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“La Polizia è fuori controllo e potenzialmente golpista”

La degenerazione della “Republique”

Intervista a Frédéric Lordon

Francia poliziaQuesta polizia è maledetta, razzista nel profondo, fuori controllo, impazzita per la violenza, bloccata nella negazione collettiva e ha solo episodi di attacchi terroristici per rifarsi l’immagine”.

Essere un intellettuale è schierarsi con ciò che sconcerta l’ordine sociale, schierarsi con le forze che lo scardinano, contro gli intellettuali per i media”

È da poco uscito nelle librerie “Police”, opera collettiva pubblicata dalla casa editrice La Fabrique, in cui viene analizzata, grazie ai contributi eterogenei dei diversi autori, la natura storica e sociale della polizia, il suo ruolo e le sue funzioni all’interno dell’attuale società capitalista, la “legittimità” della violenza, la “degenerazione” aggressiva e la fascistizzazione dei suoi agenti. Partendo dalle enormi mobilitazioni di piazza degli ultimi anni in Francia – da quelle contro la Loi Travail fino al movimento dei Gilets Jaunes – e sull’onda lunga delle manifestazioni contro le violenze brutali e spesso letali (Geroge Floyd, Jacob Blake, Breonna Taylor, Dijon Kizzee, Deon Kay…) della polizia negli Stati Uniti, viene investigato a fondo lo stretto legame oggi vigente tra politiche neoliberiste, repressione del dissenso e controllo sociale.

Di seguito la traduzione dell’intervista ad uno degli autori, Frédéric Lordon, realizzata da Selim Derkaoui e Nicolas Framont per la “rivista indipendente di critica sociale per il grande pubblico” Frustration.

* * * *

Nel lavoro collettivo “Police” vi chiedete “Quale “violenza legittima”?”, espressione usata regolarmente dall’“alto” della gerarchia, che poi parla di “monopolio della violenza legittima” (come la prefettura, la DGSI, il governo, i politologi e gli esperti di televisione, ecc.).

Tuttavia, tra le violenze della polizia nei quartieri popolari, che esistono già da diversi decenni, e la repressione dei Gilets Jaunes, i/le francesi sono sempre più diffidenti nei confronti della loro polizia [solo il 43% dei francesi si “fida” della polizia, secondo un sondaggio dell’Ifop pubblicato su L’Express, ndt]. Ma da dove viene questa “legittimità”, che oggi sembra essere contestata?

In effetti, dobbiamo cominciare a chiederci quale sia la legittimità – in generale – poiché, quando si tratta della polizia e della sua violenza, essa è diventata oggetto di dibattito. La legittimità non è una qualità occulta, come dicevano gli Scolastici, né una qualità sostanziale, acquisita una volta per tutte – per esempio attraverso la prova elettorale. La legittimità è il prodotto di una formazione immaginaria collettiva, come tale costantemente da produrre e riprodurre. In parole povere, un’istituzione è legittima se e fintanto che la gente la considera legittima. Si potrebbe dire che questa è una perfetta circolarità. Questo è vero. Ma il mondo sociale funziona costantemente grazie a questo tipo di circolarità. Perché è la circolarità della convinzione, il mondo sociale è pieno di credenze, non è pieno di nient’altro. Riprodurre un ordine sociale, riprodurre le sue istituzioni, mantenerle in “legittimità”, suppone riprodurre e mantenere la convinzione – la convinzione che queste istituzioni sono buone, che la loro azione è giusta e giustificata, ecc. Per questo motivo ogni ordine sociale, per perseverare, deve mobilitare, oltre alle forze fisiche, anche forze simboliche dell’ordine; le prime hanno la vocazione di minimizzare il ricorso alle seconde e di rendere accettabile questo ricorso quando deve comunque avvenire. Così l’ordine sociale e il potere producono continuamente discorsi e immagini sulla polizia, il cui consolidamento simbolico è una questione vitale poiché la polizia è la soluzione di ultima istanza per la sopravvivenza – questo è ciò che la mobilitazione dei Gilets Jaunes ha dimostrato in maniera cruda: ora sappiamo come vanno le cose quando un potere è tenuto insieme solo dalla sua polizia.

A proposito, è qui che vediamo cosa sia l’egemonia nel senso di Gramsci: qualsiasi altra cosa che non sia l’azione propagandistica di un singolo polo come il potere dello Stato. L’egemonia è l’effetto diffuso ma penetrante di una moltitudine di istanze di produzione simbolica, le cui azioni sono apparentemente del tutto indipendenti l’una dall’altra, ma il cui coordinamento delle opinioni, dei messaggi, è oggettivo e oggettivamente adeguato all’ordine sociale. Per esempio, nessuno ha bisogno di riunire e coordinare formalmente Christophe Barbier, Jacques Attali, Emmanuel Lechypre, Philippe Aghion, Dominique Seux, Jean Tirole, Didier Migaud, Bruno Le Maire, Léa Salamé, Geoffroy Roux de Bézieux, per ottenere discorsi perfettamente e oggettivamente coordinati – che alla fine diventano uno solo: il discorso del neoliberalismo economico.

