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Interventismo, malattia congenita del Fascismo

di Valerio Romitelli

indexpogbu“La domanda qui è se sia riscontrabile una qualche analogia interessante tra il Mussolini del 1914 e il Draghi del 2022”

Pandemia poi guerra ucraina hanno fatto trascurare se non dimenticare del tutto un centenario che in altri tempi avrebbe forse suscitato maggiori interessi e dispute: quello della “Marcia su Roma” che consacrò l’irreversibilità dell’ascesa al potere del fascismo. É stato dunque in controtendenza che il Maggio filosofico di quest’anno ha scelto proprio questo centenario come tema privilegiato delle quattro serate in programma. Il titolo di tutta la rassegna, opportunamente provocatorio: Retromarcia su Roma. Perché “retromarcia”? Ben pochi dei nostri abituali lettori non avranno subito pronta la risposta. Ma per non far torto a nessuno diciamo che per capire il senso di questo titolo basta riconoscere che il succedersi di “stati di emergenza” imposti dai nostri più recenti governi da Conte a Draghi, nonostante la loro nulla legittimità elettorale, non può essere solo un caso. Né può essere una semplice reazione istituzionale all’eccezionalità delle circostanze imposte dal destino prima pandemico poi bellico. Che una tale insistente eccezionalità non sia politicamente innocente, che suo tramite si stia avvenendo una più profonda svolta regressiva dello Stato italiano: questa è l’evidenza che ci ha fatto vedere il centenario del 1922 come una buona occasione per ripensare alcuni dei nodi più di tutta la storia del nostro paese, la cui massima notorietà – non dimentichiamolo – è dovuta appunto all’invenzione perversa e disastrosa del fascismo. Di quel fascismo – non dimentichiamo neanche questo – che ha infettato molte parti del mondo (soprattutto la Germania!) e che è divenuto sinonimo universale del male politico assoluto.

Volendo intervenire a questo proposito, mi sono chiesto se ci fosse un qualche episodio del fascismo, di quello storico, realmente esistito, da cui potere trarre qualche lume sul nostro tristissimo presente.  Data la situazione di guerra nella quale più o meno indirettamente siamo ora coinvolti, la mia scelta è caduta su una situazione anch’essa solo indirettamente di guerra, per il nostro paese, giusto al tempo delle primissime mosse di quella che sarà la Grande Guerra:  l’estate del 1914. Un’estate durante la quale Mussolini,  allora dirigente di spicco del Partito Socialista Italiano, nonché direttore dell’Avanti!, fece una scelta che, malgrado non sembri subito evidente, doveva pesare sul futuro politico di tutto il paese. Si tratta della scelta di abbandonare quella posizione di “neutralità assoluta” nei confronti dei due schieramenti belligeranti, la quale fino ad allora, e anche in seguito, era e resterà la posizione prevalente tra i socialisti italiani – a differenza, ricordiamo, della maggioranza dei partiti socialisti più importanti sulla scena mondiale del tempo, ossia quelli francesi e tedeschi, i quali, ad eccezione di alcune frange dissidenti, si arruolarono fin da subito alla causa della guerra condividendo, anima e corpo, la sorte infame degli eserciti del proprio paese. Un abbandono del neutralismo, quello di Mussolini nell’estate 1914 che lo portò ad abbandonare al contempo, sia lo stesso Partito socialista, sia la direzione dell’Avanti!: il tutto per implementare quella già esistente corrente di opinione che  si chiamava interventismo, apportandovi l’apertura di un nuovo giornale, di notevole successo: Il Popolo d’Italia che si voleva comunque sempre un giornale socialista, ma già con un inedito piglio nazionalistico.

La domanda qui è dunque se sia riscontrabile una qualche analogia interessante tra il Mussolini del 1914 e il Draghi del 2022: o meglio se nell’opinione interventista che Mussolini finì per sostenere, a partire dall’estate del 1914 fino alla effettiva discesa dell’Italia in guerra nel maggio del 1915, ci sia qualcosa di somigliante con  la corrente di opinione che ai giorni nostri sostiene il governo attuale nell’invio delle armi in Ucraina. Se la risposta fosse positiva, la morale della favola sarebbe evidente: che dopo le tante emergenze, prima per pandemia ora per guerra, grazie alle quali i più recenti governi italiani si sono retti, d’ora in avanti si sta profilando il pericolo di un’ulteriore stretta regressiva dello Stato italiano, tale da farla sembrare davvero una “retromarcia su Roma”!

