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La terapia del governo è tutta sbagliata

Paolo Andruccioli intervista Paolo Leon

Intervista all’economista Paolo Leon. La crisi parte dalla finanza, ma è una crisi di domanda. È necessario ripensare il sistema produttivo. Gli interventi sociali del governo creano clientes elettorali ma non garantiscono diritti. È beneficenza pubblica

re sola 300x252Fare presto e soprattutto fare cose diverse da quelle che sono state fatte finora. Superare i tabù che hanno bloccato il pensiero economico e condizionato la sinistra. La settimana corta? Va bene, ma redistribuisce solo la disoccupazione. Le tasse ai redditi oltre i 150 mila euro? Bene, ma sono redistribuzione del reddito. Qui ci vuole una proposta forte che rivaluti il ruolo dello Stato e dell’economia pubblica. Bisogna assolutamente aumentare i redditi dei lavoratori.Anche le banche devono rendersi conto che non sono aziende come le altre: sono un servizio pubblico come i tram. E poi c’è l’Europa che deve cambiare il suo modo di affrontare i problemi del deficit (deve essere la Banca centrale a finanziare il deficit). E poi c’è Obama che chiede un incontro all’Europa e al Giappone. Paolo Leon, economista keynesiano della prima ora, ci fornisce le sue ricette contro la crisi. E ci parla di un governo – quello di Berlusconi – che non c’è. . “Il vero segreto per uscire dalla crisi? Far produrre ciò che non costa niente,ovvero che c’è già ma non produce”. Sbagliate anche le proposte sulle pensioni e sullo scambio tra allungamento dell’età e ammortizzatori sociali.


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Allora professore cominciamo dagli aiuti introdotti dal governo Berlusconi per le fasce più povere. Che ne pensa?


Leon Per chi riceve, questi aiuti sono efficaci. Il problema è la filosofia che li rende transeunti, frutto di una sorta di beneficenza pubblica e non espressione di un diritto come sarebbe il reddito minimo garantito. Sono misure che creano i clientes del governo e che per questo lo voteranno.

Del resto il bonus e le altre misure sono state pensate con questo scopo. E’ carità pelosa.


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E per quanto riguarda le proposte sul lavoro e l’occupazione, tipo la settimana corta?


Leon Tra gli strumenti ci sono anche i contratti di solidarietà, di varia natura, compresa la settimana corta. Naturalmente la settimana corta preserva il lavoro, preserva l’azienda. Ma nello stesso tempo la misura riduce il reddito percepito. Quindi non è una misura contro la crisi. Dal punto di vista della recessione, evita che si approfondisca.


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Il governo americano è intervenuto con prestiti alle banche. Anche da noi ci sono gli aiuti, ma non si fa nulla per i redditi da lavoro; sembrano misure senza prospettiva. E’ un cane che si morde la coda?


Leon Non siamo nella condizione americana. Almeno spero. In ogni caso con la settimana corta si abbassa il reddito, ma nello stesso tempo si costruisce una specie di pavimento per la crisi. Perché è meglio la settimana corta che la disoccupazione. Ma a ben vedere, se vogliamo andare fino in fondo, questa misura – se fosse generalizzata – sarebbe una redistribuzione della disoccupazione. E tutto sommato, sempre se fosse generalizzata, sarebbe una misura socialmente accettabile. Ma non è generalizzabile; si può attuare solo in alcune parti del sistema produttivo. Si può quindi verificare, attraverso questo tipo di interventi, una ulteriore divisione del mondo del lavoro tra coloro che possono mantenere il posto lavorando metà della settimana e coloro che invece non possono. Quindi, si dovrebbe intervenire dal lato della normativa. generando una sorta di obbligo alla settimana corta, ma credo che realisticamente questo non potrà avvenire.


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Il segretario generale della Cgil, Epifani, ha rilanciato la proposta sulla tassazione dei redditi oltre i 150 mila. Che cosa ne pensa?