In sostanza, l’egemonia di Gramsci è l’equivalente politico dell’habitus di Bourdieu a livello sociologico: produce effetti di orchestrazione senza richiedere alcun direttore d’orchestra (Bourdieu). Beh, lo stesso vale per la polizia. Il discorso legittimante della polizia è costituito dalla congiunzione di una moltitudine di discorsi, o produzioni simboliche, formalmente indipendenti, ma notevolmente allineate, in cui si trova: ovviamente i discorsi istituzionali del potere politico e dell’amministrazione della polizia, della giustizia anche nelle sue operazioni di copertura, ma anche del giornalismo di prefettura, che è caratteristico di quasi tutti i media audiovisivi, più tutto il lavoro di giustificazione degli “esperti” e degli editori, soprattutto i continui canali di informazione, e infine, e forse soprattutto, il lavoro a lungo termine, fittizio o “documentario”, per impregnare le menti di immagini positive della polizia. Il testo di Julien Coupat sulla serie Engrenages è esemplare di ciò di cui sto parlando. Anche in questo caso, Engrenages si occupa di esplorare il “lato oscuro” degli individui – senza conseguenze politiche, rassicuriamoci, come sempre, si tratta di “problemi personali”. Un misto di apologetica e asepsi perfetta – anche per i poliziotti, deve sembrare molto strano vedere l’immagine delle loro disgustose stazioni di polizia trasformate in locali di start-up o laboratori high-tech – il tutto sotto la guida di un principio costante: i poliziotti sono persone bellissime, interamente dedicate al bene pubblico.

Ma nell’ordine delle bastonate simboliche, c’è di peggio: ci sono tutti questi programmi di giornalismo embedded, il culmine del falso realismo, quindi sotto questo aspetto infinitamente più feroci della “finzione”, poiché questa è presumibilmente la “realtà”. La TNT, che è una fogna televisiva a cielo aperto, riversa ogni giorno questa marea di propaganda mascherata da obiettività giornalistica. Non c’è una serata della settimana senza che uno di questi canali, a volte diversi, trasmetta un “rapporto” con una telecamera di bordo sulla polizia municipale di Cap d’Agde o di Tolone (“Incidenti, furti con scasso e notti calde”), la gendarmeria autostradale, o la GIGN. Con un copione unico: nella società ci sono persone buone, ma il male si annida ovunque: persone irresponsabili più o meno pericolose, delinquenti incalliti, per fortuna c’è la polizia. Sono sempre perfettamente rispettosi della gente, vuoi arrestarli regolarmente, non ti arrabbiare mai e poi mai, non parlarne. La falsità di queste immagini può essere facilmente paragonata a quella di stazioni di polizia stellari fittizie. Questo è il fascino dell’egemonia nel capitalismo: abbiamo film che potrebbero essere stati commissionati direttamente dalla questura, ma che sono stati realizzati spontaneamente da una miriade di produttori formalmente indipendenti – il meglio dei due mondi.

Chomsky parlava della fabbrica del consenso, ci siamo proprio in mezzo. E, a proposito della polizia e della produzione della legittimità della polizia, quando apriamo il tetto della fabbrica, vediamo tutto questo: da Darmanin e Macron a “Enquête sous haute tension” (C8), “Enquête d’action” (W9), “Au coeur de l’enquête” (C star), “Urgences” (NRJ 12), passando per Yves Calvi, Alain Bauer e lo staff permanente di FranceInfo. È così che consolidiamo le basi simboliche di “un pays qui se tient sage”, come direbbe David Dufresne.

Per inciso, questo la dice lunga sui livelli che la violenza della polizia ha dovuto raggiungere negli ultimi anni per attestare una tale base di granito. Ma ecco, tanto di cappello, è fatta. Inoltre, si potrebbe pensare che l’intensificarsi del lavoro di propaganda delle forze dell’ordine su tutti i fronti, fino ad arrivare al massacro quotidiano, sia il segno di un ordine di dominio forzato sulla difensiva, di cui tutti i tentativi di legittimazione (economica, sociale) falliscono, cosicché lo sforzo di legittimazione si stringe attorno all’ultimo baluardo da proteggere: la polizia, uno sforzo di ultima istanza, poiché qui l’intervento delle forze dell’ordine simboliche funziona solo per sostenere l’intervento delle forze fisiche dell’ordine – cioè se si sente come se fosse al capolinea. La funzione della periferia come “laboratorio” di repressione, funzione che è stata individuata solo negli ambienti più consapevoli (oltre che, inutile dirlo, a quelli più interessati), si rivela costantemente a fasce sempre più ampie della popolazione proprio perché queste fasce vivono oggi, oltre che attraverso la televisione, l’incontro con la polizia. Tale è stato in definitiva lo shock simbolico dei Gilets Jaunes.

 

La repressione della polizia contro il movimento dei Gilets Jaunes è un passo importante in questa progressiva delegittimazione della polizia agli occhi della popolazione. Tuttavia, all’inizio del movimento, a causa della sociologia e della geografia relativamente vicina tra i manifestanti e la polizia, c’è stata una certa “intesa cordiale”, prima della tempesta, tra i due.

Se volete, parliamone con le categorie della stampa: i “francesi”, tutto ciò che c’è di più “normale”, inseriti nella forza lavoro stipendiata, a volte anche con una bandiera, insomma il tipico ritratto della “brava gente” secondo TF1 o un canale del gruppo Bolloré, hanno rivelato il loro stato di miseria, disordine, abbandono totale. Nella disperazione, contro il loro stesso habitus, scendono in strada. É allora che incontrano la polizia. Il punto importante è la disposizione in cui si trovano al momento di questo incontro. Pochissimi sono inclini a “odiare la polizia”, anzi, al contrario: da un lato, da anni escono dalla fogna di TNT e prendono quotidianamente in testa il flusso della propaganda incastrata; dall’altro, come voi sottolineate, c’è un principio di prossimità nello spazio sociale, da loro intuitivamente percepito e che li dispone spontaneamente all’affinità, forse anche alla simpatia, anche alle speranze di “fraternizzazione”. Solo che, subito, vengono picchiati, gasati, portati via, tutto quanto. Bisogna misurare la violenza dello shock della stupefazione, e il crollo simbolico che ne consegue. “La polizia, non è quello che ci è stato detto; la polizia, ecco cos’è”. In realtà, c’è una dinamica che non può che aumentare: man mano che il disastro neoliberista si diffonde, man mano che sempre più ampie fasce della popolazione vengono colpite, in quanto sperimentano l’assoluta inanità dei consueti canali (elettorali, sindacali) di protesta, sono destinate ad identificare la strada come l’ultima soluzione possibile, e quindi a confrontarsi con le forze dell’ordine nelle condizioni che la situazione generale determina oggi.

