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Il dilemma postelettorale

Carlo Formenti

Le interpretazioni dell’esito elettorale del 24/25 febbraio scorso si sono massicciamente concentrate su due fattori: il fenomeno (nel senso comune piuttosto che nel senso scientifico del termine) Grillo, osservato con gli occhiali della performance comunicativa e/o della protesta populista e «antipolitica», ignorando sia il programma politico – dato furbescamente per inesistente – sia le radici di classe del Movimento 5 Stelle; la straordinaria perfomance di Berlusconi, al cui «genio» di comunicatore si è tributato omaggio sorvolando allegramente sui contenuti comunicati e sugli interessi che tali contenuti incarnavano. Se ciò è spiegabile, anche se non giustificabile, per le analisi e le opinioni dei giornalisti impegnati a contemplare il proprio ombelico professionale e guidati dalla bovina certezza che la politica sia riducibile a prassi comunicativa, lo è assai meno – ed è del tutto ingiustificabile – per i politici e gli intellettuali di sinistra che, tramortiti dallo choc, hanno continuato a ripetere luoghi comuni e a marciare nella direzione che li ha portati alla disfatta.

Provo a offrire un’altra chiave di lettura di quel voto (a prescindere dai successivi esiti in termini di formule e programmi governativi che, nel momento in cui scrivo, appaiono nebulosi) a partire da tre dati di fatto: 1) come evidenziato da G.B. Zorzoli su www.alfabeta2.it, centrodestra e centrosinistra hanno perso, complessivamente, rispetto alle elezioni del 2008, più di dieci milioni di voti, il che, se si considera che il centrodestra è quello che ne ha persi di più, ridicolizza i peana sull’«impresa» berlusconiana;

sempre sul sito di «alfabeta2» Franco Berardi Bifo mette in luce come sommando astensioni/voti per Berlusconi e voti per Grillo si arrivi al 75%, il che significa che i tre quarti degli italiani hanno espresso, in forme diverse, il proprio rifiuto nei confronti delle politiche europee di austerità imposte dalla Comunità Europea; l’elettorato non si è limitato a bocciare clamorosamente il centro montiano, ma ha rifilato un ceffone anche a quanto resta delle sinistre radicali: a Vendola, punito per avere rinunciato a priori, in cambio di un pugno di deputati e senatori, a condurre una opposizione coerente alle scelte neoliberiste; agli altri cespugli per essersi mestamente accodati al progetto giustizialista della triade Di Pietro-De Magistris-Ingroia (personalmente esprimo la speranza che, dopo questa botta, il giustizialismo sia morto e sepolto, e colgo l’occasione per «pentirmi» pubblicamente di aver appoggiato Rivoluzione civile nell’illusione che conducesse una campagna centrata sui punti programmatici del manifesto Cambiare si può).

Per interpretare i dati di fatto appena elencati mi pare necessario fare piazza pulita di tre tesi che sono ampiamente circolate durante e dopo la campagna elettorale: il Movimento 5 Stelle non ha un «vero» programma politico; il Movimento 5 Stelle ha potuto trionfare solo perché in Italia non esistono movimenti come Occupy Wall Street; nelle attuali condizioni la sinistra radicale è condannata a condurre battaglie difensive per limitare i danni generati dall’offensiva liberista e per imporre un minimo di rispetto nei confronti della legalità e dei diritti fondamentali. Come hanno messo in luce sia Bifo, nel già citato intervento sul sito «alfabeta2», sia Vladimiro Giacchè in un articolo apparso su «Micromega» 2/2013, il Movimento 5 Stelle non solo ha un programma politico, ma molti punti di tale programma avrebbero potuto e dovuto essere fatti propri da una sinistra degna di questo nome; ne elenco alcuni qui di seguito: salario di cittadinanza, no alle grandi opere inutili come la Tav, ripristino dei fondi tagliati a scuola e sanità, abolizione della legge Biagi, riduzione dell’orario di lavoro, lotta alla speculazione anche attraverso la nazionalizzazione delle banche, drastica riduzione delle spese militari e dei finanziamenti ai partiti, abolizione del fiscal compact (per inciso: la carenza di indicazioni valide su come attuare tali obiettivi è un altro discorso, poco interessante ai fini della loro capacità di attrarre consenso).

