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Zero Repubblica

Tre opinioni a caldo sulle vicende che hanno condottto alla ri-elezione di Napolitano e alla mancata elezione di Stefano Rodotà alla presidenza della repubblica.

Il disprezzo per la democrazia

di Mario Pezzella

Scherzavo in un mio intervento di qualche giorno fa sul fatto che noi si possa o si debba diventare i grilli parlanti di Grillo; gli avvenimenti di questi giorni dimostrano se ce ne fosse bisogno che il M5S la sua politica la fa senza alcun bisogno di soccorso intellettuale esterno e occupando totalmente quello che avebbe dovuto essere il nostro spazio di critica e di azione. Il rammarico è dovuto al fatto – come già ampiamente argomentato su questo sito all’indomani delle elezioni – che la critica al regime dei partiti avviene in direzione di una soluzione populista, con tutte le sue ambiguità, e tuttavia con la forza di un fiume in piena.

C’è ancora spazio per un nuovo, “nostro”, soggetto politico? Ciò significherebbe ad esempio spiegare perché a Roma, a Pisa, o a Messina nelle prossime comunali bisognerebbe votare per i candidati delle liste di cittadinanza che sosteniamo e non per il candidato dei 5 Stelle. Credo che a questo debba servire l’incontro nazionale che si sta preparando per maggio.

Però dovremo prepararlo bene e dare convincenti motivazioni: chiarire quale sia il nostro modo di concepire la rappresentanza politica in forma non populista; perché il nostro pensiero critico non possa prescindere da una critica del capitalismo e dal riconoscimento dei conflitti sociali; perché l’idea di un “capitalismo onesto” ed ecologico sia un’utopia immaginaria. Dovremmo cioè precisare nel metodo e nei contenuti la differenza fra la nostra visione e quella dei 5stelle e allo stesso tempo proporre un dialogo sui temi concreti dell’amministrazione delle città e dei beni comuni. Ricordiamoci, ad esempio, che un conto è chiedere solo il riconoscimento dei beni comuni da parte dello Stato (riconoscendone l’insostituibilità e il superiore arbitrato), altra cosa è partire dai beni comuni per immaginare forme di democrazia insorgente e territoriale, che si pongano contro l’esistenza separata di uno Stato centrale.

Sulle forme di rappresentanza e sul mandato imperativo c’è stato di recente un nuovo intervento di Sartori sul Corriere della Sera, che lo rifiuta perché con esso “si ricadrebbe nella rappresentanza medievale” nella quale i rappresentanti erano portavoce “dei loro padroni e signori”, come oggi lo sarebbero di Grillo. Sartori finge di ignorare che esiste un’altra possibilità: quella che essi siano invece responsabili di fronte ai propri elettori e territori. Questa era l’opinione di Rousseau e della Comune di Parigi. Ma Sartori ha ormai per la democrazia sostanziale un disprezzo “tecnico”, condiviso da tutti gli opinionisti che cercano di salvare l’attuale sistema di potere. Disprezzo che è confermato dal modo in cui si sta risolvendo l’elezione del presidente della repubblica, che segna la fine della vigente Costituzione italiana. Il problema non è più se difenderla a ogni costo o cambiarla, ma in che senso debba andare il cambiamento.

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Gli amanti passeggeri

di Roberto Musacchio

L’immagine del pilota automatico, con cui Mario Draghi ha blandito i mercati, rassicurandoli sulle difficoltà della politica italiana, a volte può indurre a credere che poi non ci sia un equipaggio ben deciso a far sì che l’aereo continui nella sua rotta. Magari è un equipaggio un po’ alticcio e litigioso, come quello dell’ultimo film di Almodovar, “Amanti passeggeri”, ma è comunque addestrato a tutelare il comandante.

Succede così che oggi, dopo aver determinato qualche turbolenza più prolungata, per qualche movimento eccessivo di hostess e steward, il personale di bordo riprenda il servizio avendo garantito che la cloche rimanesse nelle stesse mani.

Uso questa metafora dell’aereo su cui poi siamo tutti, per provare ad chiedermi che cosa stia veramente succedendo. Parto dal fatto che a bordo ormai di gente che dorme o legge tranquilla il giornale ce n’è veramente poca. Anzi, quasi tutti sono più o meno in piedi a chiedere, anche ad alta voce, di cambiare rotta o di atterrare per poter scendere dall’aereo.

