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kainos

Gianluca Solla, Memoria dei senzanome

di Eleonora de Conciliis

atget notre dame

Gianluca Solla
Memoria dei senzanome.
Breve storia dell’infimo e dell’infame
Ombre corte, Verona 2013,pp. 172
euro 16,00 ISBN 9788897522577

Aprendo con una splendida analisi della fotografia di uno straccivendolo scattata da Atget agli inizi del Novecento, e utilizzando il metodo benjaminiano del montaggio – montaggio di istantanee, di affondi teorici e critici, di paesaggi urbani e spirituali – Gianluca Solla costruisce un testo di filosofia politica, ma anche, e soprattutto, un percorso di filosofia morale che ha come oggetto gli scarti umani dell’economia capitalistica: coloro che, in una triste specularità mimetica, vivono dei rifiuti di questa economia (cfr. pp. 11-16), ma anche i vinti, gli abietti, i rivoltosi che sono apparsi per un istante sulla scena della “storia dei vincitori” (Benjamin) per poi ripiombare nell’anonimo inferno della loro quotidiana umiliazione, e ai quali nessuna visione dialettico-progressiva degli eventi sembra in grado di rendere giustizia, o almeno donare l’onore del ricordo.

Eppure nella società contemporanea, malata perché completamente globalizzata (cioè satura e, per così dire, catastroficamente rosa dal verme del progresso infinito), nella “Società immaginaria” (come la ipostatizza ironicamente l’autore per significare sia la società dell’immagine sia l’immagine che la società vuole avere di se stessa) che brucia in pochi mesi, giorni, se non addirittura ore il fuoco fatuo della notorietà, tutti costoro fungono paradossalmente e inconsapevolmente da memento mori, ossia da rappresentazione vivente o non-più-vivente dell’irrappresentabile destino di rovina, consunzione e morte, che, nella forma infantilmente esorcizzata della vecchiaia, grava su tutti i membri del finto paradiso di benessere, consumo (forma feticistica della ‘consunzione’) e salute veicolato ogni giorno dall’ottuso martellamento dei media.

Senza ridursi a una disperata elegia della massa informe dei reietti che nelle bidonvilles, nelle favelas, negli slums e più in generale nelle ‘zone’ di emarginazione, costituirebbe lo sfondo inafferrabile o il serbatoio selvaggio (selvaggiamente buono) della nostra civiltà, il libro di Solla, che non è nuovo a questo tipo di indagini (cfr. ad esempio il suo Marrani. Il debito segreto, Marietti 2008) lavora piuttosto sulla lettura ‘a contropelo’ di alcuni topoi nascosti (perché troppo interni) e di alcuni classici altrettanto rimossi della storia del pensiero politico, tra i quali spicca, per la sua problematicità, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Marx1.

Se è infatti piuttosto facile essere d’accordo con il Benjamin delle Tesi o del Passagen-werk sull’intima parentela tra lo storico materialista e il cenciaio (il Lumpensammler, p. 18), che è anche l’affinità tra il flanêur elo chiffonier di Baudelaire, ovvero sulla loro comune appartenenza alla metropoli e alla disfatta dell’umano, alla misera de-composizione del concetto di umanità di cui questa è (stata) il teatro; se parimenti è doveroso riconoscere, ancora con Benjamin (ma anche con Horkheimer, che su questo tema ebbe con Benjamin una toccante corrispondenza), che l’ingiustizia subìta dai singoli non può essere hegelianamente ‘superata’ o ‘redenta’ dall’universale, e che dunque la storia, intesa come “tradizione degli oppressi”, si configura come il luogo “dove le voci dei morti incontrano il presente dei viventi” (p. 22); se insomma tutto ciò appare naturalmente inscritto nella riflessione etica sui senzanome, su coloro che Hannah Arendt chiamava ‘la schiuma della terra’, è molto più difficile misurarsi con l’analisi impietosa del Lumpenproletariat compiuta da Marx nel testo del 1852, dopo il colpo di Stato che portò al potere Napoleone III.

