’insieme dei corpi in classe e costituisce così il filo rosso di soggettivazione della lotta di classe. È su questo punto altissimo del discorso di Lenin che va piantata la pedagogia del marxismo che non è scienza se non in quanto critica e non è critica se non in quanto soggettivazione: non è possibile essere marxisti se non dentro questo paradosso leninista della totalità e del punto di vista di parte. Ed ecco allora come Il Capitale venga qui, per così dire, soggettivato – che non significa abbandonato ai piaceri di una filologia sempre curiosa, talora dissoluta, né alle cerimonie di un dogmatismo ribelle. Significa piuttosto riarticolato nel rapporto storico con le lotte, nelle differenti composizioni tecniche e politiche delle due classi. Nello schema iniziale de Il Capitale era previsto un capitolo sullo Stato, ci ricorda Rosdolsky. Marx non ha avuto la possibilità di scriverlo come prosieguo dei grandi capitoli di critica economica che aveva redatto – ma negli scritti storici e negli interventi all’Internazionale e sugli uomini e sui partiti che ne facevano parte, un quadro teorico fu allora da lui tratteggiato. Lenin lo riprende qui e gli dà una muscolatura che solo l’esperienza di una lotta di classe vittoriosa poteva sovrapporre alle vicende confuse ed alle occasionali quanto vulcaniche polemiche di partito. Ecco dunque dove “soggettivazione” esprime interamente il suo significato. Vale come pedagogia, vale anche come punto più alto di quella sintesi operativa del “dentro e contro” che fin qui abbiamo riconosciuto nelle pagine di Stato e rivoluzione.

Dentro e contro bastano forse per mettere in prosa sia Il Capitale sia gli scritti storici di Marx. Ma in Stato e rivoluzione si va più avanti. La rivoluzione è cominciata, dice Lenin – dove andremo? Qual è l’oltre cui tendiamo? E qui l’agire soggettivo di Lenin si torce verso la realtà – dall’utopia alla scienza, dalla scienza alla concretezza della forza rivoluzionaria. Sembra che si sia ritornati all’inizio e che il gusto dello starci “dentro” e del lottare “contro” il capitale, sia maturato tal quale in un movimento perpetuo. Non è così: qui la soggettivazione permette di elencare in positivo i passaggi che il “fare rivoluzionario” deve compiere per costruire l’oltre, per andare oltre l’oltre – dal socialismo al comunismo. E il cammino è disegnato con l’intelligenza e la forza della prassi costituente.

L’utopia viene ricondotta nella realtà e messa in forma negli stessi modi nei quali l’attacco al presente dominio di classe era stato condotto. In questo modo l’utopica “estinzione dello Stato” viene compresa in termini materialisti come processo costituente. E lo si vede compiuto questo processo, perché non è più un ideale ma una prova per la soggettività che trasforma il reale: Marx e Lenin sono definitivamente ricomposti – quale forza ne viene! Distruggere lo Stato e ricostruire quell’insieme di istituzioni che permettono una vita libera, diventa un compito che si svolge in comune. Al termine della lettura di Stato e rivoluzione i nostri corpi sono impegnati in quel compito.

 

2. La prefazione alla prima edizione di Stato e rivoluzione è datata agosto ’17, e il “post-scritto alla prima edizione” è datato 30 novembre ’17, dunque: «Il presente opuscolo è stato scritto nell’agosto e nel settembre 1917. Avevo già preparato il progetto del capitolo seguente, il VII: “L’esperienza delle Rivoluzioni russe del 1905 e del 1917”. Ma all’infuori del titolo non ho fatto a tempo a scriverne una sola riga: me lo ha impedito la crisi politica, vigilia della Rivoluzione d’ottobre del 1917. Non c’è che da rallegrarsi di un tale impedimento. Ma la seconda parte dell’opuscolo (dedicata all’esperienza delle Rivoluzioni russe del 1905 e del 1917) dovrà probabilmente esser rinviata a molto più tardi: è più piacevole e più utile compiere l’esperienza di una rivoluzione che di scriverne».

