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Un #Grillo qualunque

WM2 intervista Giuliano Santoro

È in libreria soltanto da due settimane, ma ha già attirato l’attenzione di quotidiani, blog, radio, tivù. Complice il successo dei 5 Stelle in Sicilia, certo, ma soprattutto grazie all’analisi profonda e multiforme che Giuliano Santoro ha dedicato a Grillo e al suo movimento. Un’analisi che riesce ad essere, nello stesso tempo, mirata e di ampio respiro, capace di prendere il largo a partire dal suo oggetto di indagine, per illuminare temi e questioni che spesso hanno fatto capolino anche qui su Giap: dalla “cultura di destra” al feticismo digitale, dal razzismo alle narrazioni tossiche. Nei ringraziamenti finali, l’autore cita per nickname alcuni giapster molto assidui e in generale tutta la comunità che si ritrova in questo blog, per avergli fornito un terreno di confronto. L’intervista che segue vuole essere anche un’opportunità per riprendere e rilanciare la discussione.


Una delle caratteristiche più interessanti del libro è la sua capacità di smontare alcune presunte “novità” del Movimento 5 Stelle, per tracciarne la genealogia e svelarne il contenuto ideologico. Al netto di questo prezioso lavoro, resta però uno scarto davvero inedito per il panorama politico italiano: quello di un movimento che partecipa alle elezioni senza candidare la sua personalità più in vista. Questo aspetto mi pare una novità anche rispetto al populismo, che tu definisci come “la capacità da parte di un leader di costruirsi attorno un «popolo» che gli corrisponda in pieno, mortificando le differenze e appiattendo le ricchezze”. Il leader populista, al momento delle elezioni, diventa così l’insostituibile candidato della sua gente. Grillo invece si sottrae, fa il “garante” del movimento: che ne pensi di questa sua rottura del rapporto classico tra capo e popolo?


Lo scarto di cui parli è uno dei tanti paradossi del grillismo. Provo a descriverlo: nell’era della crisi della rappresentanza politica, e della sua incapacità – diciamo così – di far da contrappeso al mercato, ecco che spunta un movimento carismatico che in nome della “democrazia diretta” (concetto che, come spiego nel libro, viene utilizzato come feticcio ideologico) punta tutto sulle elezioni per costruire il rinnovamento. È una contraddizione non da poco: Grillo all’inizio degli Anni Zero affrontava i grandi temi della globalizzazione, del global warming e della guerra spiegandoci che contava di più il modo in cui si faceva la spesa che la scheda che si metteva nell’urna. Era un modo per ribadire che il vero potere si trovava altrove, nel mercato e nelle multinazionali, e che i partiti erano solo sovrastruttura. E invece, negli ultimi due anni, siamo arrivati al punto che il Movimento 5 Stelle non fa altro che organizzare campagne elettorali permanenti, compilare liste di candidati, polemizzare con gli altri partiti. Paradosso nel paradosso: Grillo – capo carismatico, trascinatore di masse e fondatore del Movimento – almeno per il momento non si candida e anzi trae forza da questo non mescolarsi con “la politica”. Ciò forse avviene perché in questo modo è come se tutti i candidati fossero Grillo. A meno che qualcuno non sia così ingenuo da pensare che i voti li prendono i cittadini che spauriti compaiono a fare da scenografia ai comizi-spettacolo del comico-leader.


Marco Vagnozzi, consigliere 5 Stelle a Parma,  ha dichiarato che “Beppe è il padre del Movimento”. Un padre che a volte si comporta da padrone (il simbolo del movimento è di sua proprietà) e altre da nonno (non partecipa alla contesa elettorale – tipico atteggiamento del vecchio che “ha già dato” – e manda i figli allo sbaraglio). Su Giap abbiamo a lungo discusso intorno alla “evaporazione del padre” nella politica italiana. Una politica nella quale non è possibile rintracciare in maniera chiara le due metafore familiari con cui Lakoff spiega il bipolarismo americano: da una parte il Padre Severo – cioè il partito repubblicano – dall’altra i Genitori Comprensivi – ovvero i Democratici.

Abbiamo visto come Berlusconi ha colmato questo vuoto con il vuoto del godimento obbligatorio. E Grillo? Che tipo di (non-)padre è? Un padre adottivo? Un tutore di orfani?


