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Nel nome della Governabilità

di Walter G. Pozzi

E così, dopo la nuova tornata elettorale, riecco sulle bocche di media e politica la parola ‘Ingovernabilità’. questa sarebbe secondo loro la disgrazia del Paese.

La Governabilità, che la politica auspica sin dalla notte dei tempi, è un oggetto misterioso.

Che cosa intenda chi, al potere, la pronuncia, non è mai spiegato con sincerità. Possiamo dire che, espressa in una feroce sintesi di governo, cosa questa comporti all’atto pratico gli italiani lo hanno sperimentato con Mario Monti: un’amministrazione fortemente connotata a destra che, in perfetto accordo con i dettami neoliberisti, preveda, attraverso lo smantellamento del welfare state, una macelleria sociale, nonché la messa al bando di qualunque protezione legislativa per i lavoratori. Nello specifico: risanare le banche con soldi pubblici, tassare i ceti medio-bassi e votare la legge Fornero con l’allegro avallo di Berlusconi e Bersani, il quale, quest’ultimo, è in seguito tornato in campagna elettorale con la vecchia maschera, proponendosi come forza di sinistra, chiamando come fideiussore di fronte al proprio elettorato il mite Vendola. Anche questa è Governabilità e comporta dei premi per i propri attori. Lo stesso Vendola, oggi, accettando di allearsi con il Pd che ha fatto da stampella al governo Monti, in realtà viene a raccogliere un premio per il lavoro sporco fatto ai tempi della candidatura di Veltroni, nel momento in cui questi, nel 2008, aveva deciso di correre da solo – ovvero senza Rifondazione comunista – rimanendo trombato – il che era scritto sulla tabula rasa del suo vuoto politico – ma raggiungendo l’obiettivo di rendersi presentabile agli occhi di Confindustria.

Contropartita del premio che oggi Vendola vorrebbe riscuotere entrando in Parlamento, è stato il suo distacco da Rifondazione comunista, per eliminare dal panorama politico ufficiale l’unica voce in rappresentanza dei lavoratori. Un magro bottino che gli piove dall’alto, dato che in risposta il suo elettorato lo ha punito, abbandonandolo al suo destino di traditore.

Queste manovre, allora come oggi, vengono messe in atto ponendo ai piedi del Totem neoliberista le teste, mozzate e disposte in fila, dei lavoratori italiani salariati, precari o meno. Il lugubre pianto di Moody’s alzato verso il cielo italiano, per la paura che da noi si blocchino le riforme, parla di questo: del sogno tirannico dei capitani d’industria e dei Tycoon della finanza.

Governabilità. Il portato di questo termine racconta di una lunga storia fatta di compromessi, di finti riformismi (meglio dire auto-riformismi, trattandosi sempre di una dialettica interna agli interessi del padronato) e di trasformismi parlamentari; traffici nei quali la sinistra l’ha sempre fatta da protagonista. A questo proposito, per iniziare il discorso, occorre sfatare un luogo comune: l’idea che Berlusconi abbia governato per vent’anni, ovvero sin dall’inizio della sedicente seconda Repubblica. Tutti gli anni novanta, in realtà, tra governi tecnici e governi Amato, Ciampi, fino al quinquennio Prodo-D’Alemiano, sono stati in mano al centro-sinistra. Un decennio in cui, caduto l’impero sovietico, sono stati avviati le privatizzazioni, il federalismo, lo smantellamento del welfare state, il precariato lavorativo, la tassazione selvaggia, è stato bombardato il Kosovo e introdotto in pianta stabile il concetto di guerra giusta e di missione di pace. L’Italia di oggi, senza soldi, sottopagata, sfrattata, senza lavoro, assediata e colpita casa per casa dal racket di stato è nata lì. Con la morte del pensiero di sinistra e la consegna chiavi in mano nelle mani di un potere economico e finanziario senza più freni.

“E adesso: governabilità e riforme!”, tuonava, sempre nel 2008, il presidente della Repubblica napolitano, dopo l’elezione di Berlusconi. E intanto, per dare il buon esempio su cosa intendesse dire, come primo gesto di buona volontà firmava a tempo di record l’incostituzionale Lodo Alfano, per sottrarre il Cavaliere ai vari processi.