Per arrivare a illustrare una simile conclusione sarà necessario un breve periplo attraverso alcune questioni di metodo e principio. Ma prima ancora di trattarne è importante ricordare alcune similitudini tra i due contesti storici; da una parte, il contesto di quella guerra che si svilupperà nella Grande Guerra del ’14-18, dall’altra, il contesto di quell’invasione russa dell’Ucraina che oggi fa temere un’escalation bellica ad oltranza.

 

I

“il conflitto tra i “valori” politici (democrazia versus autoritarismo militarista, progressismo versus tradizionalismo) sarebbe più o meno sempre lo stesso, tanto nel 1914, quanto nel 2022?”

Una prima similitudine sta nella disposizione e le caratteristiche più evidenti dei due fronti in conflitto.

Senza entrare in troppi dettagli, si può dire che nel 1914, di fronte all’Italia, che il 2 agosto (svincolandosi dalla cosiddetta Triplice alleanza stretta nel 1882 con Austria e Germania) dichiarava la propria neutralità, lo scenario bellico si presentava nel seguente modo. Da un lato, c’erano le due potenze imperialiste emergenti, quella degli Imperi centrali, austriaco e tedesco (alle quali si aggiungerà un altro Impero, quello ottomano) conosciuti per il loro militarismo autoritario e tradizionalista: erano loro i responsabili di quella invasione del Belgio neutrale che aveva segnato il punto di non ritorno delle ostilità generali. Dall’altro, c’erano invece le superpotenze imperialiste già mondialmente egemoni, molto più attente a progressismo e democrazia, la Francia e l’Inghilterra, a loro volta alleate per altro della Russia e del Giappone anch’essi imperi noti per il loro autoritarismo tradizionalista, alle quali si aggiungeranno la stessa Italia, nel maggio 1915, poi gli Stati Uniti: un fronte questo riunitosi comunque attorno alla difesa del Belgio invaso.

Saltando ai giorni nostri, anche nella guerra in corso (non ancora evidentemente mondiale, ma già indirizzata in questo senso) le ostilità si sono scatenate a seguito di un’invasione. L’invasione dell’Ucraina da parte di una Russia, anche essa militarista, tradizionalista e autoritaria, all’incirca allo stesso modo in cui lo erano ai primi del Novecento Austria e Germania. Mentre, sempre restando ai nostri giorni, gli Stati Uniti assieme ai suoi alleati della Nato, tutti schierati in favore dell’Ucraina, si presentano come paladini del progresso e della democrazia.

Siamo quindi sempre lì? Sarebbe a dire: il conflitto tra i “valori” etico-politici (democrazia versus autoritarismo militarista, progressismo versus tradizionalismo) sarebbe più o meno sempre lo stesso, tanto nel 1914, quanto nel 2022? Sarebbe sempre questo conflitto ad avere innescato, tanto la Grande Guerra, quanto le divisioni planetarie dovute alla recente invasione russa dell’Ucraina? Poco conterebbe l’obiezione secondo la quale anche all’interno del fronte più progressista e democratico si ritroverebbero potenze reazionarie: così accade anche oggi e se non suscita scandalo è perché, per chi vive all’interno del fronte progressista e democratico, a questo sembra concesso ogni compromesso giudicato utile.

La contrapposizione ideologica piace in ogni caso alle propagande avverse che così hanno buon gioco nel rivendicare la parte dei buoni e nell’imputare ai nemici la parte dei cattivi. Cosicché per la propaganda autoritaria, militarista e tradizionalista russa ad essere falsi, quindi cattivi, sono i progressisti democratici occidentali, mentre per la propaganda progressista e democratica filo-americana i falsi e i cattivi sono i tradizionalisti, autoritari e militaristi russi.

Quanto sia sterile questa contrapposizione ideologica lo si comprende ragionando sulla scelta di Mussolini nel 1914 e sulle sue conseguenze. Il suo schierarsi con il fronte dei belligeranti più democratici e progressisti evidentemente non può non piacere dal punto di vista della propaganda progressista e democratica. Ma questa propaganda rischia altrettanto evidentemente di contraddirsi clamorosamente riguardo al seguito della biografia di Mussolini. Come spiegare infatti da questa angolatura che nonostante il suo interventismo bellicista in nome del progresso e della democrazia l’ex direttore dell’Avanti! si metterà poi a capo di un partito che in fatto di militarismo e autoritarismo farà scuola al mondo intero? Un dilemma non da poco che si può risolvere ipotizzando che tra colui che era stato il direttore de Il Popolo d’Italia e colui che sarà il Duce ci starebbe stata una profonda svolta esistenziale, etica e politica.