Tentando di illustrare cosa ci fosse davvero all’origine di quella «comunità immaginata» che chiamiamo nazione moderna, Benedict Anderson ha spiegato che essa è un «artefatto culturale di un particolare tipo» che rimette in moto anche i meccanismi di appartenenza ancestrali (ed escludenti) che tengono in piedi la famiglia. Dunque, la nazione di Anderson viene descritta come «organismo sociologico che si muove ordinatamente in un tempo vuoto e omogeneo» e funziona come la famiglia allargata ma in fondo tradizionalista di Papi-Berlusconi: attraversa le differenze e inventa storie e tradizioni a uso e consumo del consenso.

Giustamente tu ricordi come il linguista George Lakoff abbia sostenuto che questo richiamarsi ai rapporti familiari appartiene a una sfera inconscia molto profonda, tanto che la politica conservatrice e quella progressista sarebbero legate a due modelli diversi di vita coniugale.

Umberto Saba affermava che solo col parricidio inizia una rivoluzione – e questo ci fa pensare anche a una celebre teoria freudiana. Ma, proseguiva il poeta triestino, siamo nel paese delle mancate rivoluzioni perché «gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli». Tutto ciò ha a che vedere col padre severo e con i genitori premurosi di Lakoff, ma riguarda anche il «Papi» del Ventennio breve berlusconiano, soggetto complice, un po’ morboso e – in quanto per alcuni aspetti oltre i generi, glabro come Lele Mora e il nostro Silvio – forse anche materno. In questo quadro, Beppe Grillo è lo zio che appare permissivo ma che non consente che si vada oltre una certa soglia di libertà. Grillo è quello che ci porta in giro a trasgredire, ma solo dentro il recinto che lui stesso ha costruito. Nello specifico, come spiego nel libro analizzando le vicissitudini dei 5 Stelle, questo confine è stabilito in termini tematici e geografici. In termini geografici, ognuno deve restare sotto il suo campanile : ai grillini è fatto divieto di costruire organizzazioni nazionali e coordinamenti tra diversi territori (quando ci provò, Valentino Tavolazzi venne epurato). In termini tematici, l’unica arma mediatica che detta l’agenda e la linea del Movimento 5 Stelle è il sito di Beppe Grillo. Ecco perché il Nostro non tollera che si vada in televisione.


Ho trovato molto interessante la tua analisi di alcune sconfitte elettorali del M5S. Dai comuni della Val Susa alla Vicenza dei No Dal Molin, dalla Milano di Pisapia alla Napoli di De Magistris, appare chiaro che i Cinque Stelle si trovano in grave imbarazzo di fronte a due componenti: un movimento territoriale forte e la candidatura di outsider che rompono il frame “Grillo contro La Casta”. In un certo senso, credevo che questo schema fosse valido pure a livello nazionale: di fronte al montare della crisi economica e all’avvento di Monti, nel novembre 2011, Grillo è rimasto interdetto, balbettante. Poi però si è ampiamente ripreso: la crisi non molla, Monti è ancora lì, eppure il M5S ha sondaggi che lo danno al 20% sul territorio nazionale. Come ti spieghi questa sua forza montante?

Quanto a Vicenza e Val Susa, la risposta è semplice: dove ci sono movimenti veri, i grillini non attecchiscono, o almeno non sfondano “a sinistra”. Qualcuno potrebbe pensare che nelle terre dei No Tav è successo esattamente il contrario, ma non è così: in Valle le liste a 5 Stelle hanno preso molti voti alle regionali, ma a quei voti non corrisponde mobilitazione reale. Mi sembra che quella di votare Grillo e non votare (come in molti avevano fatto) i partiti della fu sinistra, sia stata una scelta tattica da parte di una parte di un movimento autonomo e autorevole, che non si fa incantare da Grillo anche se per certi versi gli è riconoscente per aver parlato delle ragioni contro l’Alta Velocità quando non ne parlava nessuno.

Veniamo a Monti. Grillo dapprima è rimasto spiazzato perché il presidente del consiglio proponeva soluzioni “né di destra né di sinistra” e commissariava la politica, rompeva gli schemi dei suoi monologhi elettorali. Poi ha prevalso un’altra immagine, quella di un governo sostenuto praticamente da tutti i partiti presenti in parlamento, una sorta di ammucchiata della “Casta” contro la “Gente”. Il fatto che i partiti abbiano abdicato prima ai diktat della Banca centrale europea e poi al commissariamento impostole da Napolitano e Monti, in parallelo al crollo della Lega e del Pdl, hanno creato le condizioni per il boom elettorale del Movimento 5 Stelle.