Il libro nasce dunque all’interno della Rivoluzione, nell’agosto-settembre 1917 (quando, in seguito al primo tentativo insurrezionale fallito nel luglio, Lenin è costretto a fuggire da Mosca). Nella sua attuale composizione, Lenin utilizza le note su Il marxismo e lo Stato, redatte in Svizzera nel periodo immediatamente precedente al suo ritorno in Russia. In Svizzera infatti, dov’era stato costretto a rifugiarsi da Cracovia, dalla Polonia allora austriaca che dopo lo scoppio della guerra non permetteva più ai cittadini russi di risiedere, Lenin redige una triplice serie di scritti: il primo è di studi filosofici, raccolti nei quaderni su Hegel; il secondo è dedicato allo studio sull’imperialismo e quindi alla redazione del saggio popolare su quel tema; vengono infine i quaderni sul Marxismo e lo Stato che costituiscono l’antecedente immediato dell’agosto ’17. Abbiamo già visto che l’opuscolo si blocca al settimo capitolo. Nei precedenti capitoli Lenin aveva dato uno sguardo generico alle definizioni di società classista e di Stato nel capitolo I; nel capitolo II aveva ricostruito tale concetto dagli scritti di Marx sulla rivoluzione del ’48; il III è dedicato all’esperienza della Comune di Parigi del 1871 e all’analisi della Comune da parte di Marx; il IV comprende spiegazioni complementari e segue gli scritti di Marx, e soprattutto di Engels, nella polemica con la social-democrazia tedesca (in particolare vengono riprese la critica al programma di Erfurt e quella del programma di Gotha); nel V capitolo Lenin affronta direttamente il problema dell’“estinzione dello Stato” e definisce le basi materiali di questa estinzione; nel VI capitolo c’è ancora un attacco feroce a Plechanov e Kautsky, insomma contro l’opportunismo socialdemocratico della Seconda Internazionale. Del capitolo VII c’è – come abbiamo visto – solo il piano.

Per un verso, l’ordito di Stato e rivoluzione è assai pedagogico, in questo suo muoversi dal recupero delle ipotesi engelsiane sulle origini dello Stato e nell’analisi del maturare in Marx di un punto di vista di classe – nutrito dall’esperienza delle lotte del ’48 e del ’71. Il discorso si sposta quindi sul programma comunista e si confronta alle posizioni dei partiti della Seconda Internazionale, in polemica con il riformismo socialdemocratico immediatamente considerato come opportunismo. Nel piano originale si sarebbe infine dovuta aggiungere l’analisi dell’esperienza della rivoluzione del 1917 per affermare l’attualità del programma comunista e mostrarne la maturità di massa. Manca davvero a questo punto il capitolo VII. Leggiamone interamente lo schema: «1. Nuova “creazione popolare” nella Rivoluzione. Quid est? (Plechanov, 1906). 2. Lezioni del 1905 (risoluzione dei menscevichi e dei bolscevichi, 1906). 3. Vigilia della Rivoluzione del 1917: tesi dell’ottobre 1905. 4. Esperienza del 1917. Ascesa del movimento di massa, Soviet (loro ampiezza e debolezza; dipendenza dalla piccola borghesia). 5. Prostituzione dei Soviet da parte dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi: milizia, popolo armato; sezione militare, le “sezioni”; sezione economica; esplorazione del 3-5 luglio; “indipendenza” del potere dalle organizzazioni dei partiti. 6. L’episodio di Kornilov: degenerazione dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari; la contrattazione del 14-19 settembre. 7. Il “messianismo”. Chi comincerà?». Ancor’oggi, rileggere quella conclusione fa rabbrividire per l’incredibile preveggenza e per l’enorme forza che questo incipit esprime.