Ma non è certo così che qui la faccenda viene risolta. Perché, completamente al contrario, a me pare che tra il 1914 e il 1922 nel modo di pensare e agire di Mussolini non ci sia alcuna discontinuità radicale, ma piuttosto un’evoluzione: un’evoluzione  del tutto conforme alle mutazioni intervenute nello Stato italiano nel corso di questi stessi anni. É questo il tempo durante il quale, infatti, la monarchia sabauda e tutto il suo seguito istituzionale, dopo essere stati conquistati dall’opinione interventista, si convinsero, prima, di gettarsi nell’avventura abietta e devastante della Grande Guerra, poi, a guerra finita, di lasciarsi andare tra le braccia del fascismo. Il vero problema è allora chiedersi seguendo quale idea strategica Mussolini sia passato, nell’arco di sette, otto anni, dalla scelta interventista all’ideazione di un movimento poi di un partito senza precedenti come appunto il fascismo.

Che ci sia una continuità in proposito è fuori discussione. E la cifra di questa continuità è proprio la guerra o meglio come vedremo tra poco la confusione, la sovrapposizione tra guerra e politica. In effetti, per Mussolini – come per la maggior parte degli interventisti del tempo (repubblicani, anarchici, liberali e monarchici compresi) nel 1914 – l’entrata in guerra dell’Italia era vista che come il mezzo per il raggiungimento di più obiettivi politici: sia per non restare fuori della storia delle grandi potenze del tempo,  come si temeva sarebbe accaduto mantenendo la neutralità del partito socialista, sia per concludere il contenzioso apertosi fin dai tempi del Risorgimento con l’impero austriaco per l’unità territoriale italiana.

Il suo colpo d’ala l’impresa mussoliniana lo trova comunque nel dopoguerra organizzando un movimento di massa sempre sotto il segno della guerra, e ottenendo  più risultati tattici. In primo luogo, unirsi alle rivendicazioni e alle avventure di tipo dannunziano in nome della “vittoria mutilata”. In secondo luogo, rappresentare un avvenire di gloria per la gran massa soldati e ufficiali altrimenti destinati alla semplice smobilitazione. In terzo luogo, assumere esasperandolo quel terreno della guerra civile che le lotte del “Biennio rosso” sembravano caldeggiare in nome di un “faremo come la Russia!” più urlato che mai realmente assunto come un compito operativo, organizzativo e militare.

Ne conseguirà che tutte le forme organizzative e le simbologie della “rivoluzione fascista” saranno appunto belliche, o meglio belliciste, mortifere ad oltranza: volte rivendicare il proseguimento della guerra e il desiderio di morte, sia di infiggerla sia di subirla (purché “bella”), anche in tempo di pace, specie contro quella parte del paese (socialista, comunista, anarchica e così via) che l’intervento nella Grande Guerra non l’aveva mai voluto e che invece era approdata al sogno appunto di “fare come la Russia” – ossia di replicare quella pacificazione trionfalmente conquistata dal partito bolscevico e dalla rivoluzione sovietica.

 

II

“Per non ripetere sempre le solite storie trattando di fascismo, guerra e politica è consigliabile pensare come in questi tre fenomeni si dispongano diversamente le passioni, i desideri, le soggettività.”

Ma quali sono i presupposti ideologici del bellicismo fascista?

Provare a rispondere ad una simile domanda obbliga fare i conti con l’analisi o, come oggi si preferisce, la narrativa dominante a proposito del fascismo. Ogni storia che se ne racconta a tutt’oggi è giustamente, anche se spesso inconsciamente, influenzata dalla dottrina che ha guidato i suoi più acerrimi nemici, ossia quei comunisti che alla fin fine ne sono risultati anche loro vincitori. Lo schema interpretativo più canonico che ne è uscito è quello definito a metà degli anni Trenta a Mosca dalle Lezioni sul fascismo tenute dal “nostro” Togliatti. Lì si dice che l’imporsi del fascismo va sempre studiato sì come un fenomeno diverso da paese a paese, ma anche ricondotto ad una precisa necessità complessiva del capitalismo. La necessità intervenuta dal momento in cui questo sistema economico classista era entrato nella sua fase imperialista: sarebbe a dire, dominata non più dall’espansione dei liberi mercati e dall’imprenditoria industriale, ma  dalle concentrazioni oligopolistiche e finanziarie intente a conquistare e depredare il mondo intero. Se il fascismo come regime politico era stato ben accolto dai poteri forti del capitalismo, ciò era avvenuto dunque perché questo sistema mondiale di sfruttamento aveva bisogno di reagire addirittura contro se stesso, ossia contro quelle libertà e quelle aperture democratiche che nella sua fase storica montante aveva concesso e promesso. Concessioni e promesse che invece sarebbero risultate sempre più incompatibili con i margini sempre meno ampi di manovra dei capitali oligopolisti ed imperialisti oramai in lotta a morte tra loro in ogni angolo dell’intero pianeta e quindi alla fin fine anche nel cuore stesso della stessa Europa.