Il risultato è, ancora una volta, paradossale: in tutta Europa, e anche negli Stati Uniti per certi versi, la gente protesta contro le politiche di austerità, tenta di organizzarsi dal basso per rompere la gabbia dei sacrifici. In Italia, dove pure abbiamo una certa tradizione quanto a movimenti sociali, tantissime delle persone che potrebbero mobilitarsi si limitano ad aspettare il giorno delle elezioni, per poter sostituire quelli della “Casta” con altri eletti, che peraltro non si sa come vengano scelti e messi in lista. Come se questo davvero potesse cambiare la situazione.

Anche a questa contraddizione è legata l’urgenza di scrivere questo libro, che si rivolge a tutti quelli che orientano la loro rabbia verso obiettivi sbagliati e alla ricerca di soluzioni inesistenti. Grillo non è la risposta giusta perché risponde ad una domanda erronea in partenza. Grillo non risponde alla domanda “Come facciamo a costruire altre relazioni di potere e di produzione?”. Oppure, non si chiede: “Come si fa a ottenere una più equa distribuzione della ricchezza?”. La domanda alla quale risponde Grillo è “Come si fa ad andare nei palazzi del potere al posto di quelli là?”.


Si sente dire spesso che il M5S è un prodotto della Rete, di un nuovo modo di comunicare e coinvolgere, del fantomatico “popolo di Internet” emerso negli ultimi anni. Tu invece metti in stretto rapporto la “neotelevisione” che ha plasmato Grillo (con Antonio Ricci in prima fila) e la retorica partecipativa del web 2.0. E’ spiazzante ricordare come Nino Frassica, il “bravo presentatore” di Indietro Tutta, facesse la satira di una certa mentalità già nel 1988: “grazie a chi ha partecipato, e anche a chi non ha partecipato, perché la trasmissione la fate voi da casa”. L’accento sul “tu”, sul consum/attore, sul “prosumer” pervadeva la logica dei media già molto tempo prima che Time scegliesse “You” come personaggio dell’anno (2006). Il diffondersi del web ha ingigantito questa logica, presentandola tout court come un meccanismo liberante, come un dispositivo che genera di per sé “intelligenza collettiva”, collaborazione, qualità. Una certa “mistica della Rete” attraversa così progetti molto diversi e distanti nel tempo: dalla rivista Decoder a Indymedia, da Wikipedia al Movimento 5 Stelle. Dove stanno, secondo te, le principali differenze?

Intanto c’è una differenza numerica: i primi nodi della rete telematica italiana appartenevano al mondo underground, erano avanguardie di un movimento e spesso venivano dalla stessa cultura. Conservo i numeri di Decoder con devozione e devo dire che, al netto di qualche entusiasmo eccessivo per le nuove tecnologie, quella rivista aveva avuto la capacità di cogliere le possibilità della telematica, prima ancora di Internet, legandole ad un’analisi avanti rispetto ai tempi sulla composizione sociale e produttiva nel nostro paese. Allo stesso modo, al netto di tutti i limiti, non possiamo negare che col movimento di Seattle Indymedia ha rappresentato un esperimento imprescindibile per fare informazione dal basso.

Il problema nasce quando la massa entra in Rete. Perché lo fa proprio in quanto “massa” indistinta, senza coscienza di essere “parte” o di rappresentare un preciso interesse o almeno una determinata cultura. Non è un caso che molti dei grillini della prima ora rivendicassero di rappresentare il 100 per cento della popolazione italiana. Una pretesa che aveva e ha qualcosa di inquietante.

Mi viene in mente “Reality”, l’ultimo film di Matteo Garrone. Racconta in maniera molto plausibile, con estremo realismo, la storia di un uomo che lentamente, in maniera impercettibile e quasi senza che i suoi familiari se ne accorgano, scivola verso l’ossessione per l’apparire. L’unica ad allarmarsi è la moglie del protagonista, tutti gli altri proseguono l’attività quotidiana e le dicono “Ma no! Poi gli passa”, oppure addirittura assecondano il delirio dell’uomo, incoraggiandolo a perseguire l’insano proposito di divenire finalmente qualcuno passando per il tritacarne del protagonismo mediatico.