 

3.Eppure, da questi brevi cenni sulla storia del testo (interni alla sua composizione), un lettore non abituato allo studio della lotta di classe può trarre l’impressione che lo scritto di Lenin sia, per così dire, occasionale, tattico. Lo proverebbe il fatto che il testo accumula riferimenti alla tradizione marxiana per polemizzare contro il revisionismo socialdemocratico e contro le forze che si opponevano in quel momento all’avanzata della Rivoluzione. L’occasionalità premierebbe dunque sulla radicalità di questo saggio. Guardato da questo punto di vista, si tratta della continuazione di una battaglia ideologica, legata alla specificità della collocazione del partito bolscevico nell’Internazionale socialista. Il testo è infatti coerente ed in continuazione con le precedenti polemiche e scontri teorici, ne ripercorre e sviluppa le tematiche. La battaglia contro Plechanov qui si regge sulla battaglia contro Kautsky e questa sul duro rigetto di Engels nei confronti del programma di Erfurt e di Marx nei confronti di quello di Gotha, ecc. ecc. Da questo punto di vista non sarebbe dunque errato considerare questo testo come un’arma ideologica, tattica (come dicevamo) – in subordine esso non porterebbe con sé verità ed invenzione.

Ma leggerlo solo in questa luce è davvero insufficiente. Perché quello che fa di Stato e rivoluzione un testo classico del pensiero politico non è la ripetizione della critica del social-sciovinismo ma – in un momento fatale, nel fuoco dell’insurrezione – una critica distruttiva del concetto stesso di Stato e la fondazione di un altro concetto di potere, con tanti saluti a tutti coloro che per più di un secolo hanno ripetuto che nel marxismo mancava una dottrina dello Stato!

Vediamo dunque allora come si svolge questo progetto nel pensiero di Lenin in questa drammatica ma aurorale situazione. Da un lato, il concetto di Stato viene isolato dai poteri che esso si arroga come organizzatore generale e motore del funzionamento della società. Le funzioni amministrative e produttive che la macchina statale pretende di contenere e di nutrire possono essere strappate alla sua definizione. Già nella Comune di Parigi queste funzioni erano state riassorbite ed espresse in nuove figure istituzionali del sociale, piuttosto d’essere organi subordinati, ovvero dispositivi del potere statuale. Istanza questa fondamentale per i comunisti, i quali vogliono “mutare lo Stato da organo sovradeterminato in organo interamente subordinato alla società” (come Marx insiste nella critica al programma di Gotha). Così si configura una sorta di via in su, su dei movimenti stessi del funzionamento della società, che viene man mano percorsa dalle forze del lavoro in lotta nel mentre esse demoliscono lo Stato (ovvero “il potere politico propriamente detto”… questa splendida definizione della Miseria della filosofia). È la via configurata dal doppio potere – che non è un’indicazione tattica per il movimento rivoluzionario (lo è anche ma non solo in questo momento, in questo percorso dall’insurrezione alla rivoluzione – come vedremo di qui a poco), ma una definizione a impatto ontologico di come e di cosa sia fatto lo Stato: sempre un potere definito da un rapporto di forze antagoniste – trionfante per i detentori del capitale nella sua attuale figura, ma da portare alla distruzione con la vittoria della lotta di classe proletaria. E non è che un inizio. Dalla vittoria contro lo Stato la classe operaia e le classi lavoratrici debbono trovare la via per la costruzione di una nuova società – dovranno farlo contemporaneamente al movimento stesso di distruzione dello Stato capitalista. Lo smonteranno, consegnando all’esercizio della democrazia operaia (sempre più in termini di democrazia diretta) la chiave di questo processo. Così Lenin liquida l’anarchismo che, oltre alla distruzione dello Stato, non pensa la ricostruzione organizzata del sociale.

La via in giù, dalla vittoria rivoluzionaria alla costruzione di una società socialista e, nello stesso momento, l’imposizione delle premesse del comunismo – anche questa via sarà percorsa dalla lotta di classe nella forma del doppio potere. Un doppio potere proletario che, impadronitosi dello Stato, apre la lotta di classe per distruggerlo e – nel medesimo momento – progetta la costruzione di un’altra società, di un altro ordine nel quale l’eguaglianza e la libertà (cessando d’essere formali) diventano reali.