Qui viene al pettine il nodo più scandaloso del marxismo come visione emancipatoria dell’uomo, che sogna il ‘sole dell’avvenire’ come ricomposizione, in fondo ancora hegeliana, dei conflitti ed edificazione, in fondo ancora illuministica, della vera eguaglianza, poiché la costruzione della (coscienza della) classe eletta, il proletariato rivoluzionario, è possibile solo grazie all’esclusione di, quindi al confronto sprezzante con una marmaglia formata da ladri, prostitute, falsari, ecc., cioè con quell’obbediente, animalesca e corrotta plebe parigina che, secondo Marx, aiutò Luigi Bonaparte (dunque la borghesia capitalistica) a trasformare la storia in farsa, cioè a volgere in immobile, ripetitiva, grottesca e insensata parodia il mito dell’Impero. “Nel momento in cui Marx ed Engels ...cercano di guadagnare un’altra immagine della classe lavoratrice, devono …tentare di estrarla dal fondo indistinto delle masse popolari, devono sottrarla alla sua stessa origine plebea per destinarla a quell’avvenire glorioso che le è promesso in quanto proletariato” (p. 68). Se ogni coscienza soggettiva e ogni identità (non solo politica) è il frutto di una comparazione, per fare la rivoluzione è necessario marcare la “distanza che divide i buoni proletari dagli straccioni” (p. 28), ma anche evitare che, in termini brechtiani, la politica diventi il luogo dei gangster (come accade ne L’irresistibile ascesa di Arturo Ui).

Nella sua dignitosa povertà, Marx dovette provare “orrore” (p. 28) per la facilità con cui il popolo, senz’alcuna dignità e soprattutto senza l’ombra di quella lucida saggezza che ancora oggi gli attribuisce la sinistra, si lascia influenzare dalle promesse criminali dei potenti e “dalla propaganda cui viene sottoposto” (ibidem). Più che sollevare il problema del modello impossibile a cui la rivoluzione dovrebbe ispirarsi e dei fantasmi del passato da cui si dovrebbe liberare (cfr. pp. 29-34), la lista potenzialmente infinita e ben poco scientifica che egli compila per definire, circoscrivere e così esorcizzare il Lumpenproletariat, fotografa una malavita connivente, per non dire funzionale a ogni potere, moderno o premoderno – una brulicante e dickensiana feccia di umanità la cui forza sordida e sfuggente sembra sovrapporsi in modo quasi perverso alla debolezza e alla povertà dei vinti e delle vittime, degli ‘umiliati e offesi’ dalla storia: “Vagabondi, soldati in congedo, galeotti usciti di prigione, evasi, furfanti, imbroglioni, lazzaroni, tagliaborse, prestigiatori, bari, ruffiani, tenutari di bordello, facchini, letterati, suonatori d’organetto, cenciai, arrotini, stagnini, accattoni, in breve tutta la massa indeterminata, senza forma e fluttuante, che i francesi chiamano la bohème.” (Marx citato da Solla a p. 36)

Questo tableaux vivant di non-lavoratori, che avrebbe affascinato sia Benjamin sia, more italico, il nostro Pasolini (a cui non a caso Solla dedica il fondamentale capitolo Della plebe, pp. 131-142), sembra riflettere l’irredimibile diseguaglianza morale e intellettuale delle ‘singolarità’ umane, la loro misera fragilità commista a una sorta di scaltra crudeltà, a una stupida, ignorante e gregaria ma insieme furba, opportunistica, falsa accondiscendenza verso il potere, che costituisce la vera pietra d’inciampo della storia del marxismo – se non la causa più rimossa del suo naufragio nelle bassezze del socialismo sovietico. Perciò non è tanto la mitica purezza etico-rivoluzionaria della ‘classe’ a risaltare grazie a questa lista (cfr. p. 37), quanto piuttosto l’estensione paludosa del consenso e del conformismo che permise e permette sempre nuovamente di vincere alla mediocre “repubblica borghese”: un’alleanza di sapore proto-fascista tra “l’aristocrazia finanziaria, la borghesia industriale, il ceto medio, i piccolo-borghesi, l’esercito, il lumpenproletariato organizzato in Guardia mobile, gli intellettuali, il clero e la popolazione di campagna” (nelle profetiche parole di Marx citate da Solla a p. 39).