C’entra tutto questo con la “mistica della Rete”? Secondo me sì. Perché dal punto di vista culturale, non tecnologico, un nuovo mezzo di comunicazione si afferma solo quando è in grado di rispondere alle domande che aveva suscitato quello precedente. Questo avviene oggi con il Web 2.0 in relazione alla televisione. Saremmo degli ingenui se pensassimo che un paese che per trent’anni è stato egemonizzato dal piccolo schermo all’improvviso diventasse il laboratorio della comunicazione interattiva. Ed è una menzogna dividere con l’accetta i media, come fa Grillo, dicendo che da una parte c’è “la Rete” e dall’altra “la Televisione”. I media si muovono nello stesso ecosistema.

Ogni giorno 14 milioni di italiani, un numero impressionante, si collega a Facebook e si mette in questa gigantesca vetrina. Pensano di diventare famosi? Ovviamente no. Ma giocano a esserlo. Allo stesso modo, molti giocano a fare la Rivoluzione a 5 Stelle, postano messaggi indignati, si mostrano attenti alle cause più disparate. Non tutti saranno prigionieri di questo schema, ma io penso che per la maggior parte degli elettori che ha prodotto il boom elettorale di Grillo sia così. Tant’è vero che all’esplosione di consensi per il M5S non ha corrisposto un aumento dell’attività dei MeetUp o una maggiore partecipazione dal basso. È solo questione di rappresentazione e voti, cioè di delega e non di reale democrazia diretta.


Poche settimane fa, parlando con WM4, ci dicevamo che soltanto in Italia poteva arrivare un comico ad occupare il vuoto politico creato dalla combinazione di crisi economica e crisi della rappresentanza. In altri paesi europei quello stesso vuoto è stato sfruttato da formazioni di estrema destra, ma pur sempre “interne” al sistema dei partiti e senza eccessivi personalismi. Da noi – ci dicevamo – la cultura democratica è più debole e la voglia di leader spettacolari è sempre molto forte. Leggendo il tuo libro mi sono accorto che quella conclusione, tirata giù in due minuti, era doppiamente sbagliata. Da un lato ci sono le affermazioni elettorali dei Pirati tedeschi, una formazione radicalmente diversa dai partiti tradizionali, per quanto priva di un leader carismatico paragonabile a Grillo. Dall’altro c’è l’esempio di Coluche, il comico francese che nel 1981 si candidò per l’Eliseo (con il sostegno di Gilles Deleuze) e nel 1985 recitò con Grillo in “Scemo di Guerra”. C’è qualcosa di simile tra queste due esperienze e il M5S, oppure è tutta un’altra storia?


Intanto una premessa. Grillo dice: “Ringraziate che ci sono io, altrimenti ci sarebbero stati i neonazisti”. Ora, a parte il fatto che non ci vuole molto ad essere “meglio dei neonazisti”, e su questo concorderebbe chiunque appartenga al consesso civile, questa è più un’affermazione minacciosa che rassicurante. Come a dire “Li tengo a bada io, questi disperati”. Se fossi un elettore dei 5 Stelle mi incazzerei.

Il Partito Pirata ha molte analogie con il Movimento 5 Stelle. C’è la grossa differenza della struttura proprietaria e verticistica messa in piedi dallo Zio Beppe. Ma li accomuna un’ideologia profondamente liberista. Sia i grillini che i piraten, in fondo, pensano che la Rete serva a ristabilire la libera concorrenza, che in questo spazio virtuale si possa realizzare l’utopia liberale della “mano invisibile” che premia i più meritevoli e fa vincere la “verità”. Ancora una volta: non esistono classi, rapporti di forza, conflitti. Esistono solo individui che finalmente avrebbero opportunità di realizzarsi. Quelli del Partito Pirata, ad esempio, sono a favore del reddito minimo garantito perché sostengono che questo permetterebbe a chiunque di concorrere sul mercato in maniera più efficace. Il reddito non è un diritto, è uno strumento per perfezionare il funzionamento della libera concorrenza.