 

Naturalmente, la domanda diventa così la seguente: possiamo fare a meno della polizia in Francia in modo permanente, o almeno, possiamo affrontarla, nella misura in cui la sua sociologia e la sua posizione sociale (al di fuori della gerarchia) la rende di fatto appartenente alla classe lavoratrice?

Se le situazioni non sono strettamente identiche, sono abbastanza vicine da far sì che la congiunzione Portland-Parigi abbia prodotto l’esplosione che abbiamo visto. E nella circolazione transatlantica di immagini e slogan, abbiamo così visto apparire l’idea di “abolire la polizia”. Qui, vorrei dire una parola sull’eterogeneità delle posizioni dei vari autori del lavoro “Police” – eterogeneità che mi sembra un’ottima cosa. Per esempio, Eric Hazan, in linea con l’argomento della vicinanza sociologica che voi avete appena citato, al quale non manca di aggiungere un’analisi storica e strategica, è l’unico che detiene sfacciatamente una posizione di “polizia con noi”, contro il “tutti odiano la polizia” che è diventato un’evidenza primaria nei nostri circoli. Sull'”abolizione della polizia”, che sicuramente vincerà in questi stessi circoli perché può essere presentata come una sorta di conseguenza dedotta dalla premessa “tutti odiano la polizia”, penso che mi ritroverò in minoranza a non condividerla.

Ora, perché il dibattito possa sembrare qualcosa, dobbiamo ancora chiarire di cosa stiamo parlando, e in particolare cosa intendiamo per “polizia”. Se per “polizia” intendiamo l’istituzione di polizia così come ce l’abbiamo sotto gli occhi, simile a quella che vediamo in altri paesi, in particolare negli Stati Uniti, penso che non ci sia dubbio che questa istituzione è maledetta, razzista nel profondo, fuori controllo, impazzita per la violenza, bloccata nella negazione collettiva e ha solo episodi di attacchi terroristici per rifarsi l’immagine, e va a briglia sciolta tutto il resto del tempo. Vive in un tale stato di separazione dal corpo sociale e di macerazione interna, che la sociologia del particolare prevale, di gran lunga, sulla sociologia generale.

Questo è quanto ha dimostrato l’episodio dei Gilets Jaunes, con un’argomentazione a fortiori: nelle condizioni di massima vicinanza sociologica a priori, GJ e la polizia hanno dato quello che sappiamo. Questa forza di polizia non è selvaggia. Oppure richiederebbe prima una trasformazione completa delle strutture più una trasfusione ex sanguigno… cioè prima una quasi distruzione. Segue la ricostruzione dal basso verso l’alto. Tuttavia, l’esercizio di un’architettura istituzionale astratta rischierebbe di incorrere in problemi se si dimenticasse delle pesanti predeterminazioni che la sua appartenenza al moderno Stato borghese – lo Stato del capitale – pone fin dall’inizio all’istituzione di polizia. È certo che, partendo da dove siamo partiti, c’è, anche in questo quadro, un margine di miglioramento, ma non per trasformare la zucca in una carrozza. È abbastanza chiaro che la posizione abolizionista ha (o deve avere) come presupposto implicito di essere situata in una formazione sociale post-capitalistica. In ogni caso, il dibattito inizia a questo punto: distruggere la polizia allora, ma non lasciare nulla al suo posto? Se questo è il significato di “abolire la polizia”, è da lì che non posso andare avanti.

Concettualmente, la polizia è l’insieme dei mezzi e (soprattutto) delle persone alle quali un collettivo consegna una delega di potere per assumere la funzione di interposizione in caso di controversia. Il termine “disputa” va inteso in tutta la sua generalità, non è vero che può andare da un disturbo notturno a un omicidio. In ogni caso, dobbiamo partire da una caratterizzazione così astratta per poter ri-immaginare l’immensa variabilità delle forme concrete che la polizia, così ridefinita, può assumere – ben oltre ciò che l’ordine capitalistico ci impone. Un comitato di quartiere con persone riconosciute come mediatori è una forza di polizia. È chiaro che non c’è paragone con ciò che abbiamo per le mani come forze di polizia – tranne, ma è importante, che entrambe le forme rientrano nella stessa definizione astratta. Mi ha molto interessato l’intervista a Kristian Williams, uno scrittore e attivista anarchico che vive a Portland ed è in prima linea nella lotta per “il definanziamento e l’abolizione della polizia”. Gli viene presentata la domanda-osservazione che di solito viene avanzata contro la posizione abolizionista: “Come rispondete a coloro che prevedono o temono che in un mondo senza polizia, il caos, la vendetta personale diventeranno la norma?”. La risposta di Williams differisce significativamente da quella che ci si aspetta spontaneamente: “Questa preoccupazione non è folle. Con questo intendo dire che dubito che vogliamo vivere in un mondo dove assolutamente nessuno proteggerebbe i deboli e pacifici dai forti e dai predatori… L’agenda abolizionista non può semplicemente rimuovere l’istituzione a cui ci opponiamo. Deve anche offrire alternative per risolvere le controversie, limitare i conflitti, assicurare la pace e rispondere al crimine”. Non c’è bisogno di cavillare sul fatto che questa è un’abolizione che non abolisce, almeno non tutto, lo firmo con entrambe le mani. Quello che io, per esempio, trovo folle è la negazione: la negazione della possibilità della violenza. Non della sua fatalità, perché chi vede Hobbes ovunque lo distorce: della sua possibilità. L’uomo non è essenzialmente né buono né cattivo (non c’è “essenza umana”), ma è capace di essere entrambi. In quali proporzioni? È la configurazione generale di una forma di vita che risponde essenzialmente a questa domanda, è la particolare configurazione della “polizia” che racconta come la comunità sta facendo il male di entrambi.