Quali erano dunque le conclusioni di Togliatti? Che compito primo dei comunisti consisteva nel rialzare la bandiera di quella democrazia, di quelle libertà e di quella pace che la borghesia capitalista aveva inizialmente sventolato e poi gettato nel fango con politiche reazionarie quali quelle fasciste e belliciste. Così in nome di un antifascismo frontalmente opposto solo contro gli oligopoli imperialisti, i fascisti e guerrafondai più irredimibili, la storia avrebbe potuto seguire il suo progressivo corso normale. Quel corso alla fine del quale tutto doveva confluire che in una pacifica società mondiale, senza classi, né Stati.

Così non è andata. Si può sempre continuare ad aspettare che questa storia a lieto fine riprenda il suo corso o viceversa si può irriderne l’utopismo. Resta che ha cambiato i destini dell’intera umanità, la quale dimenticando fin anche i motivi ispiratori di tali grandiose idee vaga disorientata e lacerata. Di sicuro, quello che non ha funzionato nel materialismo storico e dialettico cui lo stesso Togliatti faceva riferimento non è la stata la teoria della lotta di classe, ma il determinismo storicista che la caratterizzava, data la sua origine ottocentesca. Fu così che proprio quando questa teoria raggiunse i suoi massimi successi pratici (nel Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, quando mezzo mondo era diventato comunista e l’altra metà sembrava seguirne il destino) giunse anche al colmo di un paradosso impraticabile. Il paradosso, detto in due parole, di credere che tutto da sempre fosse deciso da conflitti tra interessi di classe oggettivamente contrapposti, ma che tutto si dovesse concludere con l’estinzione di questi stessi interessi. Ivi compresi quelli della classe operaia e dei Partiti Stato supposti suoi rappresentanti. Ecco allora che l’avere privilegiato la lotta tra gli interessi di classe oggettivamente determinati ha portato il materialismo storico e dialettico a sottostimare il fatto per portare all’estinzione questi interessi occorresse pensare anche ai grandi temi delle passioni, dei desideri, della soggettività – fatto questo oramai variamente riconosciuta anche da filosofi sempre fedeli al comunismo.

Per non ripetere sempre le solite storie trattando di fascismo, guerra e politica è quindi consigliabile pensare come in questi tre fenomeni si dispongano diversamente le passioni, i desideri, le soggettività.

A introdurre, forse in parte inavvertitamente, questo problema è stato uno dei massimi filosofi politici dichiaratamente nazista e mai di ciò pentito. Si tratta di Carl Schmitt, autore arcinoto in Italia, dove negli anni Settanta ha persino influenzato tutta una componente della corrente operaista. Una delle sue tesi cruciali avanzate ancora prima dell’avvento di Hitler al potere, consisteva nel proporre il rovesciamento di un celeberrimo motto del massimo teorico occidentale della guerra, apprezzato anche da tutti i marxisti, il generale prussiano acerrimo nemico di Napoleone, Carl Von Clausewitz. Il motto in questione è “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Col suo rovesciamento, come suggerito da Schmitt, quindi otteniamo invece l’enunciato “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”.

Insulsi giochi di parole? Niente affatto. Tant’è che anche uno dei massimi studiosi dei fenomeni e della gestione del potere e del sapere, anche esso specialmente apprezzato in Italia e specialmente all’interno sempre della corrente operaista, Michel Foucault, nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso giungeva alla stessa conclusione di Schmitt, pur senza conoscerlo: la conclusione che la politica era da considerarsi la continuazione della guerra con altri mezzi, e non viceversa come a suo tempo sosteneva invece Clausewitz.