Da tale punto di vista, il sogno segreto dei senzanome che campano alla giornata non può che essere la lotteria (cfr. l’omonima glossa a pp. 40-41, sempre a partire Marx, che menziona quella apparsa a Parigi dopo il colpo di Stato del Bonaparte), ovvero il miraggio del denaro come vita felice che distrugge ogni lotta di classe perché rovescia come un guanto la seria aspirazione dei lavoratori proletari – perché illude di vincere in un attimo ciò che la società senza classi promette di costruire in un vago futuro messianico. È questo, nel discorso di Solla che vale la pena riportare per intero, il punto d’innesto della deriva del lavoro, e dunque della scommessa, nel processo (im)produttivo del capitale: 

“L’illusione della lotteria riguarda la cancellazione delle effettive condizioni di vita e di lavoro, in particolare delle classi povere. Tuttavia, come la farsa della lotteria, anche la potenza della macchina capitalistica si mantiene promettendo futuro, per esempio il futuro valore della moneta. La sua potenza non consiste solo nella produttività; la seduzione che da essa promana riguarda la capacità di promettere il futuro. Così la macchina da produzione e la lotteria si assomigliano più di quanto non si dica. Entrambe si obbligano in promesse che non possono mantenere, se non come farsa ossia come mantenimento di un inganno che (si) tiene in vita. […] Il cultore della scommessa anonima accarezza il sogno di un cambiamento radicale della propria vita da ottenersi a buon mercato. Più che il dispendio sottoproletario e bohème, qui si coltiva …una trasformazione tutta privata. Soprattutto si coltiva un’occasione […] nientemeno che l’occasione di non vincere. [Essa] si acquista per pochi soldi …ma coltivando il sogno di un cambiamento radicale nella propria vita. È l’occasione di non cambiare davvero nulla, di mantenersi in una sconfitta che si sa o che si ha familiare in tutti i sensi. Giocata dopo giocata, è il proprio inganno che si compra. È il mistero di questa scommessa: alimentare il desiderio della vincita come una fuga sempre rimandata dalla propria vita attuale. […] Per mezzo della promessa scintillante della lotteria, è la vita stessa che s’inabissa in una lontananza sconfinata, perché quella attuale non sarà mai altro che il pallido fantasma dell’introvabile Vera Vita, assicurata come premio dalla lotteria. [Essa] non promette infatti altro che questo, l’accesso a ciò che resta altrimenti inaccessibile, l’accesso a ciò che lei stessa allontana nella sua inaccessibilità. […] Il possesso di un biglietto assume su di sé la potenza simbolica che è del denaro, moltiplicandola per mille, mediante l’aspettativa che la lotteria suscita. A questa prossimità con il capitalismo, sorprendentemente, Il 18 Brumaio pare non interessarsi. Eppure… la lotteria traduce la speranza propriamente capitalistica della possibilità di un veloce arricchimento personale. Banconote e biglietti di lotteria sono gli elementi di una religione civile, in cui il rischio accresce paradossalmente la fiducia nei meccanismi di guadagno e di arricchimento.” (pp. 40-41).