Probabilmente non ci si dovrebbe ossessionare con i problemi concettuali, ma non si dovrebbe nemmeno ignorarli completamente, se non per ritrovarsi a essere addestrati a dire qualcosa. Vivere senza le forze di polizia che abbiamo oggi, possiamo sicuramente farcela. Vivere del tutto senza polizia, cioè senza una qualche forma istituzionale che assuma la funzione di polizia, cioè la funzione di interposizione delegata dalla comunità, non si può. Quindi, nello stesso movimento in cui ci prepariamo ad abolire “questa polizia che è nostra oggi”, dobbiamo pensare a cosa verrà al suo posto, perché non ci può essere nulla. Abbiamo ancor più motivo di pensarlo, perché dobbiamo preoccuparci di quello che è un difetto molto generale delle istituzioni di qualsiasi tipo, cioè la loro tendenza a cominciare a vivere una vita propria, separata dall’ambiente che le ha create o che le ha richieste. Non c’è motivo di escludere la possibilità che una forma di polizia “ammissibile” all’inizio possa diventare odiosa a causa di abusi successivi. Ma riguardo all’imperativo di supervisionare i supervisori, o di sorvegliare i supervisori, le cose sono state dette da molto tempo.

 

La questione di “questa polizia”, della sua abolizione e del chiedersi cosa e come sostituirla, sta gradualmente diventando una riflessione inevitabile e necessaria a sinistra. Va bene, ma non finisce per prendere un posto troppo egemonico, soprattutto in diversi movimenti sociali o in alcuni media indipendenti, al punto da dimenticare i nostri obiettivi politici iniziali? Non cadiamo forse nella trappola di questo Stato repressivo, feticizzando la polizia come oggetto principale di protesta e di lotta (manifestazioni contro la violenza della polizia, comizi davanti a una determinata prefettura, ecc.), a scapito del razzismo sistemico in modo più globale, del furto di manodopera nell’impresa capitalista, o del controllo sociale permanente che grava sui poveri attraverso lo “Stato sociale”?

Non è illogico che la polizia diventi un punto di condensazione della congiuntura politica dal momento in cui il regime può resistere solo con la forza armata. Tuttavia, sono meno preoccupato di voi: non credo che i vari settori in lotta vengano inghiottiti, come voi suggerite, dal buco nero della “questione poliziesca” e perdano di vista le loro ragioni primarie per essere in lotta. Stando così le cose, sono sensibile alla vostra domanda perché mi sento molto preoccupato per il rischio di perdermi, tanto che il comportamento della polizia mi respinge. Il rischio di andare fuori strada, infatti, è quello di cominciare a pensare, come a volte faccio io, che la polizia sia “il problema numero uno” nella società francese. Ma io mi rimetto in sesto e vedo il disastro economico del neoliberismo, vedo, come il Comité Adama, che il problema è il razzismo istituzionale e la segregazione di cui sono vittime le popolazioni decoloniali, come i Gilets Jaunes, che il problema sono le abissali ingiustizie sociali, come gli attivisti per il clima che il problema è la devastazione capitalistica del pianeta, ecc… E non credo che nessuno di questi settori, essendo stati tutti confrontati con la violenza della polizia, abbia dimenticato cosa li ha spinti a scendere in strada.

Ora c’è anche un senso nel fare della polizia la questione numero uno: il senso delle considerazioni tattiche. Perché la polizia è l’unico e solo blocco. Abbiamo vissuto abbastanza a lungo l’incapacità definitiva dei meccanismi istituzionali, sia politici che sindacali, di ottenere qualcosa di significativo – e nella situazione attuale, è più che “significativo” quello che sarà necessario. La soluzione dell’ultima risorsa – la strada – rende fatale il confronto con la polizia. Quindi, in un certo senso, dato il suo ruolo di baluardo finale, sì, la questione della polizia, dello scontro della popolazione con la polizia, o della svolta della polizia, dal punto di vista di Eric Hazan, diventa centrale – ma a livello tattico. Non credo che ci siano molte persone inclini a confrontarsi con la polizia per il gusto di confrontarsi con la polizia. La gente si confronta con la polizia perché la polizia è l’ostacolo a qualcosa che è politicamente desiderato.