Ma chi considera Stato e rivoluzione come un testo tattico, occasionale, può qui obiettare che nel mentre Lenin teorizza una concezione duale del potere e dello Stato, nello stesso momento definisce il doppio potere come un episodio di breve durata, un espediente solamente utile nel pieno del processo rivoluzionario. Ed in effetti, quando si leggono le pagine sul doppio potere in Stato e rivoluzione, sembra che le urgenze e l’entusiasmo nel fare la rivoluzione abbiano la meglio sull’analisi materialista dello Stato: il doppio potere sembra essere solo un’arma teorica e pratica nell’immediatezza dello scontro e di uso momentaneo, transitorio… Non è così. Questa sussunzione del doppio potere in una categoria della tattica è puramente retorica. È indubbio che questo scarto dell’argomentazione squilibra l’analisi teorica, non ne intacca la trama ontologica. E può certo disturbare i lettori quanto l’esperienza dell’evento rivoluzionario – anche in Vladimir Ilich – possa essere coinvolgente ed esaltarsi nel “fare” ed inorgoglirsi nel momento vincente… fino a mettere a lato la teoria. Non però a rinnegarla. Perché la teoria (quella del doppio potere in particolare) è accumulo di temporalità rivoluzionarie, di esperienze di vittorie e di sconfitte – è quel che resta di essenziale nella conoscenza del potere e perciò nella conduzione del processo rivoluzionario: e Lenin lo sa.

 

4. Costruire un altro ordine sociale: la rivoluzione consiste in questo e questo è lo spirito che attraversa Stato e rivoluzione. Spirito disconosciuto e tradito, tuttavia! Infatti se la “via in su” è stata da tutti riconosciuta e dai comunisti apprezzata, molto poco è stata apprezzata la “via in giù”, la proposta di “estinzione dello Stato”. È davvero incredibile quanto poco la si sia voluta leggere per quel che era: la proposta di approfondire la lotta di classe dentro, contro, oltre la conquista dello Stato. Ci si chiedeva, da parte borghese, come un rivoluzionario ed un intellettuale della statura di Lenin avesse potuto esprimere una tale sciocchezza utopica – l’estinzione, la fine dello Stato. Da parte dei cosiddetti “leninisti” si ribatteva che “estinzione dello Stato” non significava la sua fine, il suo termine, ma indicava quel che sarebbe seguito alla creazione di una società senza classi che a sua volta non poteva essere costruita se non attraverso il rafforzamento massimo dello Stato (e della lotta di classe) nella dittatura del proletariato. Ecco cosa scriveva Stalin nelle Questioni del leninismo: «Alcuni compagni hanno interpretato la tesi dell’estinzione dello Stato come una giustificazione della teoria controrivoluzionaria che parla di estinzione della lotta di classe e di indebolimento del potere dello Stato. L’estinzione dello Stato si farà non attraverso l’indebolimento del potere statale, ma attraverso il suo rafforzamento massimo». A questo punto il dibattito non esisteva più. Ai liberali scandalizzati dalla “dittatura del proletariato” ribeccavano gli stalinisti: “Anche il vostro Stato non è altro che dittatura – la dittatura del capitale, della borghesia”. Dittatura contro dittatura, quindi. E i più loschi interpreti avrebbero concluso: “Fascismo = comunismo, Hitler = Lenin”.

Una cosa è certa: Lenin è mille miglia lontano da questo tragico bisticcio. Non è utopia l’estinzione dello Stato, e neppure dittatoriale costipazione del processo rivoluzionario, ma è lavoro di costruzione di un altro potere: è motore costituente della lotta di classe che si mette in movimento nel momento stesso dello scontro insurrezionale – che consiste quindi nell’istituzionalizzare gli organi dell’insurrezione, nel dare forma istituzionale alle figure antagoniste che svuotano lo Stato della sua forza. I Soviet dei contadini in armi, per esempio, tolgono allo Stato sia la capacità “regale” di condurre la nazione in armi, sia la “forza di legge” nel garantire e proteggere la proprietà terriera, a mezzo della forza cosacca dello Tzar (ecco smascherato il mistero del legame tra legalità ed efficacia che tanto appassiona la scienza giuridica nel cosiddetto Stato di diritto: l’involucro “razionale” dei due termini è, in questo caso paradigmatico, niente meno che lo Tzar!). Da un lato, dunque, si tolgono le armi al nemico di classe e, dall’altro con le armi e il consenso dei contadini al Soviet, si costruiscono nuovi istituti di possesso comune e di produzione cooperativa per chi da sempre ne è stato privato. Questo è solo un esempio, può essere ripreso mille volte – ed è una potenza storica che va liberata traducendo nuovo diritto attraverso un esercizio costituente della forza proletaria, ed articolando l’abolizione dello Stato e la costruzione di un nuovo ordine.