Citi poi l’esempio di Coluche. Sicuramente il comico francese ha influenzato Grillo e come ricordavi i due hanno avuto anche occasione di conoscersi. Coluche annunciò la sua candidatura nel contesto francese di crisi economica e politica che poi aprì le porte all’era del socialista Mitterrand. Senz’altro utilizzò la sua fama e la sua abilità attoriale per arrivare al 16 per cento nei sondaggi, ma non si mise in testa di costruire una vera e propria organizzazione politica. Oltretutto Coluche era uno che, per capire il suo spirito provocatorio, usava le strisce di cocaina come segnaposto. Grillo al contrario è in fondo rassicurante, non nasconde mai la cultura piccolo-borghese dalla quale proviene. Tutt’al più dice qualche parolaccia. La candidatura di Coluche serviva a rompere gli schemi, non a costruire un altro potere. Credo che in questo senso sia stata appoggiata da fior di intellettuali come Deleuze, Bordieu o Touraine. Da questo punto di vista, la discesa in campo di Coluche ricorda quella di Jello Biafra, il cantante dei Dead Kennedys che nel 1979 si candidò a sindaco di San Francisco, arrivando quarto con oltre il tre per cento dei voti. Il suo programma prevedeva ad esempio che, in tema di “sicurezza dei cittadini”, i poliziotti utilizzassero costumi da clown al posto della divisa o che i detenuti venissero trasferiti nei campi da golf della contea per facilitarne la riabilitazione.


A proposito di comicità, c’è un paragrafo molto importante del libro dove utilizzi Eco, Bartezzaghi, Serra e Pirandello per spiegare come Grillo possa tramutare la cassetta degli attrezzi del comico in macchina elettorale. Poiché la comicità si basa sulla sintesi e la semplificazione, Grillo è libero di semplificare a tutto spiano, e dunque di liberarci dal peso della complessità. Allo stesso tempo, in quanto comico, non deve rispondere delle sue banalizzazioni, ha una sorta di immunità teatrale. Inoltre – scrivi citando Eco – la risata del comico è causata da una trasgressione per interposta persona. Presuppone l’esistenza di una regola, molto ben radicata, e poi la trasgredisce per conto del pubblico. Funziona quindi in base a un meccanismo di delega e all’istituzione di una gerarchia. Per questo, a differenza della tragedia, la comicità non sarebbe davvero catartica e liberatoria. Su questo punto non sono del tutto d’accordo: certo finché sono seduto in poltrona, a teatro, delego il comico a dissacrare per conto mio, ma una volta che mi alzo e torno per strada, non è detto che quanto ho visto e sentito non mi responsabilizzi, proprio perché sul palco non c’è più nessuno, e dunque la delega non funziona più: tocca a me trasgredire. Il problema mi sembra nascere quando il ruolo del comico deborda e diventa leader politico, fondatore di un movimento. Allora anche la delega deborda e investe l’agire politico di chi si riconosce in quel capo carismatico. Chiediamo al comico-leader di trasgredire le regole al posto nostro, così come chiediamo all’eroe-leader di aver coraggio al posto nostro, e al magistrato-leader di fare giustizia al posto nostro. Ma è il farsi leader, la personalizzazione, che attiva le tossine insite nel comico, nell’eroe, nel magistrato e in molte altre maschere della commedia umana. Tu che ne pensi?


Attenzione. Ovviamente non sostengo che la comicità sia in sé una forma di deresponsabilizzazione. Bisogna inserire quel paragrafo nel contesto del ragionamento più ampio, che va oltre Grillo. Dopo l’ennesimo dibattito tra Barack Obama e Mitt Romney, allo scrittore statunitense Paul Auster è stato chiesto cosa ne pensasse, come era andata… Auster ha risposto più o meno così: “Non parliamo di politica o di contenuti, si tratta di commentare una performance attoriale”. Nel libro cito il memorabile speech di Arthur Miller sul rapporto tra il mestiere di politico e quello di attore, che è illuminante da questo punto di vista. Pensiamo alle primarie del Pd e a come è stato rappresentato lo scontro tra i due principali contendenti: da una parte c’è Matteo Renzi, un candidato che ha debuttato come concorrente de “La Ruota della Fortuna” e che ha scelto come spin doctor uno degli artefici della televisione berlusconiana come Giorgio Gori.

Dall’altra c’è Pierluigi Bersani, che viene da un altro mondo, quello del Pci emiliano e delle riunioni di partito, ma che è stato umanizzato dalle battute di Maurizio Crozza (il tormentone “Ma ragassi, siam mica qui a smacchiare i leopardi” e via metaforizzando). Bersani ha scelto come portavoce Alessandra Moretti, che i giornali accostano al mito di bellezza degli anni Ottanta Carol Bouquet e che proprio pochi giorni fa ha mostrato ai cronisti le foto del segretario Pd da giovane e ha detto “Non sembra Cary Grant?”.