Aggiungo un’altra cosa: in una situazione di crisi organica sempre più profonda e nel processo di crollo della legittimità istituzionale, l’ipotesi di una “presa di potere” da parte delle forze armate – mettiamola così: un putsch – non sembra più del tutto fantasiosa. Non lo vedo dal punto di vista dell’esercito, ma dal punto di vista della polizia ho l’impressione che tutto sia diventato possibile a questo punto. O meglio, al punto in cui la polizia è arrivata: il punto di una milizia totalmente egocentrica, radicalmente tagliata fuori dalla società, rinchiusa nella fortezza della negazione e della destra, armata ovviamente, fascista al 50% se vogliamo credere agli studi sul suo comportamento elettorale.

Gli ultimi anni hanno dimostrato quanto possa essere tentato anche da comportamenti faziosi – dimostrazioni notturne in uniforme, con veicoli, ecc. Evoco questa ipotesi in modo un po’ distopico e fantascientifico, ma come uno scenario la cui probabilità, anche se probabilmente non molto elevata, non è più rigorosamente zero (a proposito, avete notato quanto la parola “distopia”, che era di uso molto ristretto, quasi accademico, abbia acquisito una diffusione notevolmente più ampia? se questo non è un segno dei tempi…). O il potere politico designato sarà abbastanza affascinato da se stesso da far sentire la polizia perfettamente a suo agio, o si stabilirà un assordante equilibrio di potere nell’apparato statale, con il quale la polizia assumerà l’ascendente su un potere ritenuto un po’ troppo morbido (un ascendente che si basa sul fatto che la polizia tiene in mano il destino di qualsiasi potere, che lo conosce, e che anche il potere lo conosce), oppure il potere non si piegherà (siamo qui nell’ipotesi eroica di un governo di sinistra), tutto è possibile. In ogni caso, la polizia è un problema molto serio, non il problema centrale ma, direi, il problema del collo di bottiglia: il problema vengono a confluire tutti gli altri problemi.

 

Nel libro “Police” lei spiega che la “repubblica” sarebbe un “significante” che rivela della “finzione”. Le personalità politiche de La France insoumise, ad esempio, evocano spesso nei loro discorsi o nei loro testi la “repubblica”, o l’idea di una “polizia repubblicana”… Per quale motivo, secondo lei, si potrebbe sviluppare una “finzione”?

Con le parole è sempre lo stesso problema: c’è il loro significato originale e c’è quello che sono diventate nel tempo, attraverso l’uso – il divario a volte è abissale. Nulla garantisce una parola contro queste derive, poiché essa viene costantemente ridimensionata nella e dalla prassi. Allora si pone la domanda: cosa fare con un significante che all’inizio era eccitante ma che è diventato problematico, anche pestilenziale? Dobbiamo rassegnarci ad abbandonarla, o scegliere di raddrizzarla?

Non credo che ci sia una risposta generale a questa domanda: ci sono solo casi particolari che richiedono ogni volta un esercizio di discernimento. Per esempio la parola “comunismo”. Cosa facciamo con il termine “comunismo”? Ho sempre avuto grande stima per coloro che, come Alain Badiou, sfidano le avversità generali e riprendono ciò che tutti considerano irrilevante. Ma mi sono sempre chiesto se, da un punto di vista tattico, questa sia stata davvero la scelta giusta: “noi” abbiamo già così tante ostilità da superare, è davvero utile metterne una in più sul tavolo?

Perché la massa di idee spontanee, dovremmo piuttosto parlare di riflessi, da disfare intorno alla parola “comunismo” è colossale, tanto quanto stare in fila per 100 metri con un sacco da 20 chili. È davvero necessario? Beh, più ci penso, dopo averci riflettuto a lungo su questa questione, più tendo a pensare che sì, ne vale la pena.

Ma allora perché non assumere la stessa posizione con “repubblica”, cioè mantenere, raddrizzare, contro le deviazioni dei costumi contemporanei? Vedo che questo è ciò che qualcuno come Thomas Branthôme, per esempio, sta cercando di fare, di tenere insieme “repubblica”, “democrazia” e “sovranità” nel patrimonio rivoluzionario, ed è certamente uno sforzo che vale la pena di fare. Ma confesso che sono sempre meno capace di crederci.

Prendiamo le cose in ordine: prima le deviazioni. Per sapere cosa stiamo facendo con il significante “repubblica”, dobbiamo prima sapere a che punto siamo con esso oggi. Dove siamo, credo che ora sia molto ovvio: a destra della destra. Ci si dovrebbe chiedere se un grande significante politico abbia mai sperimentato un tale slittamento in un periodo di tempo così breve.

Avevamo vissuto un lungo periodo in cui la “repubblica” era senza dubbio un indicatore di sinistra; in trent’anni è diventata un punto di rivendicazione per tutto ciò che è a destra, o addirittura l’estrema destra. L’ex Union pour un Mouvement Populaire (UMP) si è ribattezzato Les Républicains (LR), la Macronia pre-fascista è La République En Marche (LREM), anche il Rassemblement National (RN) si dichiara repubblicano.

Ma soprattutto “repubblica” è ormai la perfetta marionetta, direi addirittura la marionetta di tutte le marionette: la facciata del “laicismo”, del “femminismo” e, perché farsi scrupolo, dell'”universalismo”, sono protetti e raccolti sotto la grande facciata sintetica della “repubblica”. In realtà, “repubblicano” è ora un occhiolino, una mezza parola, un nome in codice, un punto di raduno (appena) mascherato. Per cosa e per chi? Essenzialmente per gli islamofobi, si dovrebbero piuttosto dire i razzisti anti-arabi, uniti a tutti i difensori della “legge e dell’ordine”.