Il principio primo del termine Governabilità include due imposture, accettate ormai da ogni italiano di buon senso, educato ad ascoltare i ripetitori dell’informazione ufficiale, che vuole, da una parte, la produzione capitalistica come finalizzata alla soddisfazione dei bisogni umani, invece che al profitto privato; e, dall’altra, canta la filastrocca di uno stato imparziale, neutrale, con il compito di mediare tra gli interessi del Capitale e quelli dei lavoratori. Cosa non vera, perché lo stato altro non è che un pupazzo in mano a un ventriloquo.

Eppure, per un curioso spostamento irrazionale del senso, gli italiani, pur sapendo che di imposture si tratta, mostrano di credere a entrambe le favole recandosi in massa alle urne, con entusiasmo rinnovato, a ogni tornata elettorale, convinti che in gioco ci sia la possibilità di migliorare le cose per sé. Non creano il collegamento logico, come a dire: basta la parola nuda e cruda (come per il confetto Falqui), senza pensare che la parola non è solo un suono bensì un significante. Senza pensare che il potere economico non ha paura del voto perché ha in mano il monopolio elettorale.

Storicamente, la parola Governabilità coincide con le peggiori brutture politiche che il potere economico ha di volta in volta chiamato a governare il proprio interesse privato. La più nota di tutte è stata il fascismo. Un argomento su cui l’ipocrisia regna sovrana ancora oggi. La battuta di Berlusconi su Mussolini rilasciata in pieno Giorno della memoria, durante i giochi pirici della campagna elettorale, risuona ancora nella memoria di tutti. Difficile capire quando il personaggio parli da imprenditore o da politico; è probabile che quando tocca il tema del fascismo in lui prevalga la coscienza del primo più che del secondo, ma, come dice il detto: ci sono menzogne in paradiso e verità all’inferno. L’ipocrisia per una volta, infatti, non riguarda lui, bensì le risposte cariche d’indignazione degli altri politici che fingono oltre ogni ritegno, a copertura della verità storica, che il fascismo sia stato esclusivamente una vergogna politica e non l’abito con cui il potere economico ha rivestito i propri interessi privati.

Scartabellando tra le pagine della storia, emergono i soliti nomi tra i finanziatori e i beneficiari dell’operato di Mussolini; i soliti grandi trust che, pur di realizzare profitti altissimi, non si fanno scrupoli: Ilva, Ansaldo, Montecatini, Fiat ecc. che, al termine della prima guerra mondiale, hanno ottenuto dallo Stato commesse, esenzioni fiscali, premi di produzione, sovvenzioni, arrivando così a creare una compenetrazione tra capitale economico-finanziario e Stato che diverrà il fattore principale della crisi di allora e la molla più potente del fascismo e della sua politica. Nel nome della Governabilità, il fascismo ha provveduto senza indugi a distruggere quarant’anni di conquiste proletarie (o dei lavoratori, per usare una parola meno connotata politicamente, tanto il concetto è chiaro). È stata la messa al potere di una forma politica dittatoriale, la risposta degli industriali al biennio rosso.

La storia ha la virtù della chiarezza, e aiuta, nell’ottica di un’analisi di quanto accade ancora oggi, a mostrare quanto sia importante andare oltre la crudeltà (che indubbiamente c’è stata) della dittatura e focalizzarsi su chi da sempre, senza soluzione di continuità, detiene realmente i fili del potere. Oggi il fascismo non ha più ragione d’essere, perché – al contrario di allora – non esiste più un partito in grado di canalizzare su di sé, nell’agone parlamentare, la spinta delle richieste di riconoscimento di una dignità economica da parte dei lavoratori salariati. Oggi il malcontento muore nel silenzio politico e nell’impossibilità, costruita attraverso l’abbattimento legislativo di ogni diritto, dei lavoratori di organizzare una protesta. Oggi che non esiste più un vero partito di opposizione di massa, capace di proporre un’alternativa al sistema di produzione capitalistico e di farsi portatore degli interessi dei lavoratori, lo squadrismo ha un’altra struttura, e invece del manganello e dei coltelli, usa altre minacce che si chiamano delocalizzazione, patto di stabilità, spread e tutte le varie forme di speculazione finanziaria, precariato, frammentazione dei contratti lavorativi, casa di proprietà e prestiti al consumo. Cambia quindi la politica, ma non cambiano i parassiti dell’economia e della finanza, nei panni delle nuove generazioni di capitani d’industria. Da questo punto di vista, gli Shylock italiani non hanno mai abdicato al fascismo, perché non hanno cambiato la concezione della loro società modello, basata sullo sfruttamento senza limiti del lavoratore. Ed è lì da vedere.

