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ilpedante

Astensionismo, democrazia, mercato

di Il Pedante

crisi partitiCome si ripete ovunque, incombe sul prossimo appuntamento elettorale il convitato di pietra dell’astensionismo, il «partito» che negli ultimi tempi raccoglie la maggioranza – spesso anche assoluta – dei consensi. Molti temono l’astensionismo, altrettanti lo auspicano e lo raccomandano: spesso, e in entrambi in casi, per gli opposti motivi. Insomma la democrazia, stanca, delude e perde appeal, ma sarebbe sciocco addebitarne la responsabilità agli elettori, a chi cioè certifica una sofferenza e non a chi la infligge o la ignora.

Il presupposto minimo di una democrazia rappresentativa è che negli organi decisionali siano rappresentati più o meno proporzionalmente i bisogni e le idee di tutti i cittadini. Fallito il presupposto, fallisce il concetto. Ora, dal 2018 a oggi non si sono solo visti gli opposti partiti con i loro opposti programmi approvare le stesse leggi nelle stesse compagini governative, in barba alle collocazioni di chi li aveva eletti. Al di là dei colori, il principio di rappresentanza è stato tradito nei fatti che hanno inciso di più sulle esistenze dei cittadini. La ferita ancora aperta delle discriminazioni sanitarie ha messo in evidenza la marginalizzazione politica pressoché totale degli elettori avversi a queste misure, il cui numero, benché mai seriamente stimato, parte dal 15% di coloro che non hanno mai ricevuto le due dosi del ciclo vaccinale primario, si aggiunge al 17% di chi non ha fatto la terza dose e si estende ai tanti (altrettanti? di più?) che hanno subito la crociata farmaceutica controvoglia o almeno disapprovato i metodi con cui la si è imposta. Qualunque sia il risultato finale, si tratterebbe di percentuali sproporzionatamente alte rispetto al 12-13% dei parlamentari che hanno ad esempio votato contro l’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni, o bocciato l’estensione del «super green pass» nei luoghi di lavoro.

Ancora più limpida è la vicenda della guerra russo-ucraina. Mentre i sondaggisti ci informavano che «per il 69% [degli intervistati] l'Italia deve negoziare con la Russia» (IPSOS) e per il 44% «l'invio delle armi alla resistenza ucraina è sbagliato e deve essere interrotto» (EMG), solo il 6% dei deputati vi si opponeva in aula e tutti i senatori, con qualche sparuta eccezione nel Gruppo Misto, approvavano una risoluzione unitaria per la «cessione di apparati e strumenti militari per la difesa dell'Ucraina» che tre mesi dopo sarebbe stata rilanciata ancora dalla temibile «opposizione», a scanso di equivoci. E mentre più della metà degli italiani chiede oggi la revoca delle sanzioni contro la Russia e quasi un terzo di loro ritiene che nemmeno «avremmo dovuto imporre alcuna sanzione fin dall’inizio» (Termometro Politico), a Strasburgo solo un parlamentare italiano (Francesca Donato) respingeva la decisione di «un embargo totale e immediato sulle importazioni russe di petrolio, carbone, combustibile nucleare e gas». Dove è in gioco il suicidio economico del Paese, un italiano su due vale tanto quanto... un deputato su settantasei. E oggi da chi è rappresentato chi volesse, chessò, più indipendenza dalla Commissione Europea e da altre agenzie internazionali? O proteggere le produzioni interne, provvedere alle spese comuni senza ricorrere all’usura, salvare l’energia dalle speculazioni dei trader, frenare la corsa al «digitale», infischiarsene degli appelli di Davos, indagare sui contratti farmaceutici, reintrodurre il voto di preferenza, proibire l’aborto ecc.? Da nessuno. Ma deve votare, ci mancherebbe.