La manifestazione più tipica di questa degenerazione è la cosiddetta Printemps républicain, un raggruppamento informale a metà strada tra lobby, officina e club, ma saldamente legata all’islamofobia, ovviamente bardata di “valori universali”, che ha almeno il merito, per il suo stesso nome, di metterci in guardia sul modo in cui sta rinascendo il significante “repubblicano”: la via della sinistra di destra e anche dell’estrema sinistra di destra.

Perché sappiamo da tempo che c’è una sinistra di destra, ma uno degli insegnamenti dell’ultimo periodo è che c’è anche un’estrema destra di sinistra: la “sinistra” di Valls. Mi direte che, in una prospettiva storica, questo non è del tutto nuovo, e avrete ragione. Non è meno spettacolare.

L’islamofobia ossessiva, il razzismo a volte sbottonato di alcuni dei suoi membri, la forma estremamente violenta e molesta dei suoi “interventi” sui social network sono il marchio di fabbrica di Printemps républicain, a sua volta una metonimia del modo molto particolare in cui si sta svolgendo l’attuale fascistizzazione: sotto il significato di “repubblica”.

Comincia a essere molto, almeno abbastanza per far riflettere. Fino a qualche anno fa, pensavo che ci fosse ancora qualcosa a che fare con la parola “repubblica”, anche se era per lo più in un registro tattico-retorico. Il significante è profondamente radicato nel linguaggio politico comune, e come tale potrebbe essere una potente leva di legittimazione, a condizione che venga reinvestito con il suo contenuto appropriato. Questi contenuti ci sono stati indicati dalla storia: sono i contenuti della repubblica sociale. La repubblica sociale è la repubblica completa, la repubblica della Rivoluzione completa: non la Rivoluzione che si è fermata alle istituzioni politiche “democratiche”, destinate poi ad essere solo le istituzioni della democrazia borghese, ma quella che si estende fino al suo orizzonte, cioè la democrazia ovunque, anche (a partire da) la sfera della produzione. La repubblica sociale è una democrazia integrale, se l’installazione profonda della parola “repubblica” nell’immaginario politico francese potrebbe aiutare, attraverso l’opportuna rassegnazione, a far circolare quello che alla fine ha cominciato ad apparire come comunismo, ma senza dover passare attraverso il problematico significante “comunismo”, allora ci potrebbe essere la possibilità di un interessante sovvertimento lessicale e politico.

 

Oggi questo sembra molto ambizioso, anche quasi impossibile…

Il fatto è che i tempi di grande crisi – innegabilmente ci siamo dentro – le cose si muovono a una velocità prodigiosa. Questo spostamento del significante “repubblicano”, che per quanto mi riguardava nel 2016, è diventato oggi un’impresa quasi senza speranza – è perché nel frattempo sono successe delle cose, in particolare il completo svelamento dell’estrema sinistra di destra, lo Stato di emergenza indefinitamente rinnovabile, la decadenza della cittadinanza, l’inaudita repressione poliziesca dei movimenti sociali iniziata con la Loi Travail, e poi Macron, lo Stato di emergenza trasformato in diritto comune, l’ingresso franco in un regime di Stato di polizia, l’agitazione di tutti i temi di estrema destra (“comunitarismo”, “separatismo”, ecc.), il tutto sotto gli auspici, ancora di più, sotto l’unzione legittimante della “repubblica”. Il che diventa un po’ pesante da portare avanti.

Mentre il regno degli usi non intenzionali di “repubblica” e “repubblicano” si restringeva come una pelle di zigrino, di recente ho visto solo il registro dell’ironia a sostegno di affermazioni come: “il vero territorio perduto della repubblica è la polizia”. Con forse un po’ di efficacia residua, come possono avere i modelli di rovesciamento: è che ci sono ancora molte persone che credono nella “repubblica”, senza avere una visione troppo precisa di ciò che la parola in definitiva significa, ma che hanno qualche possibilità di sentirsi dire che un prefetto di polizia che divide la popolazione in “campi”, prende di mira i “partiti di protesta”, dà istruzioni per arrestare i semplici portatori di adesivi sindacali o Gilets Jaunes, per liberare i fascisti con lo striscione sul tetto, o che prendono di mira i giornalisti, è il capo di una forza di polizia che difficilmente può continuare ad essere definita “repubblicana”, anche per inerzia. Ci sarebbe persino un certo piacere nell’obiettare a Lallement (il prefetto di polizia di Parigi, ndt), dalla sua stessa grammatica, che la sua pretesa di essere “repubblicano” è una finzione – con l’aggiunta dell’efficacia della critica interna.

Eccoci di nuovo alla domanda originale: con i significanti “al problema”, andare avanti o lasciar perdere? Per quanto io creda che il termine “comunismo” – potrei aggiungere in un altro genere “sovranità” – meriti di essere portato avanti, vedo sempre meno interesse per la “repubblica”. Alla fine, “repubblica” è un concetto politico dei più deboli. Dicendo “la cosa pubblica”, qualifica la politica, ma in generale. Naturalmente la storia moderna le ha dato significati specifici, soprattutto in Francia, ma in Aristotele “repubblica” è il semplice nome della città costituita in quanto tale, prima delle sue particolari forme di organizzazione – quindi non c’è contraddizione nel fatto che la repubblica assuma la forma di una monarchia. Sulle spoglie della maggioranza che la storia dirà che sono stati i fermenti del fascismo nella Francia della prima metà del XXI secolo, infine senza molto contenuto da difendere – a differenza del “comunismo” o della “sovranità”, i cui contenuti sostanziali sono abbastanza ricchi – si cerca, invano, per quali ragioni si dovrebbe lottare per la “repubblica”. Se il fascismo sta arrivando a mo’ di “repubblica”, non vedo il motivo di lottare per questo significante perduto.