“Estinzione”: i cosiddetti leninisti ci dicono ancora che significa durata e prospettiva di accumulazione istituzionale. Certo, purché non lo si voglia vedere in termini positivisti, secondo quel materialismo privo di vita che in Lenin non ha spazio – perché “estinguere” è per lui l’esaltazione della soggettivazione insurrezionale, sempre produttiva, e che sempre deve restare viva. In superficie – avverte Lenin – il “doppio potere” si estingue in fretta, occorre dunque lasciargli le briglie quando se ne presenti la possibilità (come nel febbraio del ’17, come di nuovo nell’ottobre del ’17) – più tardi, nel processo postrivoluzionario di costruzione del socialismo, si potrà ravvivarlo questo doppio potere, farne risaltare la dimensione profonda ed ottenerne la medesima forza che nel processo insurrezionale. Non c’è “automatismo”, non c’è “spontaneità” in questa “estinzione” come in ogni altro processo di accumulazione – c’è soggettivazione di massa ed azione delle avanguardie di massa, articolazione delle loro differenze e costruzione di comune. Il dualismo di potere si eserciterà dunque come un permanente potere costituente.

Un’ultima annotazione: laddove i teorici del “totalitarismo” accostano il fascismo e il leninismo come forme simili di governo totalitario. Assumiamo questa denuncia ricordando che il potere è sempre una relazione aperta. Ora, su tale base, fascismo e leninismo potrebbero effettivamente rappresentare nella loro forma due simili figure di presa totalitaria del potere statuale. Ciò nondimeno, cosa ontologicamente diversa (ed irriducibile all’altra) è lo Stato nelle mani dei capitalisti a fronte di una rivoluzione che sradica il capitalismo (e con esso lo Stato) dal controllo sulla totalità – che si muove anzi in maniera da costruire un’altra opposta realtà, la totalità concreta della libertà. Quest’ultimo è il programma di Stato e rivoluzione.

 

5. Non si può certo dire che Stato e rivoluzione sia un testo che non è stato letto e studiato. È restato tuttavia – per la maggior parte dei suoi lettori – un testo che appartiene alla sfera del mito, piuttosto che quella del razionale politico, e cioè un episodio legato a quel momento eccezionale – per taluni “magico”, per altri “dannato” – che è stato il passaggio dell’Ottobre rivoluzionario – e quasi la firma, il suggello di Lenin su quel passaggio.

Osserviamo innanzitutto che gli autori che considerano Stato e rivoluzione un testo “mitico” sono sia di destra che di sinistra. Dalla destra, infatti, Stato e rivoluzione è stato assunto come manifesto dell’“arcano del potere” – rivelato da una decisione politica che apparenta quella di Lenin alla sublime produzione del superuomo metafisico. Ma senza rivangare queste estremità (che deliziano gli ideologi di estrema destra) è fuori dubbio che, anche per autori più accademici, e comunque espressione del mainstream politologico occidentale (si pensi ad esempio a Max Weber o a Carl Schmitt), il pensiero di Lenin sullo Stato e la rivoluzione può essere descritto come il momento “irrazionale” della “razionalità politica”, della “decisione” fondatrice a fronte della razionalità amministrativa e come tale paradigmatico nella teoria del potere. Tuttavia, se questo assorbimento teorico di Lenin nella dottrina classica dello Stato moderno fosse corretto si dovrebbe concludere che la critica marxiana del diritto pubblico hegeliano non lo sarebbe – e cioè che non avrebbe sufficientemente demistificato l’irrazionale del comando statuale, riconoscendolo come cumulo dell’espropriazione e dell’alienazione delle forze produttive. Così dunque, assieme a Marx, Lenin potrebbe essere ancora assimilato dalla Staatslehre borghese. Questa astratta deduzione, questo sillogismo reazionario, è tuttavia smentito dal fatto che Lenin la rivoluzione l’ha fatta e l’ontologia del potere (del doppio potere) ce l’ha esposta in piena luce, l’ha scientificamente provata, con una concretezza incancellabile.