Diciamo allora che una parte dei passeggeri ha provato a convincere una parte dell’equipaggio, mettiamo gli steward, a perorare col capitano un cambio di rotta. Hanno discusso con loro, anche fraternizzato e pure alzato qualche bicchiere insieme. Ma al dunque la cabina di pilotaggio è rimasta serrata e il cammino è continuato implacabile sulla stessa traiettoria. Fine della metafora.

Se continuiamo il discorso usando il linguaggio proprio della politica, emergono due elementi di grandissima rilevanza. Il primo è che il bisogno di cambiamento che si è espresso con grande forza, e in modi anche diversi, che vanno dal voto referendario a quello ai 5 Stelle, viene respinto, almeno nelle intenzioni, da una operazione politica di vera e propria restaurazione dall’alto.

Il secondo è che la forma considerata prevalente a sinistra per interpretare il cambiamento, e cioè la cosiddetta coalizione Italia Bene Comune, si spezza.

Partirei da questo secondo dato, anche perché interroga direttamente la soggettività che comunque mi sta a cuore, e cioè la sinistra. E poi perché si era costruita intorno a questa coalizione una aspettativa di svolta, anche utilizzando una rilettura fortemente revisionistica di tutto un passato, ancorché recente. L’idea cioè che l’incapacità a provocare il cambiamento fosse dipesa in parte considerevole dalla natura minoritaria, ideologica e settaria di quella parte della sinistra che doveva provare invece a convincere quello che nella mia metafora è l’equipaggio dell’aereo, ma che poi nella realtà è il Pd, a prendere insieme in mano la cloche per modificare la rotta.

Ora, come insegna Popper, la falsificazione è la base stessa della scientificità delle teorie. Non ho dunque alcuna volontà polemica, ma solo bisogno di verifica condivisa, nel partire dalla constatazione di realtà che l’esperimento Italia Bene Comune è durato, in laboratorio, ancor meno di quelli che la pur settaria sinistra del passato tentò e che durarono per quasi dieci anni, pur tra provette spezzate e continue esplosioni.

Ho letto troppe cose approssimate sul passato, ridotto addirittura ad una sorta di vicende da armata Brancaleone, che non si sarebbe più ripetuto oggi grazie alla serietà delle nuove regole d’ingaggio tra i nuovi crociati. E sul presente tante letture psicologistiche, paure di vincere, odi personalistici.

Devo dire che ho faticato, e me ne dispiace, a ritrovare  in queste letture un minimo di quello che un tempo si chiamava analisi della realtà, della sua composizione materiale, dei corpi sociali e politici. E ho trovato ancora più difficoltà a provare a mantenere almeno un qualche canale di riflessione condivisa. Troppe esaltazioni del nuovo che vince e banalizzazioni del vecchio, che è sconfitto per definizione. Cose di cui poi Facebook si riempie e che rendono arduo anche solo il dialogo.

Il dialogo invece serve eccome. Siamo già pieni in questi giorni pesanti di nuovi inizi. Vogliamo provare almeno, che so, a scambiarci qualche idea?

Ad esempio sul perché il Pd arriva anche a correre il rischio di frantumarsi piuttosto che cimentarsi sul serio col cambiamento? La mia risposta sta nella metafora che ho usato: il Pd è una parte dell’equipaggio dell’aereo che vola con il pilota automatico. Penso che sostanzialmente quasi tutti i partiti hanno finito col cambiare la propria natura e ragion d’essere: da espressioni della società, del conflitto e di idee contrapposte a co-gestori del pensiero unico e della impossibilità dell’alternativa. E penso che il socialismo europeo, praticamente in tutte le sue varianti, sia dentro questa dinamica. E naturalmente, a maggior ragione, lo penso del Pd.

Per questo penso che non possono contribuire al cambiamento in quanto esso negherebbe la loro stessa esistenza. D’altronde, un pensiero assai meno approssimato di altri, come quello di Barca, non a caso conchiude la sua dimensione nella coppia Partito-Governo, in una logica funzionalistica che sostituisce quella, che fu fondante la sinistra, che pone al centro la società e il cambiamento che si determina col conflitto. Se posso permettermi una battuta, leggendolo ho pensato che passavamo dal Centro di Riforma dello Stato al Centro di Riforma del Governo.

