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Fare debito è di sinistra?

di Marco Bertorello e Danilo Corradi

Anche le forme dell'indebitamento hanno un segno di classe, riflettono i rapporti di forza. Quelle di questi anni hanno accresciuto le disuguaglianze

debito jacobin italia 1536x560.jpgDipende. Non intendiamo, con il pretesto di una provocazione, ribaltare il senso delle cose come fecero Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ascrivendo il liberismo al campo della sinistra in un celebre libro, ma provare a fare qualche riflessione sugli ultimi decenni.

Per ragioni anagrafiche chi scrive è cresciuto in uno schema del dibattito politico abbastanza consolidato. Da una parte le politiche europee vocate al «rigore» di bilancio, cementate dal trattato di Maastricht firmato il 7 febbraio del 1992, dall’altro l’opposizione alle politiche di austerity portata avanti dai movimenti sociali, da alcuni settori sindacali radicali, poi dal movimento antiglobalizzazione e dalla sinistra politica antiliberista che lo appoggiava (e di cui chi scrive faceva parte attivamente). Un’opposizione che via via si è allargata a forze politiche e intellettuali crescenti, seppur contraddistinte da tonalità differenti. Le ragioni dell’opposizione erano semplici: le politiche di austerity bloccavano la spesa sociale e gli investimenti pubblici, comprimevano diritti e riducevano il salario indiretto. Molti riproponevano un tradizionale e generico orientamento keynesiano, una politica in deficit spending che avrebbe permesso maggiore redistribuzione, ma anche maggiore crescita, che avrebbe ripagato (almeno in parte) il deficit iniziale.

La cosa interessante di questo schema politico sta nel risultato a trent’anni di distanza. Un risultato che ha il gusto forte del triplo paradosso.

 

I paradossi dell’austerity

Le politiche di austerity, pur imposte spesso con violenza (si pensi alla Grecia e ai tanti «piani di salvataggio» coordinati da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) hanno prodotto… un’enorme crescita dei debiti pubblici. I parametri di Maastricht oggi non sarebbero rispettati da nessun paese demograficamente rilevante dell’Unione europea, compresa la Germania, che rimane in ogni caso un’anomalia in un quadro che vede la maggior parte dei paesi economicamente forti superare il 100% del rapporto debito/Pil. Insomma, l’austerity non è stata austerity se la guardiamo dal lato dei risultati, i deficit ci sono stati, a partire dalla crisi della «New Economy» nel 2001, poi radicalizzati dopo la crisi dei mutui subprime iniziata nel 2007 e infine con il Covid e l’attuale crisi geopolitica. Da una parte è stato duro comprimere la spesa oltre un certo limite, altrettanto lo è stato far superare le entrate dalle uscite senza compromettere il consenso o la già non travolgente crescita. L’Italia, che arrivava con un debito pubblico superiore al 100% a cavallo del nuovo millennio, registra oggi valori prossimi al 143%. Difficilmente si può sostenere che sia stata praticata un’austerità coerente ed efficace. Una dinamica strutturale, non derubricabile a incidente di percorso o a cause puramente esogene. Il secondo paradosso è che questo enorme debito pubblico accumulato a livello mondiale, associato a politiche monetarie ultra-espansive, non ha prodotto crescita e non si è ripagato da solo. La media mobile a 5 anni delle variazioni del Pil italiano ci dice che nel 1963 la crescita era del 6%, nel 1973 del 3%, nel 1983 dell’1,5%, nel 1993 dell’1,1%, nel 2003 dell’1%, nel 2013 -0,6%, per poi oscillare nei dieci anni successivi tra -1% e +1%. Negli altri paesi europei paragonabili c’è stata maggiore crescita mediamente dai Novanta in poi, ma la tendenza alla frenata è simile, con una certa convergenza dal 2009 in poi.

Il terzo paradosso, forse il più interessante di tutti, è che, nonostante la crescita imponente dei debiti pubblici, la disuguaglianza a livello mondiale e nazionale è aumentata. L’Italia rappresenta un caso particolarmente emblematico. In una recentissima ricerca, che costituisce una radiografia sulla ricchezza degli italiani, Banca d’Italia afferma che tra il 2010 e il 2022 la ricchezza complessiva del 5% più ricco è passata dal 40 al 46%. Mentre la metà più povera degli italiani ne detiene solo l’8%. L’ultimo rapporto Oxfam sulle diseguaglianze afferma, inoltre, che nel 2022 l’1% più ricco detiene il 23% del patrimonio netto del paese e rappresenta ben 84 volte il patrimonio del 20% più povero.

In sintesi, abbiamo avuto un’austerity che ha prodotto crescita del debito pubblico, abbiamo avuto debito e politiche monetarie espansive senza crescita, la crescita del debito ha viaggiato in parallelo con la crescita della disuguaglianza. Se ci atteniamo ai risultati, quindi, fare debito pubblico in questo caso non è stato di sinistra, anzi.