 

Pensiamo ai concetti, ai loro usi e agli abusi nel tempo, se dobbiamo reinvestire alcuni di essi piuttosto che altri… Ma a cosa serve, alla fine, un(a) intellettuale, quando in Francia si verificano periodi di protesta inattesi e più o meno spontanei, rivolte popolari e lotta di classe?

Direi che cerca prima di tutto di controbilanciare il partito di maggioranza che la “classe istruita”, compresa la “classe culturale”, prende spontaneamente, il cui primo movimento è quello di protestare contro gli oppressi. Ovviamente, nel dire questo, mi sto implicitamente impegnando in una particolare definizione dell'”intellettuale” come agente che, oltre ad avere come specializzazione, spesso come professione nel lavorare con le idee (idee concettuali o idee di creazione artistica), è molto esplicitamente contro l’attuale ordine sociale e nella prospettiva di trasformarlo radicalmente o addirittura di rovesciarlo. Insomma, colui che ritiene sia giusto ribellarsi. Questo non è esattamente il desiderio della classe istruita, che è sociologicamente legata a questo ordine. Tuttavia, è necessario fare alcune differenze. Lasciamo da parte tutti i laureati inseriti nella divisione del lavoro come dirigenti, la cui adesione all’ordine sociale capitalista arriva fino al folle (anche se: anche da questo lato si comincia ad inciampare) e consideriamo solo coloro che sono in grado di svolgere la “funzione intellettuale” nella società, cioè che hanno accesso al dibattito pubblico per proporre “idee”: giornalisti, opinionisti, esperti, accademici nei media, ecc.

L’accesso regolare ai mezzi di comunicazione di massa è di per sé un indicatore di come coloro che ne beneficiano vi deterranno la “funzione intellettuale”: in modo falso che contraddice la funzione intellettuale, poiché la funzione intellettuale è essenzialmente una funzione critica, la condizione implicita dell’accesso regolare ai mezzi di comunicazione di massa è che essa abbia solo una funzione di ratifica o di falsa critica. La ratifica è l’insieme degli esperti che vengono a dire in varie forme i meriti generali dell’ordine sociale così com’è, la necessità di fare alcuni aggiustamenti per renderlo ancora migliore.

Ma gli specialisti della falsa critica, cioè di una critica che sa bene fino a che punto non esagerare, sono quasi peggio, poiché forniscono al sistema egemonico dell’opinione pubblica i suoi alibi di pluralismo senza mettere in discussione nulla di fondamentale – la prova di ciò è data dal fatto che sono stati re-invitati. Un esempio tipico: trovare l’aumento delle disuguaglianze molto preoccupante, o essere allarmati dal cambiamento climatico, ma non mettere mai in discussione il capitalismo. La falsa critica è una critica fatta da una posizione, tenuta dal cuore del sistema e senza la prima intenzione di toccarlo. Ogni volta che si verifica un evento politico che ha il potenziale di esplodere, quindi con grande potere in termini di classe, come cose diverse come il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa nel 2005, i disordini in periferia nello stesso anno, o i Gilets Jaunes nel 2019, sappiamo esattamente da che parte andranno questi “intellettuali”: verso l’ordine sociale, contro ciò che lo prende di sorpresa, lo sconcerta radicalmente, ciò che è quindi una potenziale minaccia. Essere un intellettuale significa schierarsi dalla parte di ciò che sconcerta l’ordine sociale, schierarsi con le forze dell’irruzione, contro gli intellettuali dei media, che conoscono, con una intuizione molto sicura, l’intuizione dell’habitus, a quel punto in cui c’è motivo di essere spaventati – ci sono “intellettuali” che sono stati presi dalla paura quando i Gilets Jaunes hanno fatto la loro irruzione, temendo che il loro mondo, il mondo in cui si trovano così bene e di cui criticano solo in modo simulacro, venga stravolto per sempre.

Ma c’è un’altra funzione, meno polemica dell’intellettuale in tempi di crisi, una funzione di mettere le cose in parole. Qui prendo in prestito essenzialmente da Sandra Lucbert (con la quale lavoro anche) le sue riflessioni sugli effetti della letteratura, riflessioni ispirate alla psicoanalisi, ma che mi sembrano in parte trasponibili al discorso delle scienze sociali o della filosofia. Ci sono momenti di epifania nella cura analitica, che Freud sottolineava così fortemente come un’opera nella parola, momenti di epifania quando una formazione inconscia ancora sfocata, senza contorno, che lavorava in modo confuso e doloroso sull’argomento, viene improvvisamente portata alla luce dall’effetto di una adeguata messa in parole. Questo momento catalitico dell’analisi è il precipitato del significante, un’opportunità senza pari di vedere quanto profondamente l’essere umano sia un essere di parole, un ‘essere di parola’ come dice Lacan, cioè un essere che una sola parola può salvare (o distruggere). Questo è ciò che la letteratura, almeno come pratica di Sandra Lucbert, ha la funzione di operare: gli affrettati del “ri-significato”, attraverso i quali il semplice fatto di aver messo giù parole, parole nuove ovviamente, che contraddicono (o sovvertono) le parole del potere, può essere un prodigioso sollievo.