È vero, nel frattempo nascono nuove formazioni politiche che si ripromettono di colmare l’abisso intestandosi alcune istanze orfane. Ma l’astensionista, anche quando riconosce la genuinità di questi propositi, ricorda che si sarebbe oggi al terzo tentativo di infiltrare elementi «antisistema» nel sistema e che i due sinora esperiti e miseramente falliti potevano contare su numeri, risorse e strutture che mancano del tutto ai nuovi arrivati. Perché, si chiede allora, i piccoli dovrebbero riuscire là dove sono caduti i grandi? E formula un dubbio: che il sistema in questione non consista tanto nelle norme che si desidera ridiscutere e cambiare, quanto nella norma stessa che impedisce il cambiamento per via di prassi formali e informali incistate nel fortino della «legalità istituzionale». Della macchina democratica vede tutto ma non il krátos, l’anima che si è spostata altrove lasciando un guscio sclerotico a mo’ di segnaposto della legittimazione. Tra la tirannide e la democrazia decente – entrambe bisognose di consenso – teme la mezza via della tirannide travestita da democrazia: l’unica che può deliberare senza consenso, avendolo virtualizzato. E se fosse vero ciò che alcuni sostengono, che nella storia non si sarebbe mai data una «autentica» democrazia ma al più un binomio ben dosato di panem (le conquiste materiali) e circenses (le forme politiche della loro «conquista» popolare), denuncia la pretesa nuova e spericolata di tenere in piedi il circo senza il pane, anzi proprio a detrimento del pane. Un esperimento, se non mai visto, certamente mai durato a lungo. Del dibattito politico misura l’abisso tra le macerie mute e il fracasso che vi soffia intorno: dichiarazioni, interviste, sfoghi, lettere al direttore, hashtag, commenti polemici sulla polemica della mezza giornata, smentite e smentite della smentita, «dialoghi con gli elettori», prese di distanza «doverose» che però «non bastano» mai. Parole che dovrebbero coinvolgere i cittadini e avvicinarli ai palazzi ma che nei fatti li distraggono dal cimitero della rappresentanza sparando le cartucce fumogene dell’emergenza e del pericolo «senza precedenti», della responsabilità, della credibilità, della strategia e di tutto ciò che serva a riconciliare nell’immaginato la dissonanza del dato.

***

L’astensionista non compra nulla, ma non è solo un modo di dire. È piuttosto il rilievo di una prerogativa spesso equivocata delle democrazie moderne, il loro essere cioè declinazioni a tutto tondo del dogma di mercato. Come i produttori entrano in concorrenza per contendersi il denaro dei consumatori offrendo loro le merci che desiderano al minor prezzo, così i candidati competono nell’arena elettorale per ricevere le fiches del potere promuovendo le istanze di chi li vota, con il minor sacrificio possibile. L’aspettativa è in entrambi i casi la stessa: che domanda e offerta si incontrino liberamente (da qui le libertà: di parola, opinione, associazione, manifestazione ecc.) affinché una «mano invisibile» le metta in equilibrio facendo sì che le aspirazioni egoistiche degli uni e la brama di potere degli altri convergano smithianamente verso il massimo bene comune. Siccome nei fatti non si è però mai dato un mercato «deregolato» senza regole e regolatori, anche nelle democrazie interviene l’arbitro costituzionale per fissare gli obiettivi generali, i limiti invalicabili (parte prima della Costituzione) e le regole del gioco (parte seconda). Altre norme varate con l'intenzione di assicurare un «mercato» politico aperto e concorrenziale includono il finanziamento pubblico ai partiti e alla stampa e l’assegnazione di spazi di propaganda garantiti (tribune pubbliche, affissioni comunali ecc.) ed equi (par condicio), secondo i principi classici dell’antitrust.

Jean-Paul Fitoussi e altri autorevoli commentatori hanno molto scritto sul presunto conflitto o «complementarietà» di democrazia e mercato, ma queste analisi risentono del fatto di essere state formulate in una fase di crisi – non a caso, coincidente – di entrambi i sistemi, di averli cioè assunti nel loro declino e non nella loro essenza. Considerandoli secondo definizione risalterebbe invece la loro gemellanza: il mercato come democrazia dei consumi, la democrazia come mercato dei governi. Possono funzionare bene, discretamente o male ma l’una non può nuocere all’altro, né viceversa, in principio perché entrambi condividono le medesime premesse, strutture e aspettative di successo, nei fatti perché il loro regresso è avvenuto negli stessi anni e negli stessi modi, lungo una parabola comune che sottende virtù e vizi comuni, anche originari. All’idea di «democrazia perfetta» e alla pretesa che i suoi fallimenti non sarebbero «vera» democrazia si può serenamente applicare la critica rivolta da Keynes alla concorrenza perfetta e al «vero» mercato:

Sono tanto grandi la bellezza e la semplicità di una tale teoria che è facile dimenticare come essa non derivi dai fatti concreti, ma da un'ipotesi incompleta introdotta per amor di semplicità… molti di quelli che riconoscono che l’ipotesi semplificata non corrisponde accuratamente al fatto, concludono ciò nonostante che essa rappresenta ciò che è «naturale» e perciò ideale. Essi considerano l'ipotesi semplificata come lo stato di benessere. (La fine del laissez-faire, 1926)