Ma l’obiezione (rivolta agli interpreti mainstream) di non cogliere lo specifico della concezione del potere e del suo rovesciamento in Lenin, va portata anche contro taluni dei suoi lettori di sinistra che riprendono, camuffandola, quella medesima complementarietà di razionale e di irrazionale, pretesa dagli autori reazionari. Così (per restare nelle vicinanze), nei risvolti psicanalitici della dialettica hegeliana servo/padrone (per Zizek) o nella produttività simbolica di un evento assunto come sovradeterminazione storica (Badiou), quell’ agire politico, rivendicato dal leninismo, verrà tradotto nell’agency di un’Irrazionale, segreto in ogni forma di potere, ed ora improvvisamente rivelato e vincente. C’è del turpe in queste letture di Stato e rivoluzione – la lunga ombra nietzschiana diventa reazionaria in questa figura di dialettica risolta ad Eleusi – quasi che la rivoluzione, meglio la decisione insurrezionale, fosse un orgasmo. E non – come per Lenin – un lungo lavoro di preparazione e una dura esperienza di laboratorio – ed un progetto lungo quanto la rivoluzione è continua, permanente, fino alla costruzione del comunismo. Dalle Lettere da lontano alle Tesi di aprile sino a Stato e rivoluzione, Lenin opera a mettere in forma la macchina della rivoluzione, della conquista dello Stato attraverso i Soviet, cui confida l’articolazione democratica e produttiva della “dittatura del proletariato”.

Vi è dunque una teoria dello Stato in Stato e rivoluzione? Organizzata dalla ferrea implicazione di insurrezione, potere costituente, dittatura del proletariato, estinzione dello Stato? Della “dittatura del proletariato” come potere costituente nel quale la rivoluzione può trovare piena realizzazione? A nostro parere, sì – contro la negazione di alcuni grandi teorici borghesi, come Norberto Bobbio, o al reticente riconoscimento di altri (come per esempio in Hans Kelsen). E questa nostra affermazione si basa sulla fermezza e continuità dei pur sobri dispositivi costituenti che agiscono in Stato e rivoluzione e negli altri scritti di Lenin almeno fino alla NEP – e sui loro effetti costituzionali.

Ma c’è realizzazione e realizzazione e l’una non vale l’altra. Il più assoluto realizzatore di dispositivo leninista si volle, come abbiamo visto, Stalin. Se si leggono le sue Questioni di leninismo, se ne ha la prova provata: la dittatura del proletariato è la strada, l’unica percorribile, per la costruzione del socialismo. Questa concezione trionfò – sappiamo quali furono le tragiche conseguenze. Essa era una pratica del potere costituito, una pratica senz’altro dello Stato, non un processo del potere costituente. Molti furono i comunisti che a Stalin si opposero, anche in campo giuridico: Pashukanis in primo luogo, e tanti altri. Furono messi fuorigioco ma la loro critica continuò ad essere presente nel movimento comunista. Ed è certo, ad esempio, che nel pensiero e nell’azione di Mao Tse-tung, a partire dagli anni ’30 e poi fino alla Rivoluzione culturale, agì una critica dialettica che voleva lo sforzo costituente nelle mani delle masse/classi rivoluzionarie aperto alla costruzione della nuova Cina. La lezione che Mao trae dai Quaderni hegeliani di Lenin, raccolta nei due scritti Sulla contraddizione e Sulla pratica del 1936, è tutta rivolta a porre le premesse teoriche di una dinamica costituente della rivoluzione comunista. Di cosa stiamo dunque precisamente parlando? Di una teoria del potere costituente che da Stato e rivoluzione si apre ad un percorso di affermazione di libertà e di uguaglianza, costruendo strutture collettive che democraticamente tolgano allo Stato l’insieme delle funzioni che il capitale gli ha affidato per la riproduzione della società e che, di contro, producano istituzioni del comune.