Purtroppo, nella fase costituente dell’ordine postdemocratico che ha caratterizzato l’edificazione europea, il riduzionismo e il liberalismo hanno permeato il vecchio socialismo sussumendone le funzioni  organizzate nella  gestione della rotta obbligata. Continuare a prendersela con Blair e far finta di non vedere cosa sta accadendo ad Hollande o a alla Spd, è una via di fuga che non porta da nessuna parte.

Altro, naturalmente, sono i corpi sociali. Ma anche qui la lettura non può essere approssimata e superficiale. La parte degli apparati è vasta. I pensieri politici indotti, che per altro si avvalgono di materiali mai riattraversati criticamente come le vecchie logiche di fideismo di parte, rendono quello che fu il Paese nel Paese assai più permeabile sia alle logiche funzionalistiche che al “grilliamo”, addirittura contemporaneamente.

Ma poi è alla natura dell’aereo che si deve guardare. Nel passato la sinistra ha sovietizzato l’elettrificazione. Poi ha cercato le stanze dei bottoni. Ora cerca il governo della cloche. E’ un po’ incredibile come più il potere, il capitalismo, si sono resi impermeabili, più cresce l’ossessione del governo. Sinistra di governo, si dice, come se l’aggettivo qualificasse il sostantivo. Quando invece tutto, nella realtà, ci dice che al contrario l’aggettivo rischia di uccidere il sostantivo.

Mentre la sinistra che rinasceva, in America latina, inseguiva la trasformazione e, da lì, trovava anche il governo, qui in Europa si è implorato il governo perdendo la trasformazione. Peggio ancora, facendosi complici della trasformazione degli altri. Dell’Europa postdemocratica che blocca la cloche sulla bussola dell’austerità e a cui la Carta d’intenti di Italia Bene Comune si è ispirata, andando clamorosamente fuori rotta. Dell’Italia della Seconda, e ora Terza Repubblica, che, in nome della centralità del governo e del maggioritario, ha ucciso la Costituzione, e viaggia ora spedita verso il peggiore dei presidenzialismi.

Ora potremo pure ciascuno di noi ribadire le proprie incrollabili coordinate, magari per piegarle ad una rotta esattamente opposta a quella di ieri, che so, magari da una fusione a una scissione. Ma se non proveremo a ritrovare una comunicazione tra i passeggeri non credo che riusciremo a risolvere il problema. Che forse poi non è quello di continuare a provare a prendere la cloche ma, che so io, di mettersi il paracadute e volare senza aereo.

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Autobiografia di una nazione

di Sergio Sinigaglia

La rielezione di Napolitano si presta a diverse considerazioni. Ne propongo due che a me sembrano centrali.

La prima è che si tratta dell’ennesima “autobiografia di una nazione”. Cioè dell’irresistibile tendenza a rifuggire qualunque scelta che abbia il sapore del conflitto e della conflittualità, aspetti essenziali in una democrazia vera, a vantaggio del compromesso di basso profilo, dell’inciucio, della ricerca a tutti i costi delle “grandi intese”. Si cerca la “condivisione” sempre verso destra, mai, chissà perché, verso sinistra. In questo senso è l’evoluzione della specie: dal Pci al Pds, Ds e ora democratici, il principio è sacro: alla mia sinistra non c’è nulla, o quasi.

Seconda considerazione. E’ evidente che un Rodotà Presidente della Repubblica sarebbe stato incompatibile con i diktat economico finanziari della troika. Avremmo avuto un Presidente difensore dei diritti dettati dalla Costituzione, alla faccia del fiscal compact, garante di quei beni comuni che si vogliono privatizzare. A questo proposito vale la pena riportare quello che ha detto ieri ad Ancona l’economista Fabio Sdogati in una tavola rotonda promossa dalla Cgil locale: “I soldi ci sono, ma le banche se li tengono stretti nella prospettiva di privatizzare defintivamente sanità, scuola, università e tutto quello che c’è di pubblico…”. Infatti che i soldi non ci siano è una delle grandi menzogne che ci propinano, come quella sul “debito pubblico” che citano tutti i giorni non dicendoci a quanto ammonta la ricchezza privata e come è (mal) redistribuita.

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