Tra le tante complicazioni del «fatto», la più nota e ricorrente è la tendenza del mercato a evolvere in monopolio, a far sì che il più forte si prenda non solo il premio, ma anche il podio, la giuria e l'arena. Problema noto a Smith, sistemizzato dai marginalisti ed enunciato da Marx come conseguenza necessaria della concentrazione dei capitali, prerogativa perciò ineliminabile e propria di tutti i sistemi capitalistici. Nella fase odierna non è difficile rilevare il parallelismo tra l’avanzare dei monopoli industriali e finanziari in scala globale (già oggi tre soli fondi di investimento mutualmente partecipati gestiscono la maggioranza azionaria di quasi tutte le prime cinquecento multinazionali quotate negli Stati Uniti d’America) e, dall’altro lato, il fenomeno ormai ordinario dei governissimi sostanzialmente privi di opposizione, siano essi «di larghe intese», «di responsabilità nazionale» o più o meno esplicitamente «tecnici». In regime di monopolio l’offerta si sgancia dalla domanda e si standardizza. Al fornitore unico e al prodotto unico rispondono il pensiero unico e il voto unanime delle forze politiche sganciate dal mandato popolare (sicché, ad esempio, è in effetti inutile manifestare se non vale il meccanismo di mercato che rende appetibili i voti di chi protesta). I produttori non allineati, come i rappresentati non allineati, sono acquisiti per usurparne il marchio e la clientela, o marginalizzati.

Più che soddisfare la domanda, il monopolio crea la domanda e la soddisfazione incrementando gli investimenti pubblicitari a scapito della produzione. Così anche la classe politica trova sponda nella stampa e nelle agenzie di marketing per bilanciare la sua passività con uno slancio propagandistico martellante, anteporre le suggestioni agli atti, fingere «successi» altrimenti ignoti all’elettore e rendere desiderabili e urgenti battaglie che nessuno si sarebbe sognato di combattere. L'analisi del target (bisogni, desideri, mode, customer satisfaction ecc.) non serve più ad ampliare e perfezionare l'offerta, ma piuttosto a intervenire sul packaging, il brodo estetico e ideale con cui si allunga l'unica minestra possibile e, a valle, saggiare il buon successo del travestimento. Nel paradigma di mercato anche chi si astiene dall'acquisto-voto manda un messaggio perfettamente valido per il riequilibrio del sistema, che in uno scenario concorrenziale spingerebbe i produttori a soddisfare le nicchie scoperte, in un contesto monopolistico significherebbe invece che l'operazione cosmetica non sta funzionando. Il meccanismo è identico, solo che nel primo caso si mette in questione il prodotto, nel secondo la sua rappresentazione.

Va infine da sé che, per il solo fatto di esistere, il monopolio rompe la trama delle regole e delle riserve che lo avrebbero dovuto frenare: prima infiltrandole con il lobbismo e le eccezioni legali, poi costringendole ad adeguarsi al fatto compiuto. Alla sconfitta delle regolazioni di cui ci parlano le bollette di questi giorni fa eco la sconfitta delle regole costituzionali, nella lettera o almeno nella visione di chi le ha formulate e difese in passato. Gli attacchi degli ultimi anni al lavoro, all’impresa, ai risparmi, alla salute, alla neutralità, alla pratica legislativa (abuso della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia, DPCM, deroghe procedurali, compressione del dibattito parlamentare ecc.) e a una lunga serie di libertà elementari, ma forse più ancora le acrobazie con cui li si è giustificati, testimoniano l’ineluttabilità del processo.