 

Un’austerity asimmetrica

Lo schema nato negli anni Novanta si è trasformato sotto i colpi dell’instabilità economica e finanziaria. L’austerity più che una linea di politica economica coerente e complessiva è diventata un dispositivo di disciplinamento politico asimmetrico e intermittente. La spesa sociale è stata compressa (dalla sanità alla scuola, dagli investimenti pubblici alle pensioni), il patrimonio statale è stato spolpato in nome di «necessarie entrate straordinarie» (leggasi privatizzazioni), ma quando l’instabilità finanziaria mordeva profitti e rendite sono stati sostenuti in nome del necessario salvataggio del sistema. Il meccanismo è cominciato con l’incredibile serie di crisi che dagli anni Novanta hanno ripetutamente sconquassato il globo (Svezia, Giappone, Messico, Tigri asiatiche, Russia, Brasile, Argentina, New Economy per citare le più rilevanti) fino alla grande recessione del 2007-2009. Da quel biennio i salvataggi si sono moltiplicati secondo il principio diventato esplicito e inaggirabile del too big to fail (troppo grandi per fallire). Dopo anni in cui era difficile solo ipotizzare il minimo incremento di spesa per la sanità o la scuola pubblica, la Fed, la Banca centrale statunitense, dal 2007 al 2010 fece interventi di prestiti agevolati per complessivi 4.450 miliardi di dollari, a cui si aggiunse il piano Tarp da oltre 700 miliardi varato da Obama per salvare il sistema finanziario. L’economista Adam Tooze nel suo Lo Schianto ha indicato in 2.400 miliardi a livello mondiale l’insieme d’interventi di semplice salvataggio. Un deficit sociale considerato impossibile per due decenni divenne improvvisamente urgente e razionale per salvare la finanza.

L’austerity diventò una prospettiva asimmetrica, rigorosa e inaggirabile quando si parlava di salari (diretti e/o indiretti che fossero), flessibile e accomodante quando si parlava di fallimenti del capitale. Profitti e rendite private sono state in questi decenni tassate sempre di meno per via della competizione fiscale tra gli Stati e la capacità di aggiramento normativo delle multinazionali e dei fondi d’investimento, ma quando i profitti si sono trasformati in perdite allora il problema è diventato pubblico, così come il debito privato, in quanto grandi aziende e istituti finanziari, si è affermato, «svolgono di fatto una funzione sistemica». Anche così può spiegarsi una crescita dei debiti pubblici in presenza di una riduzione della spesa sociale, che solo durante la pandemia ha vissuto una parentesi di necessaria e momentanea controtendenza.

La crescita mondiale del debito pubblico, in particolare dal 2007 in poi, è stata innanzitutto espressione di una socializzazione del debito privato che, a partire dai paesi anglosassoni, è andato crescendo dagli anni Ottanta, accelerando nei Novanta e nei Duemila. Un debito privato gonfiatosi dentro la centralità pervasiva della finanza. Nei decenni successivi alla crisi dei Settanta, si è andato affermando ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario e privatizzato, dove la crescita dei corsi finanziari e di asset di varia natura, ha generato un effetto ricchezza che ha progressivamente svolto un ruolo sistemico di sostegno alla domanda, agli investimenti e all’indebitamento, pur determinando una sempre maggiore fatica a generare crescita e una sempre maggiore disuguaglianza patrimoniale e reddituale. Un effetto ricchezza costruito sull’espansione della leva da parte del sistema bancario, sul debito privato di un sistema finanziario sempre più composto da posizioni speculative (e ultra speculative), descritte prima ancora dell’esplosione della crisi dall’economista statunitense H.P. Minsky. Un debito privato che ha sostenuto i profitti dal lato finanziario, generando capitale fittizio, e dal lato produttivo, permettendo la tenuta dei consumi in presenza di una stagione di forte «moderazione» salariale

 

Un socialismo per ricchi

In questo quadro possiamo definire il recente debito pubblico una sorta di socialismo per ricchi, che come un Robin Hood al contrario è espressione di risorse tolte ai meno abbienti e messe a disposizione dei ricchi. La riduzione dell’imposizione sugli alti redditi e sul capitale, l’aumento dei fenomeni di elusione ed evasione fiscale delle grandi multinazionali, il sostegno attivo a carico della fiscalità generale del sistema finanziario dal 2007 in poi, sono gli esempi più macroscopici di tale tendenza. A ciò si deve aggiungere il flusso di denaro che passa dalla fiscalità generale alla rendita sotto forma di pagamento degli interessi: il debito pubblico è un costo per tutti, ma una bella rendita per pochi.