Leon Distinguerei. Intanto in epoca di crisi e di crisi di domanda (anche se l’origine è finanziaria), qualsiasi intervento pubblico, di qualsiasi natura, non deve avere copertura, perché se ha copertura se ne annulla l’effetto sul reddito nazionale. Da questo punto di vista, sostenere un beneficio ai redditi più bassi aumentando le tasse sui redditi più alti, ha un significato distributivo, ma non serve a combattere la crisi. Se questo permette allo Stato di spendere di più, allora va bene, ma se si immagina che l’aumento della imposta serva a controbilanciare l’aumento della spesa pubblica, allora è una misura sbagliata. Bisogna tassare i redditi più alti per dare più risorse allo Stato in modo che non solo si attui una redistribuzione, ma si facciano anche tante altre operazioni per tentare di uscire dalla crisi. Si potrebbero anche non tassare per niente i redditi più elevati, se avessimo il coraggio di capire fino in fondo che questa crisi non è una semplice crisi finanziaria. Questa è una crisi di produzione. Quindi c’è disoccupazione, c’è crisi di macchine, di uomini, di terreni, insomma di tutto ciò che è potenzialmente produttivo, ma che non produce. Farlo produrre non costa niente: c’è già. E’ questo il vero segreto per uscire dalla crisi: far produrre ciò che non costa niente. Detto questo, è utile precisare che la solidarietà era necessaria anche prima della crisi. Ma i governi – anche quelli di centro sinistra – non sono stati in grado, da un lato, di tassare le rendite finanziarie, e dall’altro di modificare la progressività dell’imposta, perché hanno aumentato l’aliquota dei redditi più elevati, ma non hanno abbassato quella sui redditi più bassi, commettendo l’errore politico più grande. Con i distinguo che ho fatto, ha ragione Epifani: si può benissimo fare questa operazione.


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Queste sono le proposte in campo, ma qual è secondo lei l’origine e la natura della crisi?


Leon E’ una crisi di domanda e quindi ci vuole domanda per rimettere in moto il sistema produttivo. Ma non si può ristrutturare nulla mentre il sistema è chiuso. Gli interventi strutturali di cui ha bisogno questa economia hanno prima di tutto una caratteristica macroeconomica e non microeconomica. L’Italia non cresce – almeno dal 1995, ma forse anche da prima – perché è pressata dalla stretta fiscale (abbiamo avanzi positivi quindi lo Stato sottrae domanda al mercato), da investimenti bassi da parte delle aziende e, per un lungo periodo, da un tasso di cambio per l’euro troppo elevato per la competitività delle nostre merci. Così, ora, le fonti di domanda con la crisi si riducono ulteriormente. Bisogna quindi incrementare la domanda –aumentando i redditi più bassi (riducendone le imposte oppure distribuendo reddito), immaginando opere pubbliche di rapida esecuzione, ovvero fatte da province e comuni, piuttosto che grandi opere che ci mettono un sacco di tempo (benché questi siano interventi strutturali, se sono giusti). Poi c’è bisogno di sostenere le imprese per evitare che chiudano anche quando ci fosse un po’ di domanda. E questo significa dare credito alle aziende e impedire che le banche ricostituiscano il loro capitale (composto per buona parte di titoli tossici che non valgono più nulla) ai danni di chi deve essere oggetto di prestito. Con queste tre misure non so se si riuscirà a uscire dalla crisi, ma certo si darebbe un contributo importante per uscirne. E intanto – quantomeno – si eviterebbe di far peggiorare la crisi. Poi, una volta che si è rimesso in moto il meccanismo, possono succedere due cose: si può procedere a interventi di natura strutturale, più seri e più forti, ma c’è il rischio che appena si è usciti dalla crisi, l’urgenza passi. Nella psicologia sia dei governi, sia degli operatori c’è il rischio che, una volta usciti dalla crisi, ci si faccia la domanda: perché darsi da fare con interventi strutturali? Occorrerebbe invece che la crisi diventasse un grande livellatore, un Cromwell. Che scardinasse gli elementi principali delle classi dirigenti attuali e che mettesse in gioco un qualche cosa di nuovo. E allora questo nuovo creerebbe la necessità di fare interventi strutturali. Se cioè continuiamo con lo stesso tipo di regime politico, con le stesse persone, con lo stesso Berlusconi, lo stesso Veltroni, piuttosto che qualcun altro, allora il giorno che si uscirà dalla crisi, la necessità di fare interventi strutturali non si vedrà.