Dunque il programma c’era e, a mio parere, riflette piuttosto fedelmente la composizione di classe – sia tecnica che politica – degli elettori e dei quadri del movimento. Significative, in tal senso, le valanghe di voti che i cittadini della Val di Susa e la classe operaia di Taranto – due punti «alti» del conflitto di classe oggi in Italia – hanno rovesciato su Grillo. Pure significativo l’esito di alcune indagini sulla composizione della folla che ha partecipato al comizio conclusivo a piazza San Giovanni: quasi la metà dei partecipanti aveva votato a sinistra e quasi il 30% si era astenuto nelle precedenti elezioni, in barba al luogo comune di una «trasversalità» cui destra e sinistra concorrerebbero in pari misura. È piuttosto evidente che la maggioranza del popolo grillino appartiene alle classi subordinate più esposte all’impatto della crisi, con una forte componente giovanile e femminile, ed è altrettanto chiaro che a questo «blocco sociale» si sono aggregati – grazie alle promesse di sostegno agli interessi della piccola impresa – anche artigiani, piccoli commercianti e altri esponenti della piccolamedia borghesia. La saldatura ideologica del blocco è garantita dal comune disprezzo per la casta dei professionisti della politica, nonché dal generale rifiuto della democrazia rappresentativa, associato alla rivendicazione di forme di democrazia diretta e partecipativa. Quanto ai quadri che svolgono, sia pure all’ombra del leader carismatico, il compito di esercitare l’egemonia politica, si tratta soprattutto di membri della striminzita (sia in termini numerici che culturali) «classe creativa» italiana che, non a caso, identificano nella Rete il medium privilegiato di mobilitazione, dibattito interno e organizzazione (anche se va detto che questo aspetto, al pari del ruolo di «consulente» tecnico svolto da Casaleggio, è stato fin troppo enfatizzato dalla stampa, la quale, viceversa, ha trascurato fattori come la costante capacità di presenza sul territorio e l’efficacia del «vecchio» comizio come strumento di comunicazione politica).

Ancorché rozzamente abbozzata, questa analisi sociopolitica mi serve a introdurre ciò che penso delle nauseanti litanie in merito all’assenza in Italia di movimenti come Occupy Wall Street, e a mettere in discussione l’idea che Ows sia qualcosa di profondamente diverso e migliore del Movimento 5 Stelle. A fare piazza pulita dei miti che circolano sull’epopea nata a Zuccotti Park e gonfiata a dismisura, fino a presentarla come una sorta di rivoluzione d’ottobre made in Usa, provvede una recente ricerca sulla composizione del movimento newyorkese realizzata da tre sociologhe americane – Ruth Milkman, Stephanie Luce e Panny Lewis – liberamente scaricabile da Internet (si noti che le tre autrici sono tutt’altro che ostili nei confronti di Ows). I manifestanti – e ancor più i militanti – del movimento sono in netta maggioranza giovani intorno ai trent’anni, bianchi, maschi, provenienti da famiglie benestanti, laureati e spesso dottorati. A bilanciare parzialmente questa composizione elitaria – anche se resta il dato di una differenziazione relativamente scarsa in termini di età, classe, razza e genere – contribuisce la presenza di un numero significativo di precari, freelance in cattive acque e neolaureati carichi di debiti. Se si aggiunge che quasi tutti lavorano in settori come l’industria culturale, l’educazione e settori analoghi, il quadro è chiaro: ci troviamo di fronte allo strato inferiore dei knowledge worker americani, quelli che, per intenderci, invece di venire cooptati nelle stanze del potere politico ed economico, sono stati massacrati dalla crisi. Questi strati, egemonizzati da ideologie neoanarchiche alla Graeber (che i lettori di «Alfabeta2» conoscono attraverso alcuni testi pubblicati su queste pagine), hanno a loro volta tentato di mobilitare/egemonizzare altri gruppi sociali – attraverso lo slogan populista «We are the 99%» – contro l’1% dei superricchi. Con limitato successo: il movimento, che pure si vuole proiettato oltre le barriere di classe, età, genere ed etnia, ha in buona parte fallito l’obiettivo, come testimoniano i dati sopra citati, e complessivamente ha ottenuto meno seguito di quello raccolto dal Movimento 5 Stelle in Italia. Movimento con il quale condivide l’entusiasmo per la democrazia diretta mediata dalla Rete, ma dal quale differisce in quanto (apparentemente) alieno da forme di leadership carismatica (impensabile una figura come Grillo). Apparentemente perché, come notano le autrici della ricerca, gli stessi intervistati ammettono che l’esasperato «orizzontalismo» dei modelli e delle prassi organizzative generano effetti controintuitivi, favorendo l’affermazione delle idee dei più «bravi» (guarda caso bianchi, maschi, superistruiti ecc.) a scapito di quelle di donne, neri e altre minoranze. Insomma, diversi sì – ma meno di quanto si pensi – e certamente non migliori dei loro omologhi italiani, almeno se li si osserva dal punto di vista di una sinistra di classe e antagonista. Una sinistra che, ammesso che esista, commetterebbe però un tragico errore a sottovalutare, o addirittura a disprezzare, simili realtà: come se Lenin avesse liquidato con un’alzata di spalle l’insurrezione del 1905 perché a guidare le masse c’era il pope Gapon.