Dal Covid-19 alla crisi della globalizzazione, il principio too big to fail è stato esteso al too strategic to fail. Con il ritorno in grande stile della guerra e della geopolitica con la G maiuscola, la spesa in deficit non solo si è legittimata per «salvare il sistema», ma anche per competere in un contesto mondiale sempre più diviso in blocchi e aree geografiche. Salvare o sostenere un’azienda o una banca nazionale, anche a prescindere dal suo ruolo sistemico, è diventato di «vitale importanza» al punto da sospendere, formalmente o di fatto, le tanto decantate politiche di bilancio in pareggio. Un caso esemplare è stato quello della Silicon Valley Bank negli Stati uniti, istituto che non ricopriva certo una funzione sistemica paragonabile alla Lehman Brothers, ma che andava salvato comunque onde evitare nuovi problemi di stabilità interna e continuità aziendali, dentro un quadro di fragilità permanente. La funzione strategica in questo modo subentra e si aggiunge a quella sistemica rintuzzando ulteriormente l’interventismo per salvare un mercato incapace di autoregolarsi. In Europa c’è stato il corrispondente dibattito sugli aiuti di Stato che ha ripercorso questa dinamica anche se in un rapporto più complesso con il rilancio del Patto di stabilità e i dispositivi di disciplinamento interni all’Unione europea. In questo caso esiste un faticoso equilibrio da mantenere tra presunti paesi formica e cicala. I primi intervengono e vogliono continuare a intervenire con il proprio bilancio pubblico per sostenere l’economia, riuscendo in qualche modo a non perdere il controllo del debito, magari sfruttando commercialmente l’indebitamento altrui, e al contempo temono che i secondi approfittino dell’ombrello europeo per indebitarsi in misura sempre maggiore. Ma dentro questo conflitto la sostanza non cambia, il debito pubblico è sempre più il risultato di un crescente e ciclico sostegno ai ricchi e ai loro investimenti a spese di tutti.

 

Questione di rapporti di forza

La tesi che qui vogliamo sostenere, dunque, è che indebitarsi non è necessariamente un’opzione coerente con lo stare a sinistra (ammesso che il termine mantenga ancora un senso compiuto, ma usiamolo per semplificare e cercare di intenderci). Ciò che è avvenuto, in barba ai principali dogmi monetaristi, i quali hanno solitamente sostenuto, da Friedmann in poi, che per non avere inflazione e crescita dei prezzi è necessario tenere sotto controllo l’offerta di moneta e il debito, è stato proprio un aumento mai visto in precedenza di moneta e debito. I monetaristi, a partire dagli anni Settanta, criticavano il keynesismo perché la ricerca della crescita tramite spesa in deficit generava inflazione e poca crescita, ma alla fine governi e banche centrali ispirati alle loro teorie hanno finito per ottenere meno crescita e più debito (pubblico e privato) delle politiche che criticavano, seppur in un contesto ormai assai differente, in nome del necessario salvataggio di un sistema finanziario sempre più ingolfato.

Ciò che è cambiato è che il deficit pubblico, invece di ricercare la piena occupazione, è stato utilizzato per accrescere potere e reddito dei più ricchi, finendo in larga parte per dilatare le diseguaglianze affermatesi proprio con la fine del keynesismo in nome di un primato del profitto che si è rivelato mortifero da tutti i punti di vista. Per guardare quel che è accaduto bisogna, dunque, scrollarsi di dosso vecchie impostazioni che consideravano il debito uno strumento a prescindere per aiutare l’economia e, nelle versioni di sinistra, ridurre al contempo le diseguaglianze. Su quest’ultime si tratta anche di riesumare un vecchio adagio, quello sì storicamente di sinistra, che ci pare sempre valido. Riteniamo, infatti, che siano i rapporti di forza tra le classi, nella società, a determinare l’evoluzione di alcune politiche o di determinati provvedimenti. Se come ricordano diversi super-ricchi la lotta di classe c’è e la stanno vincendo loro, l’indebitamento ha subito una torsione di funzione nella direzione di avvantaggiarli, creando le condizioni per realizzare continui e crescenti surplus di rendite e profitti.

Ciò che risulta abbastanza chiaro è che l’indebitamento pubblico e privato non ha consentito il fiorire di uno sviluppo di lungo periodo, strutturale. Il dato che dovrebbe far riflettere negli ultimi anni è quello che spesso i deficit statali sono stati multipli dell’aumento del Pil realizzato. In particolare in paesi come l’Italia. Sintomo evidente che non si era innescata una spinta autonoma nella crescita economica. Va detto che la fase economica che stiamo vivendo è caratterizzata in generale da una tendenziale saturazione dei mercati, bassa crescita della produttività, super-competizione, che hanno determinato un quadro decisamente instabile e difficile da invertire. Basti pensare alla modesta crescita nel ciclo avviato con l’introduzione della rivoluzione digitale. A cui va aggiunto il ritorno della centralità della geopolitica con il suo portato di protezionismi nazionali e macroregionali.