È chiaro che Marx non poteva ancora cogliere appieno la forza alienante (in senso clinico) di quest’associazione tra denaro e scommessa: egli ha vissuto in un’epoca, quella della rivoluzione industriale, in cui veniva costruita l’etica del lavoro come unica possibile forma di identità sociale (“Avere un lavoro, questa è la vera retribuzione”, p. 88) – in fondo il suo stesso pensiero ha contribuito a edificarla, seppur attraverso la cifra della lotta di classe come rovesciamento rivoluzionario dei rapporti di produzione e delle condizioni ‘alienate’ del lavoro (cfr. “l’inganno del lavoro come mezzo di emancipazione dal capitalismo”, p. 54). Non a caso nel secolo successivo a quello di Marx, ossia nel Novecento, come ha scritto lucidamente Imre Kertész nel passo testimoniale riportato dall’autore, “il lavoro ha livellato tutto (Auschwitz e la Siberia, per fare degli esempi estremi): il lavoro è l’unico dio funzionante ed efficace che l’umanità, in maniera velata o apertamente, sostiene in modo unanime come fosse un nuovo Moloch e che impregna radicalmente la sua vita morale. La morale del lavoro ha emarginato ogni altra morale” (Diario dalla galera, citato da Solla a p. 75).

Ora, nel XXI secolo, tutto questo è finito, senza però inaugurare un’età di liberazione dal lavoro, dalla miseria umana implicata nel lavoro e persino nella sua assenza (la disoccupazione), dalla ‘animalizzazione’ (in senso arendtiano) che il lavoro porta con sé; piuttosto, e benché venga ancora a parole sacralizzato, ci troviamo oggi di fronte a una svalutazione ludica del lavoro, che coincide con la sua scomparsa nel denaro – dacché, come Marx aveva ben compreso, “il bisogno di denaro è l’unica cosa che non [viene] mai meno: l’unica che non si consumi” (p. 76). Dopo i tentativi novecenteschi (piuttosto fallimentari, col senno di poi: si pensi a quelli, ricordati dallo stesso Solla, di Lenin e Mao, cfr. pp. 46-48; 55) di guadagnare il Lumpenproletariat alla rivoluzione, cioè dopo la dittatura di una classe su tutte le altre paventata da Bakunin (cfr. pp. 49-51), noi viviamo in un’epoca che ha ormai consumato, mandato letteralmente in rovina il mito identitario del lavoro e di conseguenza quello storico-politico della rivoluzione. Il che non ha affatto riabilitato la forza anarchica della rivolta, poiché sia il sollevamento istantaneo e violento, sia la lenta costruzione del socialismo che gli ha fatto da contrappunto nel corso del secolo, sono stati appunto relegati nella dimensione mitica ma poco attraente del passato, di ciò che è sor-passato, antiquato (in cui trova posto anche l’uomo di Anders, cioè l’umanesimo marxiano), mentre il presente sembra occupato da una gigantesca macchina ludica e infantilizzante che fornisce a tutti gli individui, indistintamente (ché le classi, con la loro vecchia dialettica del riconoscimento, si sono ormai dissolte, dis-ordinate e decostruite come l’identità sociale che un tempo veicolavano), l’occasione della lotteria: non costruir(si), non lavorare, ma sognare di vincere, quindi di vivere e di godere.

In virtù di tale meccanismo psicosociale, cui si associa la riduzione della politica a governance di brevissimo termine e respiro, il nobile passato sconfitto evocato da Solla (dalle Black Panthers alla Lega di Spartaco) non ‘lavora’ benjaminianamente nel presente come memoria dei vinti, dei morti, dei senzanome, ma al contrario viene distrutto e vanificato, se non ridicolizzato, quanto più appare museificato con inesorabile velocità – viene meno, in altre parole, la forza etico-politica della sconfitta come testimonianza ed esigenza di giustizia (cfr. pp. 106 e sg.). Poiché l’uterina Società immaginaria nella quale viviamo non si fonda più sul lavoro (neppure su quello intellettuale), essa non ha più paura del sotto-proletariato informe come del suo selvaggio ‘fuori’, ma lo produce come il suo più manipolabile e redditizio ‘dentro’, come il suo molle ventre plebeo – si pensi al recente film Reality di Matteo Garrone, ma anche alla mondana Grande bellezza o, che è lo stesso, alla oscena bruttezza del disfacimento morale, alla decomposizione della Società immaginaria magistralmente rappresentate da Paolo Sorrentino.