E qui siamo al terzo punto: esiste oggi in Italia una sinistra capace di andare al di là di un atteggiamento puramente difensivo nei confronti della controrivoluzione liberal-liberista? Oppure valgono le malinconiche considerazioni contenute in una recente intervista rilasciata da Gianni Vattimo, in cui si leggono frasi come: «non esiste un’alternativa rivoluzionaria al riformismo»; l’unica prospettiva realistica è lottare «per ottenere un capitalismo meno feroce e sanguinario»; dobbiamo costruire «una sinistra di legalità e diritti»? Se non esiste più alcuna possibilità di distinguere fra sinistra antagonista e riformista, allora non esiste alcuna possibilità di lottare contro le politiche economiche imposte dalla Comunità Europea. Se ci accontentiamo di un capitalismo meno feroce, allora basta chiedere che le banche rubino un po’ meno. Se ci basta rivendicare più legalità (i diritti, per lo meno quelli sociali, ce li hanno già tolti), allora tocca applaudire i giudici e la polizia non solo quando arrestano e condannano i mafiosi, ma anche quando reprimono i militanti che «violano la legge», da Genova alla Val di Susa. Chi ragiona in questo modo non è solo alla coda del Movimento 5 Stelle: è alla coda dei milioni di italiani che hanno votato contro la governabilità, il fiscal compact e la No Tav, che non vogliono le «riforme» che Monti propone, ma vogliono smontare quelle che ha già fatto con la complicità del Pd; è, infine, alla coda di un movimento che non si accontenta più di scegliere periodicamente dei politici che «governino bene», ma pretende di autogovernarsi attraverso istituzioni di democrazia diretta e partecipativa.

La democrazia rappresentativa è morta, uccisa dal crepuscolo degli Stati-nazione, sostituiti da regimi postdemocratici i quali operano come agenzie locali delle istituzioni sovranazionali che gestiscono gli interessi della finanza globale al di fuori di ogni vincolo e controllo democratico. Il dilemma è verso quale futuro ci condurrà la rabbia popolare contro i crimini del finanz-capitalismo: verso un nuovo totalitarismo di destra, o verso la transizione a una civiltà postcapitalista? Per imboccare la seconda strada serve una sinistra dotata di coraggio e capace di sfornare idee nuove, perché in situazioni storiche drammatiche come quella attuale l’assenza di coraggio e di idee sconfina nella viltà e nell’idiozia.

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