La crisi ha portato il Capitale alle consuete, drastiche soluzioni per mantenere inalterati gli alti profitti. Il nuovo modello di organizzazione del lavoro ha avuto la funzione di aumentare le ore e l’intensità della giornata lavorativa – basti ricordare la guerra di Marchionne contro la Fiom per ridurre i tempi di pausa degli operai – abbassare drasticamente i salari a seguito delle ristrutturazioni e delle molteplici fusioni aziendali, abbattere il welfare state, precarizzare il mondo del lavoro, obbligare molti lavoratori, un tempo assunti, a passare alla partita Iva e a vivere sotto ricatto a seguito dell’ingresso di milioni di lavoratori stranieri a basso costo nel mercato mondiale del lavoro che ha reso pressoché nulla la possibilità di negoziazione delle organizzazioni sindacali a cui i lavoratori fanno capo. Sono queste le riforme, ancora non del tutto concluse, che l’Europa chiede all’Italia a gran voce. Il che suona strano, nel momento in cui, durante i primi giorni della crisi, hanno fatto apparire l’esplosione della bolla finanziaria come la causa prima. Ma se davvero così fosse, perché andare a smantellare i diritti dei lavoratori? Perché votare la riforma Barnum della Fornero e non una regolamentazione legislativa contro la speculazione in borsa (1)? Perché insistere sulle privatizzazioni, il cui obiettivo consiste nell’iniettare nuova linfa vitale negli stessi meccanismi finanziari (2)?

L’impoverimento, tuttavia, non ha portato a una presa di coscienza dei lavoratori. Ancora oggi troppi non sanno che la loro giornata lavorativa, il loro salario, è ripagato dal loro lavoro durante le prime tre, quattro ore di impiego e che il rimanente del tempo lavorativo, straordinari compresi (quando vengono retribuiti, il che sembra essere un valore aggiunto) lo intasca il datore di lavoro. Troppi pensano ancora che il guadagno del padrone sia nella vendita nella merce e non sulla parte di lavoro non retribuito.

La ragione di questa forma d’ignoranza, che, fino agli anni Ottanta era persino un luogo comune per gli operai – tanto che l’assioma dominante era che il padrone fosse un ladro (di salario, appunto) – dipende dal fatto che in nome della Governabilità, nessun politico di sinistra ha interesse a spiegarlo al proprio elettorato. Nemmeno i sindacati. Nessuno più parla del plusvalore e di cosa questa parola significhi, da dove provenga il guadagno del datore di lavoro. Persino uno come Vendola, che si accredita come uomo di sinistra, in un’intervista, parlando dei licenziamenti senza giusta causa, è riuscito, in una delle sue numerose canzoni sentimentali, a contestare l’ingiustizia perpetuata dalla legge nel momento in cui costringe il lavoratore ad accettare una buona uscita invece che obbligare il padrone alla riassunzione. “È così che il lavoro diventa merce” è stato il suo acuto finale, dimentico, o fìngendo di dimenticare, che la forza lavoro è la merce acquistata dal capitalista, e non solo quando si licenzia il lavoratore pagandogli la buona uscita. È triste accorgersi che un politico non riesca a esprimere un concetto che rappresenta l’ABC del pensiero di sinistra.

In questi ultimi tempi, un’altra favola viene raccontata all’elettorato. I politici e i media, in attesa, questi ultimi, di convertirsi, in un futuro nemmeno troppo remoto, al grillismo, vogliono far credere che la Governabilità sia messa in crisi dalla ‘rivoluzione’ di Beppe Grillo. L’unica vera costatazione è il suo successo popolare, di massa; il fatto che sia riuscito a canalizzare, lungo la via elettorale, il malcontento del ceto medio nella sua componente meno politicizzata. Secondo quest’ottica, non è sbagliato paragonare la sua ascesa a quella intrapresa vent’anni fa dalla Lega nord. Anche allora, un fenomeno iniziato sotto traccia come quello leghista era stato in un primo momento boicottato dall’informazione ufficiale, fino a quando la televisione, durante i giorni dell’esplosione di mani pulite, ha cominciato a dargli visibilità. Anche allora, come oggi, si parlava in maniera critica di fenomeno di rottura, poi si è compreso che si era davanti all’esatto contrario: a un anno dal crollo dell’Unione Sovietica, il potere economico aveva compreso che il teatrino democratico, strozzato dalle inchieste, doveva essere smantellato secondo la logica del Gattopardo.