Tale esito (im)produttivo suggerisce che il Lumpenproletariat, sia esso moderno o surmoderno, più che come la promessa di una solidarietà morale tra le diverse generazioni di vinti, possa funzionare nell’apparato psico-politico dell’Occidente come la freudiana pulsione di morte: come il senzasenso, più che il senzanome, in grado di “deborda[re] i canoni della rappresentazione politica” e quindi vanificare l’utopia dell’“orizzonte a venire” con cui si è cercato di “proteggere la vita dalla tentazione di distruggersi” (pp. 58-59). È questo, forse, l’“irreparabile” di cui parla Solla: le vite alla deriva che lo “portano inscritto sul volto” non sono più quelle dei diseredati, dei miseri, degli esclusi, ma le nostre, nella misura in cui ad andare alla deriva è il nesso capitale-lavoro, che per almeno tre secoli aveva coperto il vuoto, la “disfatta” su cui era stato edificato e che “si situa nel punto in cui ci scopriamo essere non in una posizione di assoluta alternativa nei confronti del reale (del capitale, del consumismo, etc.), ma già da sempre variamente implicati e confusi con tale realtà” (p. 60).

In tale ottica, i Lumpen non portano con sé nessuna “potenza segreta” (p. 61), nessuna elettiva umiltà creaturale (cfr. pp. 114-120), nessuna bontà innocente e selvaggia, nessuna “latenza” dell’arcaico (cfr. p. 135 e sg.): i Lumpen siamo noi.

Una volta profanato il sacro canone identitario del (mercato del) lavoro, una volta finita la possibilità di distinguere moralmente tra poveri e fannulloni, tra disoccupati e scioperati, gli individui en masse si aggrappano all’incanto della lotteria: la deriva del capitale coincide con la sua metamorfosi ludico-nichilistica, nella quale l’ozio (pardon, il lavoro) intellettuale, in primis quello filosofico, viene giudicato inoperoso e improduttivo come quello criminale, perché a differenza della libido, che si può sempre commercializzare, non produce alcun plusvalore (cfr. p. 79): non ha mercato nel gioco in cui il mercato si è trasformato. Il lato tragico della faccenda è che ciò accade proprio in concomitanza con il divenire-normale del pauperismo (qualcuno direbbe: con l’estinzione economica del ceto medio nella precarietà), che riflette la “consunzione letteralmente irreparabile” (cfr. p. 77) della Società immaginaria, fondata sull’immaginaria dignità conferita dal lavoro ma anche, a sinistra, sulla sua immaginaria creatività, umanità e libertà – poiché da Hegel a Marx e oltre, il lavoro libero e creativo è stato visto come l’essenza (Wesen) dell’uomo: un’essenza storica, certo, instabile e mai definitivamente appropriabile come ‘natura umana’ (cfr. p. 82 e 130), ma pur sempre costruibile e futuribile.

Se Marx metteva l’uomo alla fine della pre-storia e all’inizio della storia a venire, la lotteria postmoderna smaschera questo mito proletario e insieme piccolo-borghese: essa non soltanto annienta il tempo soggettivo della costruzione, senza il quale il lavoro perde ogni senso e diviene ‘alienazione’, ma soprattutto rende visibile l’inesistenza di un “comune” “libero gioco delle vite e delle relazioni” che sarebbe stato brutalmente assoggettato “alla ferrea necessità dell’ordine e del consumo” (p. 83, cfr. anche p. 113). In altri termini, proprio perché “l’umanismo” rappresenta l’“ultima e più resistente delle finzioni che legittimano il potere biopolitico della contemporaneità”, non gli si può opporre “la realtà di una comunanza delle vite singolari” (p. 169), che in sé, esattamente come l’uomo, non esiste.