E se l’indebitamento, anziché servire principalmente a sostenere profitti e a rattoppare le falle del debito privato, fosse stato impiegato in infrastrutture e a favore di quei soggetti che dispongono di una maggiore propensione al consumo? Le cose sarebbero andate/potrebbero andare diversamente? Non sappiamo rispondere con certezza a questa domanda, ma chiaramente un cambiamento di questo tipo presupporrebbe una svolta profonda di politica economica capace di rompere con il modello precedente, ridimensionando la trazione e il ruolo della rendita finanziaria dell’attuale sistema di accumulazione. Una svolta complessa, anche perché necessiterebbe di un coordinamento internazionale o almeno macroregionale. Una politica di spesa fortemente espansiva fatta su base nazionale in un contesto d’interconnessione economica molto profonda, sarebbe perdente. Gli oneri di spesa sarebbero tutti a carico del singolo Stato, mentre i vantaggi espansivi verrebbero in buona parte esportati con ricadute negative sul piano fiscale. L’ipercompetizione e la deglobalizzazione selettiva, più che ricostituire il quadro geopolitico dei Trenta gloriosi, spingono verso una nuova fase d’instabilità che non sembra favorire ipotesi di nuovi New Deal internazionali, ma un protezionismo tutto difensivo e complessivamente perdente.

 

Cambiare il segno delle politiche monetarie

Riepilogando, dunque, il crescente indebitamento di questi ultimi decenni è stato sistemico, ha approfondito le diseguaglianze, non ha certo favorito sviluppo e redistribuzione della ricchezza. Un uso del debito pubblico che ha consentito l’affermazione di un socialismo per ricchi. Quest’ultimi hanno visto decisamente accrescere i propri patrimoni e ora il peso dell’indebitamento graverà prevalentemente sul lavoro dipendente e le classi popolari in genere. Significativo è il dato fornito da uno studio Ubs-Pwc: nei soli 6 mesi da aprile a settembre del 2020, cioè in piena pandemia, quando i debiti pubblici globali schizzavano, i supermiliardari hanno accresciuto la propria ricchezza complessiva del 27,5%. Una fotografia dell’uso di risorse pubbliche a fini del tutto privati e ristretti.

Al di là, quindi, delle incertezze teoriche e pratiche sulle potenzialità di politiche di natura neokeynesiana si tratta di comprendere le forme dell’attuale indebitamento, il loro inconfondibile segno di classe. Per costruire un nuovo punto di vista, delle classi vittime di questo andamento, propedeutico alla costruzione di nuovi rapporti di forza nella società innanzitutto. Provando a cambiare il segno anche delle politiche monetarie dominanti. Nel pieno del quantitative easing adottato dalle principali banche centrali avevamo proposto che vi fosse necessità di un quantitative easing for the people. Invertire il senso anche delle scelte monetarie non convenzionali, per rilanciare interessi e bisogni sociali delle classi subalterne dentro un ripensamento più complessivo delle politiche economiche. In quel frangente era utile sottolineare come le risorse finanziarie all’occorrenza si potessero trovare (e qualcuno rapidamente le trovava), e come potessero essere indirizzate altrove. Esiste, poi, una questione fiscale, ben esemplificata recentemente dall’isteria con la quale è stata contrastata, al punto da esser svuotata, l’ipotetica tassa sugli extraprofitti delle banche. Per poi semplicemente scoprire gli utili record registrati dal settore nel 2023. C’è un problema di risorse da drenare dove esistono, dove vi sono grandi concentrazioni di ricchezza, e che al momento risultano intoccabili, ripensando un sistema fiscale non più basato principalmente sui redditi da lavoro e imposte indirette. Ma non basta. Il problema non è solo redistributivo, ma d’indirizzo complessivo.

Occorre rilanciare il ruolo del pubblico, un pubblico diverso dal passato, capace di andare in direzione di larghi bisogni sociali, all’altezza delle sfide economiche ed ecologiche del futuro che il privato non sembra in grado di affrontare. Bisogna immaginare una conversione economica abbinata a una giustizia sociale senza la quale la svolta ecologica sarà in larga parte insufficiente o addirittura fittizia. Serve una prospettiva che non sia tirare a campare osservando la crescita delle contraddizioni geopolitiche e sociali. Un orizzonte non semplice, ma meglio una strada impervia che la miseria di questo socialismo per ricchi senza prospettiva.


*Marco Bertorello e Danilo Corradi collaborano con il manifesto. Insieme hanno pubblicato Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023). Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, Danilo Corradi insegna filosofia e storia nel liceo di Tor Bella Monaca di Roma.

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