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La crisi è mondiale, profonda e nasce da lontano. E’ anche una crisi sociale, non pretende una riforma del sistema?


Leon Certo, gli americani, per lo meno i democratici, sono convinti di questo. Tanto è vero che nel programma di Obama c’è – sia pure in una forma un po’ nascosta – una revisione dei vecchi accordi di Bretton Woods. C’è bisogno di una cosa di questo genere. Questo bisogno lo sentono soprattutto gli americani, anche perché hanno una quantità gigantesca di dollari fuori dagli Stati Uniti che se fossero presentati all’incasso, distruggerebbero il loro paese. Per è imperativo regolare i flussi internazionali di capitali, mettersi d’accordo sui cambi con l’Europa e con il Giappone, evitare che ci sia il crollo del dollaro e sostituire gradualmente il dollaro con le altre monete. Oppure, come voleva fare J. M Keynes, introdurre il Bancor, una moneta internazionale che sostituirebbe le monete nazionali. E’ un sogno, naturalmente. Se non il Bancor, ma almeno l’accordo internazionale: se una cosa di questo genere dovesse andare avanti, si vedrebbe chiaramente che ci sono alcune istituzioni che non funzionano. La principale di queste istituzioni è l’Europa. Nessuna delle sue istituzioni ha la capacità o il potere o la visione di mettersi intorno a un tavolo. Non ce l’ha la Commissione che continua a interpretare l’Europa essenzialmente come unione doganale, ovvero zona di libero scambio. E se il libero scambio non funziona perché c’è la crisi, e ci sono pericoli di protezionismo, l’unica cosa che loro possono fare è strillare come le oche del Campidoglio. Forse potrebbero multare quei paesi (ma in fase di crisi?) che scegliessero misure protezionistiche troppo forti. Ma se questi paesi fossero Germania e Francia non lo farebbero neppure.

Non possiamo neppure basarci sulla Banca centrale europea, perché il Trattato che la istituisce ne limita i poteri alla salvaguardia della stabilità monetaria. Qui bisogna intendersi perché la stabilità monetaria non è indipendente dal tasso di crescita. Loro la interpretano come se lo fosse, ma la ragione del perché la Bce si comporta in un modo così cieco in una fase di crisi dipende dal fatto che mai si è dovuta confrontare con l’economia europea. Mentre è chiarissimo quello che dovrebbe fare. E’ così chiaro che se non è venuto in mente ai governi, è perché le nostre classi dirigenti sono influenzate da una cultura ormai superata. Cosa dovrebbe fare dunque la Bce, prima di arrivare al tavolo con Obama e con il Giappone? Deve utilizzare la sua facoltà di emettente di moneta sovrana per finanziare i deficit dei paesi dell’euro. Almeno quella parte del deficit che serve per uscire dalla crisi. Perché in questo modo non si aggrava il debito pubblico dei singoli paesi; il disavanzo dei bilanci nazionali verrebbe collocato presso la Bce a interesse zero in cambio dell’emissione monetaria che la banca fa. Così funzionavano, prima del 1980-81, i sistemi nazionali. E non abbiamo mai avuto problemi di debito pubblico. Fino a che non è stato deciso di separare i Tesori (i ministeri dell’economia) dalle relative banche centrali. Ora quell’impianto non serve più a nulla, c’è la crisi e le banche centrali non servono se non fanno questo lavoro.