Sfruttando al massimo la ferrea necessità del consumo ma anche il mito di ‘singolarità’ dotate di un valore intrinseco (‘perché io valgo’ è divenuto il loro slogan), il capitalismo della scommessa si annuncia insomma come la deriva ironica del lavoro e persino della ‘comunità inoperosa’ (secondo la pregnante espressione di Nancy), in cui, ad esempio dal punto di vista spaziale, non vi è più separazione tra quartieri borghesi e ‘zone’, non vi è più “guerra di classe” (cfr. pp. 84-104) se non in forma di parodia – di farsa –, poiché si assiste a un’immensa, infernale proliferazione dei non-luoghi del gioco (Las Vegas) e dei Lumpenspieler che vi si aggirano come spettri. Rispetto a quelle raccontate da Foucault, e non a caso emerse dal XIX secolo come rovescio dell’etica del lavoro, sono queste le nuove, banali ‘vite degli uomini infami’ del XXI – non soltanto nel senso giuridico di infimi, poiché esprimendosi nel convulso e gergale balbettìo dei consumatori-giocatori gli uomini divengono muti in-fanti incapaci di accedere alla parola pubblica (cfr. pp. 123-128), cioè alla politica, quanto nell’antico senso malavitoso di ‘traditori’, di schiavi che non rispettano alcun codice d’onore e restano completamente assoggettati alla stupida normalità del gioco e del consumo.

Dunque, se il “popolo” non esiste (cfr. p. 142) se non come parodia di se stesso, la “parte dei senza parte” (Rancière) è stata completamente colonizzata dal capitalismo della scommessa; la sua presenza latente, lungi dal costituire uno scandaloso rifiuto, un’aristocratica, animalesca o comunque anarchica resistenza alla “macchina del consenso e del conformismo” (p. 139), le è divenuta manifestamente solidale, come lo fu la plebe parigina nei confronti di Luigi Napoleone. Parlando il linguaggio dominante, essa tende inconsciamente a “neutralizzarsi come istanza di rivendicazione politica” (p. 165), e con tutti i suoi eccessi, il suo kitsch, la sua arretratezza e la sua ignoranza, si lascia oggi “disporre, ordinare, apparecchiare convenientemente” (p. 139) dalla cultura radical chic, che la esalta, la blandisce e forse, segretamente, la invidia. Se “di questa immensa deviazione, di cui le generazioni …sono rimaste ostaggio, testimonia nella nostra epoca un’umanità indotta che cerca rifugio in una storia senza eventi, senza altri eventi che non siano quelli fittizi e spettacolari che restituiscono una realtà esangue” (p. 153), allora al di fuori dell’altrettanto esangue spazio politico istituzionale della rappresentanza sembra non esservi alcuna ‘singolarità’ in grado di “farsi valere come rivendicazione” (p. 168). In termini foucaultiani molto eterodossi, nelle nuove generazioni di consumatori-giocatori, che sulla falsariga marxiana ho definito Lumpenspieler, la resistenza non si forma se non come farsa, da cui è assente sia il potere come testa contro cui scagliarsi, sia la massa in grado, se non di autogovernarsi, di attentare almeno al fantasma dello Stato. E mentre i senzanome, i “senza parte” delle rivolte o insurrezioni istantanee, ribellandosi e mettendosi totalmente in gioco non avevano niente da perdere, se non proprio la loro “qualità indocile” di perdenti (cfr. p. 151), nel nuovo gioco a somma zero della lotteria costoro non ritornano neppure come fantasma rimosso, perché a fare la rivoluzione, qui ed ora, ci sarebbe da perdere l’illusorio ‘tutto da guadagnare’ che è la lotteria stessa – il fantasma della vita.

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Note
1 K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte,trad. it. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 2006

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