E vi sarà ancora quel “resto di Stato”, di violenza preordinata al dominio che può essere astratta ma che continuerà a garantire (anche forzosamente) il funzionamento dell’intera macchina? Questo resto dovrebbe, secondo Lenin, spontaneamente scomparire e lo potrà quando lo sviluppo della lotta di classe avrà investito il globo e sviluppato il comunismo come sistema produttivo – lasciando finalmente libero l’uomo dalla necessità di faticare per vivere! Un sogno politico e tecnologico? Certo. Un sogno che accomuna il Marx dei Grundrisse e il Lenin di Stato e rivoluzione. Ed è impressionante notare come in Lenin siano poste quali condizioni per l’estinzione dello Stato più o meno gli stessi agencements che nei Grundrisse narrano il trionfo del General Intellect: in primo luogo la eliminazione della distinzione tra lavoro fisico e lavoro intellettuale; in secondo luogo lo sviluppo intero delle forze produttive; e infine – terza condizione materiale, già inclusa nella prima e nella seconda – è l’anticipazione di un salto qualitativo che trasformi le forze produttive, in altre parole un cambiamento della coscienza e dei corpi dei lavoratori. Per Lenin, solo su questa base l’estinzione dello Stato diviene possibile. Un sogno? Sì – ma anche un progetto. La rivoluzione permanente vive di questo progetto e si costruisce sulla sua trama.

Lenin in Stato e rivoluzione parla dell’estinzione dello Stato (dunque di quell’ultimo svanire di un potere politico “senz’altro”) come di un percorso basato sull’abitudine alla democrazia – id est all’esercizio continuo di un potere dal basso che costruisca istituti del comune. Può sembrare utopica questa immagine – ma solo per coloro che coltivano un’idea teologica dello Stato, o comunque la convinzione della sua ontologica necessità. Della consuetudine parlano infatti senza remore ed assumendola come fonte del diritto, non si peritano a fondare su di essa l’efficacia dei processi di legittimazione del potere ed eventualmente di plasmare il consenso ottenuto da frazioni minoritarie della società in titolo di comando fondato su una volontà trascendentale. O anche, in società laiche, di trasformare la volontà di una maggioranza elettiva in “volontà generale” – rappresentante il popolo e la nazione – usurpando la potenza delle singolarità e strappandone le differenze, riducendo all’unità ciò che è plurale e ricco di possibilità. Per evitare questi strafalcioni ideologici, basta rileggere le pagine di Lenin sulla dialettica hegeliana (in quei Quaderni filosofici che sono contemporanei della sua riflessione sulla teoria marxista dello Stato) per comprendere cosa voglia dire “consuetudine” nel linguaggio di Lenin. Vuol dire comportamenti di massa che diventano istituzioni, e quel “divenire” significa “generare”, promuovere, costituire, innovare – togliendo alla dialettica l’illusione idealista di “rovesciare per mantenere”, di “sviluppare integrando” che l’hegelismo (e perché no anche Hegel?) aveva proposto al pensiero politico della borghesia vincente. Il materialismo storico di Lenin (e di Marx e di Mao) gioca sulla passione dialettica non per permettere l’imbroglio idealista ed individualista di sottomissione del movimento alla rozza Wirklichkeit ma per nutrire l’accumulazione proletaria di potenza – in ulteriori estensioni e massificazioni, ivi comprendendo le rotture e deviazioni del processo. Stato e rivoluzione è una porta che si apre per il pensiero politico oltre la modernità.

 

6. Da questa porta aperta sono passate le rivoluzioni socialiste e anticoloniali del secolo xx. Quelle asiatiche, quelle sudamericane e quelle africane. Lenin definisce queste lotte come antimperialiste. La soggettivazione leninista del concetto marxiano di classe operaia ha permesso di estenderne la potenza e di trasformare l’alleanza degli strati sociali diversamente sfruttati in confluenza ed aggregazione, in convergenza di lotte contro le istituzioni dello sfruttamento e contro i ceti sociali che ne godevano. Questa estensione planetaria delle lotte ha riconfigurato nella lotta antimperialista il concetto di classe operaia che Lenin (e già Marx) aveva assunto come vettore di ricomposizione politica internazionale dei subordinati e – mantenendone le funzioni ricompositive – ne ha prefigurato lo sviluppo che condurrà all’intersezione delle lotte di emancipazione ed alla convergenza dei movimenti di liberazione. Un enorme panorama di lotte si apre così dinnanzi a chi voglia leggere Stato e rivoluzione proiettandone il dispositivo sul “lungo ventesimo secolo” e su quello che segue. Tutto ciò nel segno del marxismo più originario – quello del Manifesto dei comunisti.