Cambiare la forma perché nulla mutasse nella sostanza, significava fare piazza pulita in Parlamento dei vecchi politici implicati nelle indagini giudiziarie, introdurre facce nuove e nuovi partiti; significava che, in piena riorganizzazione aziendale, e dopo lo storico fallimento del comunismo, come esemplificato dall’implosione dell’Unione Sovietica, le priorità sociali erano diventate due, e nessuna delle due contemplava una difesa dei lavori, destinati, da lì in poi, a finire in mare in pasto ai pesci. Primo: dare un’idea di pulizia in Camera e Senato dalle scorie residue dei politici entrati nelle inchieste di Tangentopoli, uno spettacolare colpo di ramazza che desse l’impressione di abbattere la Casta, e inserire un partito che si facesse carico degli artigiani e gli industriali legati alla piccola proprietà privata – fino a quel momento dimenticati dal Parlamento – che avevano raggiunto il benessere grazie all’accantonamento di plusvalore, e che in quel passaggio di crisi economica (sempre lei!) avevano paura di esserne deprivati; e, secondo, spostare l’asse del confitto sociale da verticale (Capitale/lavoro) a orizzontale (lavoratore del privato/lavoratore del pubblico, e lavoratore italiano/lavoratore straniero). La Lega ottemperava perfettamente a entrambe le necessità, e visto che sullo spirito capitalistico di Berlusconi non c’erano dubbi, la Governabilità non poteva che essere affidata a questo nuovo nascente partito di destra, pulito da un punto di vista giudiziario.

Alla luce di corsi e ricorsi storici e di quanto espresso nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, è assurdo pensare che, politici trombati a parte, qualcuno possa avere paura del movimento 5 stelle. Vale forse per il potere politico, non solo per i politici trombati, legato ad antiche tradizioni partitiche, per quanto già oggi degradati a biechi comitati d’affari. Ma non vale per il potere economico-finanziario. Al contrario, vista la portata della nuova ondata di inchieste giudiziarie che ha investito la politica, una bella ripulita in Parlamento (come avvenuto nel 1992) con l’ingresso di teste vergini, di cervelli ancora tutti da coltivare, non può che fargli un favore. Non bisogna dimenticare che i partiti sono la compagnia stabile i cui attori recitano da decenni nella commedia (quando, come negli ultimi trent’anni, non recitano nella farsa) democratica. E la facciata parlamentare ha senso finché resta credibile come luogo d’azione mimetico dei capitani d’industria. In tal senso, l’attacco agli sprechi del Parlamento, l’attacco alla Casta – che già Montezemolo, a capo della pattuglia dei giornalisti del Corsera, aveva mosso all’epoca del governo Prodi per farlo cadere – di cui Beppe Grillo oggi si fa portatore, è perfettamente funzionale a questo obiettivo.

Diverso sarebbe denunciare i politici di essere ‘al soldo’ di Confindustria, di avere in questo modo abbandonato i lavoratori salariati al loro destino, lasciandoli senza un riferimento politico parlamentare, costringendoli a vagare di porta in porta in cerca di lavoro, facendo tentata vendita delle loro braccia e dei loro cervelli, costringendoli alla disoccupazione e tassandoli a sangue in nome della Governabilità del potere economico. Peccato che questo sembri essere quanto di più lontano dalla testa dei veri promotori della ‘rivoluzione grillina’ – dei quali i numerosi parlamentari entrati a Palazzo rappresentano i nuovi burattini politici appena usciti dalle officine del potere economico – che sono Gianroberto Casaleggio e, ancora di più, Enrico Sassoon (3).

Anche se grande è la confusione sotto il cielo, quindi, purtroppo, la situazione è tutt’altro che eccellente. Confindustria non ha ancora il modello di Governabilità che si auspica, ma ci arriverà presto. Molto presto. E gli italiani smetteranno di ridere.

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(1) Cfr. B. Laudi e m. Vaggi, La riforma Barnum del ministro Fornero, Paginauno n. 29/2012

(2) Cfr. G. Cracco, Privatizzazioni: il sabba della finanza, Paginauno n. 27/2012

(3) Cfr. G. Cracco, Partito 5 stelle: la post ideologia del Capitale, pag. 12

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