La citata analisi fitoussiana potrebbe dunque applicarsi solo se si scindessero i destini dei due fenomeni: una democrazia libera sarebbe minacciata da un non-mercato monopolistico, un mercato libero da una non-democrazia dispotica. Invece le loro involuzioni sono due espressioni della stessa tendenza, sicché non stupirà neanche constatare che il confine tra i loro stessi domini è oggi labile, se non proprio assente. I monopoli industriale e politico si fondono e si confondono dandosi mutualmente il destro: ora sono i politici che invocano le aspettative de «i mercati» finanziari per deliberare compatti a scapito dei cittadini, che delegano agli oligopolisti della rete la censura delle dissonanze; ora sono invece i colossi dell’informatica, della finanza, della farmaceutica e delle armi che contano sui politici per promuovere i loro prodotti e, come accade sempre più spesso, renderne obbligatorio il consumo saltando a pie’ pari l’incomodo di convincere i contribuenti-acquirenti. Grazie alle commesse e agli obblighi di Stato i produttori dominanti consolidano il loro dominio eguagliando o superando i bilanci di intere nazioni e mettendosi così al riparo da ogni remota ipotesi di concorrenza. Dove l’offerta non si può rifiutare non esiste domanda, né quindi mercato – economico o politico che sia. In questa mischia non si distinguono più gli attori, sicché anche la classica dialettica pubblico-privato perde mordente. Entrambi i poli convergono verso un modello autocratico di imperativi, requisiti, agenda, parole d’ordine e sorveglianza in cui il forte detta la via, il debole può scegliere se farsi convincere… o trascinare. Matura così il seme piantato da tanti eroi del libertarismo, del liberismo e delle liberalizzazioni, della libertà di pochi al costo della libertà di tutti: there is no alternative. Non c’è alternativa.

Nelle more di questa crisi possiamo chiederci, astenuti e non, se sia stato questo un esito incidentale, inevitabile o desiderato.

Comments

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AlsOb
Saturday, 24 September 2022 20:20
Non manca di suscitare una certa simpatia estetica, a essere condiscendenti, questo volenteroso sforzo di miscela fenomenologica di mercato delle merci, mercato della politica o delle forze politiche e opzione astensionistica, nel tentativo di proporre una personalistica e originale descrizione dello stato o evoluzione della democrazia rappresentativa borghese.
Il risultato tuttavia è deludente e ambiguo, per la natura semplicistica, convenzionale e fragile dell'arrchitettura categoriale utilizzata, e persino ilare per la seriosa e sconclusionata domanda finale, (per lo meno involontariamente mette di buonumore).
Se per un certo verso potrebbe essere minimamente accettabile, in termini di senso, la fabbricazione di una corrispondenza tra tasso effettivo di libertà di mercato (secondo un canone marxiano- vero teorico dei mercati- e non pseudometafisico neoclassico) e tasso di democrazia borghese, è però fuorviante e equivoca l'istituzione di una falsa similitudine tra la struttura di potere economico e produttivo del capitalismo e la struttura derivata della dimensione e rappresentanza politica, interpretate sostanzialmente come paritarie e indipendenti.
La sfera politica riproduce e ridefinisce la brutale guerra di classe propria del capitalismo e la circoscrive allo spazio propositivo e di confronto rappresentativo parlamentare. Siccome il rapporto di forze all'interno di un parlamento non dovrebbe in teoria essere lo stesso che si ha nella struttura reale di potere del capitalismo, la classe dominante, che dispone di ampie risorse e tempo libero, si ingegna e impegna senza sosta, per fabbricare il più accurato isomorfismo tra i due spazi, quello reale e quello rappresentativo. Il suo successo è tanto maggiore quanto più le forze politiche sono simili a merci da supermercato omologhe, differenziate unicamente da una conveniente etichetta e manovrate dagli stessi potentati.
Da quando la classe dominante, (che già amministra il sistema dell'informazione "mainstream" e di istruzione), ha catturato i partiti ufficiali di sinistra, il neoliberalismo fascista si è imposto senza restrizioni, la concentrazione di ricchezza è avanzata in modo impressionante (da minare le basi della democrazia borghese e imporre un capitalismo regressivo neofeudale), intanto che in parallelo è fiorita, per stordire gli sprovveduti delle classi inferiori, la farsa dell'antifascismo, limitata a figure e organizzazioni folcloristiche o a stigmatizzare i partiti populisti, cresciuti sullo scontento delle classi medie o piccoloborghesi impoverite.
Non esiste alcuna corrispondenza tra i fenomeni del non acquisto di merci al supermercato e di astensione del voto, per essere le due dimensioni incommensurabili: la politica è guerra e l'astensione diserzione.
Se non esistono partiti effettivamente di sinistra, da un punto di vista teorico marxiano e leniniano si può ripiegare e votare chiunque rappresenti un minimo grado di possìbilità di reale antagonismo e incidenza nel conflitto contro le forze socialmente e economicamente più regressive dominanti e per il contenimento delle loro politiche.
Se una società non è in grado di esprimere un movimento e partito di sinistra di riconoscibile spessore intellettuale e peso politico, non esistono le condizioni, per di più in situazione di monopolio parlamentare esercitato dalla classe dominante, di saltare in fantomatiche forme rivoluzionarie, il nulla riproduce il nulla, ancorché accadano ribellioni alla the joker.
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