C’è però anche un’altra possibilità. Sempre per la banca centrale: invece di finanziare i disavanzi di ciascun paese membro, dovrebbe finanziare il disavanzo dell’intera Comunità, che potrebbe così costruire un proprio vero programma anticrisi. Utilizzando la regola del piano Delors attraverso cui la comunità emette eurobond che non vengono venduti al pubblico, ma alla Banca centrale. In questo modo si genererebbe una nuova sovranità statuale in Europa. E se non fanno tutto questo, è inutile che vadano a parlare con Obama. Voglio chiarire: Tremonti, queste cose le sa bene, Sarkosy le sa benissimo, la Merkel lo sa e lo rifiuta. Anche gli inglesi lo sanno bene, e lo stanno praticando con la propria Banca centrale: ma non sono interessati alle istituzioni europee perché non fanno parte dell’euro. Allora qual è il problema? Tremonti lo ha anche detto, in varie forme. E naturalmente non ha avuto nessuna risposta da nessuno, a causa del fortissimo nazionalismo che ancora esiste. Forse, anche perché la proposta di Tremonti somiglia terribilmente a un intervento pubblico, non dico socialista, ma quasi. E i paesi dell’Est europeo che improvvidamente sono stati associati alla Comunità, hanno ancora le ferite aperte del comunismo, e di intervento pubblico europeo non ne vogliono sapere. Non sono, però, ottimista. Ho l’impressione che durante questa crisi, gli Stati Uniti riusciranno a ristabilire di nuovo la loro egemonia e che non sarà né l’euro, né lo yen la moneta del commercio internazionale, ma continuerà ad essere il dollaro, e ciò soprattutto perché gli USA praticano un protezionismo “intelligente”.

Detto questo, la concertazione deve avvenire adesso, non quando sarà finita la crisi. Può anche darsi che l’Europa possa trovare nuove energie se si mettono in moto due forze. La prima: il sindacato europeo, che oggi è l’ombra di se stesso, nella crisi può acquisire un ruolo molto forte. Può anche essere umiliato, ma più il sindacato è umiliato, più acquista potere di rappresentanza effettiva. Il sindacato deve riconoscere una sua politica, non una politica che già esprimesse un compromesso con la controparte: una politica europea, appunto. Allora il sindacato potrebbe contribuire a cambiare la testa anche ai politici. La seconda forza deriva dai fallimenti che nascono dalla stessa crisi; finora siamo di fronte a fallimenti nel credito e nella finanza. In Italia non l’abbiamo ancora avuti, ma è possibile che avvengano. Il governo ha messo in atto politiche deboli. Invece, avremo sicuramente crisi industriali e nei servizi. Quando nella storia una intera classe imprenditoriale è sottoposta a stress di questo tipo ha due possibilità: o sceglie la destra autoritaria, o fa l’accordo con i sindacati. In Inghilterra, nel dopoguerra, fecero l’accordo. Certo da noi, con un governo di destra,un esito positivo è più difficile, però negli altri paesi la cosa non è scontata. Lo stress delle classi imprenditoriali è alto e non possono nemmeno più dire che è colpa del costo del lavoro. La crisi non dipende dalle relazioni sociali. La crisi nasce dalla globalizzazione. Lo stress imprenditoriale, con un minimo di pressione dei sindacati, potrebbe avere effetti sui governi.


Rassegna E la riforma delle pensioni? L’innalzamento dell’età per le donne? Sono strumenti che hanno un senso?

Leon Nella crisi non hanno alcun senso. Sono provvedimenti odiosi perché sono visti come uno scambio tra operazioni di solidarietà (ammortizzatori sociali) e riduzione delle future pensioni. Qualcuno vorrebbe far risorgere anche lo scalone. L’odiosità sta nel fatto che chi propone questo schema dimostra di non aver capito nulla di pensioni, né di ammortizzatori sociali, ma soprattutto che non ha capito nulla della crisi, perché le misure contro le pensioni non sono altro che una forma di compensazione finanziaria della maggior spesa pubblica, e quindi in sostanza annullerebbero l’effetto sulla domanda complessiva degli ammortizzatori sociali. Non siamo di fronte a una straordinaria stupidità, ma all’ incapacità di uscire da venti anni di severità finanziaria e fiscale, che avevano lo scopo di ridurre il ruolo dello Stato, del sindacato, dei partiti.

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