Per chiarire la posta in gioco di questa disputa può giovare riflettere sui diversi tipi di passioni e desideri, dunque di postura soggettiva, che distinguono queste due esperienze.

L’esperienza “politica”, quand’anche susciti dubbi e scetticismo o sia condizionata da esclusivi interessi personali, si rende possibile solo se a muovere chi vi partecipa c’è anzitutto un sentimento d’amicizia rispetto i propri sodali: tant’è che è solo grazie ad essi si può riunire quella dimensione collettiva indispensabile a tale esperienza. Che poi anche in politica ci siano odi e lotte a morte va da sé, ma resta sempre inevitabile che a odiare e lottare siano principalmente i corpi collettivi tenuti insieme dall’amicizia tra i suoi aderenti.

Tutto al contrario, l’esperienza della guerra non è possibile se chi vi partecipa non è mosso dall’odio nei confronti dei nemici, che si deve supporre provino lo stesso sentimento. Senza l’odio, infatti, non si capisce da dove verrebbe la disponibilità ad uccidere e rischiare quotidianamente di essere uccisi. E senza questo tipo di disponibilità soggettiva non si capisce come potrebbe funzionare qualsiasi organizzazione militare o paramilitare. Ma attenzione: non si deve ridurre la guerra ad una semplice manifestazione di odio. Anche qui, come in politica, la dimensione collettiva è decisiva: ossia per far guerra ci vogliono eserciti (o bande partigiane); e perché esistano o si formino organizzazioni simili non basta che esse siano mosse dall’odio contro il nemico: necessitano inevitabilmente e prioritariamente di qualcosa da amare collettivamente. Esempio più classico è l’”amore di patria” al quale ogni esercito è chiamato, ma anche le brigate internazionali della guerra civile spagnola, ad esempio, si formarono non solo per l’odio del fascismo e del franchismo nascente, ma perché condividevano l’amore per un’idea di nuova umanità. Per mercenari, poi, va da sé che a motivarli in genere c’è il desiderio del denaro, ma anche una sorta di amore perverso per la stessa guerra vissuta come esperienza esistenziale costantemente in bilico tra il sadico e il masochistico.

È proprio qui, nella priorità dell’amicizia sull’ostilità che va dunque ritrovato il senso più proficuo nella massima di von Clausewitz. La quale potrebbe tradursi così: la politica ha i suoi mezzi (ossia la sue organizzazioni, le sue passioni e i suoi desideri), la guerra anche, ma se quest’ultima non mantiene i suoi mezzi subordinati a quelli della politica si disperde come un conflitto comandato solo dall’odio, caotico, senza criterio, né fine.

Vediamo allora invece che senso ha il rovesciare questa massima. Già il supporre che la guerra preceda e comandi la politica significa pensare che la guerra sia qualcosa di non coscientemente organizzato, ma insito nella natura umana o in ciò che essa stata finora. Se fraintesa può essere così interpretata la stessa tesi materialista e dialettica secondo cui la storia quale si è svolta finora è storia di lotta di classe. Se si pensa questa tesi senza tenere conto che è solo un presupposto per sostenere la necessità della fine comunista di ogni divisione di classe, allora, come si azzarda a fare ad esempio lo stesso Foucault, si può anche credere che tale tesi derivi da un’altra dottrina ottocentesca ed evoluzionista, nonché decisamente reazionaria: quella secondo la quale la vera storia è sempre lotta tra razze! In ogni caso, supporre che ogni lotta, rivolta, conflitto, resistenza sociale più o meno spontanei possano essere equiparati ad una guerra significa occultare ciò che è più specifico di quest’ultima esperienza: ossia esattamente il fatto che comunque è sempre e non può che essere un’esperienza politicamente organizzata in eserciti o bande. La versione più evidente e perversa di questo occultamento è teorizzata appunto da Schmitt, poco prima di aderire al partito nazista. Egli ammette senza remore che questa idea della politica come continuazione della guerra con altri mezzi si fonda su un’antropologia negativa stile Hobbes. Quell’antropologia (da Hobbes stesso elaborata avendo bene in mente gli orrori della guerra civile inglese di metà Seicento) per cui homo homini lupus: ossia l’idea mortifera secondo cui tutti gli esseri umani tenderebbero naturalmente ad odiarsi, a farsi la “guerra” l’un l’altro come bestie feroci attorno ad una stessa preda, cosicché solo il branco più grosso, più aggressivo, più temibile potrebbe far politica ed eventualmente portare la pace.