Tutto questo per dire che la relazione, sempre esistita, tra recitazione e politica va infittendosi sempre di più. Grillo è un effetto di questo meccanismo, non la causa. Dunque – ed eccoci alla comicità – avanzando nel ragionamento arrivo a chiedermi: come mai il primo attore che diventa leader politico (e non come di consueto il politico che deve anche imparare a fare l’attore) è proprio un comico? La risposta è quella che sintetizzavi tu. Da una parte la comicità è sempre a rischio populismo perché una battuta funziona quando è semplice e comprensibile e uno dei tratti del populismo è proprio il rendere semplici i problemi complessi. Dall’altra, ridere significa delegare la trasgressione. Rido perché qualcuno fa una cosa che io non farei mai: tirare la torta in faccia a qualcun altro invece di mangiarla o mandare a quel paese il potere. Quindi quella risata, paradossalmente, rafforza la regola invece di metterla in discussione. Se la regola sottesa (le torte si mangiano e non si tirano in faccia al primo che passa e il potere non si manda a quel paese) fosse messa in discussione il comico non farebbe più ridere. Non avrebbe motivo di esistere.

Il libro contiene una specie di disamina dello schema argomentativo (che si ripete sempre uguale) del troll grillista. È uno schema che ha dato vita anche a un gruppo su Facebook che parodizza le campagne emozionali di Grillo e che si chiama “Siamo la gente, il potere ci temono”. Il blogger (e giapster) Jumpinshark ha scritto una vera recensione di Un Grillo Qualunque utilizzando questo linguaggio.

Proprio ieri ho partecipato ad un dibattito televisivo su Beppe Grillo. In studio c’era anche un grillino, un imprenditore del varesotto ex leghista e forzitaliota che ora aveva scelto la causa del Movimento 5 Stelle. Quando la conduttrice gli ha chiesto cosa del programma di Grillo lo convincesse particolarmente, lui ha risposto (cito a memoria): “Ci ha fatto vedere la luce. Per noi Grillo è una luce in fondo al tunnel”. Pochi minuti fa, invece, una elettrice grillina mi ha scritto su Facebook che “La democrazia partecipata è un concetto unitario e unificante”. Ecco degli esempi di “idee senza parole” dei grillini. Alla radice della loro ideologia pret-a-porter c’è qualcosa di inspiegabile, inesprimibile, irrazionale. Altro che intelligenza collettiva: Grillo muove emozioni, dà vita ad un impasto di politica, spot pubblicitari e sentimenti che ricorda il ragionamento di Furio Jesi di cui avete scritto più volte su Giap. Non a caso Jesi utilizza il concetto di “idee senza parole” utilizzato da Spengler anche per ragionare della civiltà dei consumi, degli spot pubblicitari, dei romanzetti rosa di Liala.


Nelle conclusioni del libro scrivi: “Peccheremmo di schematismo se dicessimo che Beppe Grillo è la prosecuzione di Berlusconi con altri media”. Primo, perché il blog di Grillo è un esempio di “uso televisivo della rete”, comunicazione verticale con una spruzzata di partecipazione (i commenti, dove peraltro il comico non interviene mai). E secondo? Giorni fa Vittorio Feltri ha sostenuto che il Berlusconi degli esordi non è nemmeno paragonabile a Grillo, ma che ogni epoca ha il suo Berlusconi, e in questa ci beccheremo Grillo. Quindi, senza peccare di schematismo, il paragone ti sembra fattibile oppure no?


Non è la stessa cosa, ma le analogie ci sono: il partito-azienda privato, l’utilizzo degli schemi televisivi e dei video fatti in casa per parlare agli elettori, l’utilizzo del Corpo per superare la divisione tra Politica e Intimità (la traversata dello Stretto di Messina a nuoto compiuta da Grillo ha molto a che fare con il reality show sul Corpo di Silvio mutante). Il problema è che abbiamo chiuso frettolosamente l’era berlusconiana, non abbiamo capito cosa abbia significato davvero, che scorie culturali abbia lasciato nel nostro paese. E quindi ci troviamo ad avere un oppositore che forse opera in modo diverso ma sicuramente si muove, come direbbe Vincent Vega in Pulp Fiction, “nello stesso fottuto campo da gioco”.

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Per chi vuole farsi un’idea delle reazioni, recensioni, interviste e approfondimenti che sono fioriti in queste due settimane intorno a Un Grillo Qualunque, Giuliano Santoro ha messo insieme un breve indice sul suo blog.

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