L’antimperialismo di Lenin costituisce infatti la trama di un internazionalismo rafforzato. Vale a dire che l’internazionalismo marxiano è qui assunto da Lenin in maniera radicale: il rapporto rivoluzionario è scolpito come agency che supera i limiti di ogni nazionalismo e apre la lotta rivoluzionaria su dimensioni globali. Di nuovo uno spazio di cui il pensiero della modernità, da Kant alla Arendt, ha solo sfiorato i margini nelle pallide proposte di “pace perpetua” o di “cosmopolitismo dello spirito”.

Anche in questo caso tuttavia, da destra e da sinistra, l’internazionalismo leninista viene attaccato e il suo concetto negato. Perché sarebbe esso stesso accentratore e imperialista. Di contro, in Lenin, l’internazionalismo non è contraddittorio con il diritto dei popoli a decidere liberamente sul loro destino – non nega in nessun caso, anzi insiste per la soluzione delle difficoltà e per il superamento degli ostacoli che impediscono di dare figura istituzionale ad un popolo su un territorio, ad una nazione nel suo habitat. Non è contraddittorio questo incitamento: anzi, Lenin sollecita a costruire l’internazionalismo proprio insistendo sulla potenza delle sue componenti. Ora, non solo da destra, dall’impertinenza nazionalista che fonda la sua propria forza nella conservazione del passato, nel fanatismo dell’identità e nel razzismo, sorgerà una dura opposizione all’internazionalismo leninista, ma anche dall’interno della Terza Internazionale a guida bolscevica, quell’internazionalismo verrà spesso qualificato come inadeguato o inetto a sviluppare il programma comunista. E quel nuovo mondo che il pensiero e l’azione di Lenin avevano configurato, sarà vittima di scontri e di crisi nelle quali, con sempre maggiore evidenza, risalteranno i risvolti nazionalisti e reazionari del “socialismo in un solo paese”.

L’internazionalismo leninista ha comunque resistito a questi insulti e perversioni. Esso rappresenta ancora un momento vivo, un cuore che batte, all’interno di ogni progetto di ricostruzione di un movimento comunista. Se ci chiediamo perché, comprenderemo subito che la ragione di questa vitalità dell’internazionalismo di Lenin, consiste nel fatto che per lui “internazionale” prima di riferirsi a nazione, si riferisce ad un vettore del politico divenuto centrale nel ventesimo secolo: la soggettivazione di massa. In Lenin l’internazionalismo funziona riferendosi ad un soggetto globale, nutrendone l’immagine, sviluppandone l’impatto, la potenza. L’esperienza politica delle masse, della moltitudine sta per Lenin alla base di ogni progetto politico comunista. Internazionalismo non significa quindi semplicemente azione che abita ed articola molte dimensioni spaziali, bensì azione che le investe implicando “la coscienza, la volontà, le passioni, la fantasia di migliaia di uomini… di molte decine di milioni di uomini spronati dalla più aspra lotta di classe”. Internazionalismo significa moltitudine di soggetti rivoluzionari – ma indica anche che ogni coscienza è attivata da una moltitudine di relazioni cooperative e di passioni sovversive: soggettivazione di massa sul terreno globale di questo nostro mondo da rivoluzionare. Già in Stato e rivoluzione Lenin dunque aveva colto – quale formidabile anticipazione! – che la massa ingaggiata nel processo di liberazione dalle catene del capitalismo avrebbe messo in discussione l’esistenza stessa dello Stato, l’essenza della sovranità, il concetto di capitale. Tutto assieme sul livello globale.

 

7. Stato e rivoluzione è dunque un classico del pensiero politico. Non del pensiero politico moderno, produttore del concetto di Stato sovrano, ma di un pensiero politico che approssima con continuità l’idea dell’estinzione dello Stato, sul cui luogo si impianta una ricca produzione di istituzioni del comune.


Bibliografia
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N. Bobbio, Quale socialismo?, Torino, Einaudi, 1976.
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