Se tra i vari fascismi c’è una matrice teorica comune direi che è proprio questa. La quale si dimostra, sì anche come una rappresentazione ideologica particolarmente reazionaria degli interessi capitalisti in epoca imperialista (come diceva Togliatti), ma soprattutto come una promozione di passioni e desideri organizzati attorno al mito della guerra eretta a destino inevitabile dell’umanità.

 

III

“Anche nel caso della Grande Guerra, le superpotenze progressiste e democratiche si atteggiavano a protettrici del diritto del più debole, ossia del Belgio invaso, così come oggi gli Usa e i suoi vassalli dell’Ue si atteggiano a protettori dell’Ucraina invasa”

 Possiamo ora tornare al tema qui principale, quello dell’interventismo mussoliniano durante la prima guerra mondiale e a come possa essere considerato un precedente significativo dell’attuale interventismo italiano (e in parte europeo) nella guerra ucraina. Che dirne dunque alla luce di quanto osservato a proposito del rovesciamento della massima di Clausewitz? La conclusione non può che essere una sola: che come nel 1914 così nel 2022 l’”interventismo” – per quanto possa essere presentarsi un fatto occasionale e senza conseguenze imprevedibili – si configura niente di meno che come massima espressione del mito bellicista. Che significa infatti per uno Stato entrare in una guerra gestita da potenze incommensurabilmente superiori? Significa subordinare la propria politica alla gestione altrui della guerra, dunque sacrificare la politica sull’altare della guerra. Il tutto nella vana speranza di rosicchiare qualche misero vantaggio saltando sul carro di supposti vincitori. Quali che siano le giustificazioni addotte.

Anche nel caso della Grande Guerra, infatti, le superpotenze progressiste e democratiche (francesi e inglesi soprattutto) si atteggiavano a protettrici del diritto del più debole, ossia del Belgio invaso, così come oggi gli Usa e i suoi vassalli dell’Ue si atteggiano a protettori dell’Ucraina invasa. Ecco allora che, in entrambi i casi l’intervenire come nazioni gregarie a fianco di nazioni incommensurabilmente più potenti non  pare creare alcun problema. Ma sembra un atto dovuto per non tradire i valori democratici e progressisti.

Per non abboccare a simili frottole, e restando sempre ai paragoni con la Grande Guerra, è il caso di ricordare le due conferenze di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916), dove socialisti di tutta Europa  denunciarono al mondo che la guerra in corso altro non era altro che una guerra tra imperialismi al solo scopo di ridefinire tra loro i poteri di sfruttamento sull’intera umanità. Il dilemma che ne uscì irrisolto riguardava la parola d’ordine da diffondere: “né aderire, né sabotare” come sostenevano gli italiani o “trasformare la guerra imperialista in guerra di classe” come sostenevano i bolscevichi. Questi ultimi, come si sa, ebbero poi la meglio trionfando nel realizzare la pace sul fronte orientale e avvicinando così la fine di tutta quell’enorme carneficina insensata in cui era precipitata la Grande Guerra.

D’altra parte, invece il già interventista Mussolini, a guerra finita, puntò tutto, non solo sul continuare la guerra anche in tempo pace, legittimando azioni tipiche della guerra civile, ma soprattutto si industriò nel affrontare questa sfida costruendo un corpo organizzato, iniziato come movimento poi strutturatosi come partito fascista. Quel “partito della guerra” che per vent’anni, tra quasi unanimi consensi, è restato a capo dell’Italia e che alla fin fine è crollato solo dopo essersi schiantato non a caso sempre in guerra.

È qualcosa di simile che attende l’Italia anche oggi? Due dati lo fanno temere: da un lato, il nostro paese  è già da tempo governato da un succedersi di stati d’emergenza, dall’altro, la maggioranza attuale è talmente ampia da non avere precedenti, se non appunto ai tempi del Duce, e da lasciare spazio solo ad un’opposizione minima. Unico problema dell’ammucchiata di partiti che si accalca attorno ad un esecutivo più che mai atlantista è di essere riottosa e sospesa a ricatti incrociati. Che l’interventismo praticato con l’invio alle armi all’Ucraina, che l’entrata in guerra così implicitamente avvenuta non siano le premesse per un nuovo riordino della maggioranza ? Dobbiamo quindi temere il configurarsi di un nuovo “partito della guerra”? Già il fascismo a suo tempo fece scuola nel mondo, c’è da sperare che dall’Italia odierna non esca una lezione simile per tutta la smarrita Europa.

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