Nel suo ordine e con mezzi propri, l’intervento intellettuale può mirare allo stesso tipo di effetto di dissipare le nebbie, o di strappare il velo, in modo che improvvisamente “possiamo vedere”, in modo che finalmente si possa dare un senso a ciò che ci sta accadendo, altrimenti lasciato all’oppressione di una causa informe. Non c’è niente di più preciso quando le persone, dopo uno dei vostri interventi, vi dicono “voi mettete le parole”. Probabilmente non succede ogni volta, ma quando succede, è un bene. E tanto meglio perché questa funzione “significante” o “ri-signifante” è particolarmente richiesta in tempi di crisi, quando la prigione di significato e di strutture imposte dall’ordine egemonico diventa insopportabile da far crollare, ma quando manca ancora una chiara rappresentazione di cosa sia esattamente la prigione. Intervenire intellettualmente in tempi di crisi significa contribuire a produrre questa idea chiara e distinta, come effetto di senso. E poi, proporre un universo completamente diverso inseparabilmente di strutture e categorie, di istituzioni e di significato, alla maniera, per esempio, di Bernard Friot, che insiste molto sulla necessità di ricostruire i termini stessi dell’agenda: una posizione offensiva impone le proprie definizioni di problemi e compiti, quindi le proprie parole. In questo modo ci spinge in un altro mondo di significanti.

 

Ma non ha paura dell’abisso che a volte può allargarsi tra le classi lavoratrici e gli intellettuali, a causa di un certo tipo di linguaggio, accompagnato da concetti e riferimenti la cui violenza sociale simbolica può rivelarsi piuttosto forte? É qualcosa che le è stato rimproverato e, in caso affermativo, cosa ne pensa?

Se questo mi sia stato rimproverato? Ma questo lo sento dire tutti i giorni! (è un modo di dire, no?). Quello che è vero è che non posso contare il numero di volte in cui sono stato redarguito gentilmente o in altri casi maltrattato per questo motivo. Le buone intenzioni mi implorano di fare un piccolo sforzo per parlare o scrivere in un modo che mi renda comprensibile a poche altre persone. I più risentiti si avvolgono nella “classe operaia”, alla quale spesso non appartengono più di me (da qui l’ipotesi del risentimento), per spiegarmi che sono incomprensibile alla “maggioranza” – penso che non ne avevo proprio bisogno per esserne consapevole. Ma vedete come questo dibattito è contorto: coloro che mi fanno la predica qui non sono quindi, il più delle volte, non più lavoratori di me, ma sembrano considerarsi perfettamente in grado di sapere ciò che i lavoratori capiscono o non capiscono. E di trasmettere ammonizioni a loro nome. Ma una volta ho incontrato un sindacalista della RATP che mi ha chiesto la filosofia dell’essere e dell’evento di Badiou, altre volte ho ricevuto e-mail da persone che non mancano di raccontarmi le loro origini e la loro (modesta) condizione sociale, ma che tuttavia mi interrogano molto profondamente su passaggi di alcuni dei miei libri meno da “grande pubblico”. Sono esperienze salutari, che rompono le idee fin troppo semplici di chi ha decretato che “gli operai” non capiscono nulla se ci si rivolge a loro con un vocabolario di oltre 300 parole. Insomma, non si possono dimenticare completamente gli insegnamenti di base della sociologia e non cedere ai presupposti di incapacità delle classi lavoratrici.

Ma allora, in queste condizioni, quale linea dobbiamo seguire? La mia linea è di non avere una linea. Io scrivo come scrivo, va dove deve andare, tutto qui. Qualcun altro avrebbe scritto diversamente e forse, in quel momento, sarebbe andato oltre. Va bene, anche questo andrebbe bene – cioè, in modo diverso. Non ci sia indifferenza, o peggio, disprezzo, per chi si lamenta di discorsi che gli sono ermetici. Tutti sanno per esperienza che non capire è come la dolorosa sensazione di essere esclusi: la sensazione di essere esclusi da qualcosa a cui gli altri (“coloro che capiscono”) possono avere accesso e non se stessi. È spiacevole. Nell’argomentazione (indirizzata al sottoscritto), senza dubbio intrisa di argomentazioni generali e politiche, credo che ne vengano fuori molte. Ed è… comprensibile.

Tuttavia, credo che possiamo entrambi riconoscere questa sensazione e non limitarci ad essa. Perché lasciare a questi l’ultima parola è annullare la funzione intellettuale nel momento stesso in cui viene evocata – tutta questa discussione è ulteriormente complicata dalla lunga storia di arroganza degli intellettuali che abbiamo ereditato, con la quale si tratta proprio di rompere. La linea della non-linea è il mio modo di risolvere queste contraddizioni. Vorrei mostrare cosa c’è dietro, vorrei mostrarlo soprattutto a coloro che, critici rigorosi di “intellettuali” impegnati in politica (finiamo quasi per dire che avremmo meno problemi con loro se ci astenessimo da tutto), sono essi stessi vittime dei peggiori cliché sugli intellettuali, credendosi i meno ingannati. Questo perché in generale la loro prima mossa è quella di liquidare l’intellettuale che è l’esploratore dei popoli e il demiurgo della storia – nel qual caso non è troppo difficile seguirli, la porta è spalancata per essere sfondata. Ma, da questa premessa, ormai accettata da quasi tutti, si deduce a volte, e il più delle volte dagli stessi intellettuali, che essere un intellettuale, poiché non è tutto, è essere nulla. Così, in segno di espiazione per la sua posizione sociale e per il magistero che gli sarebbe essenzialmente legato, l’intellettuale si copre la testa di cenere e dichiara che non offre alcuna differenza (poiché in questo processo espiatorio teme che l’affermazione di una specificità venga immediatamente ricodificata come rivendicazione di superiorità), che andrà “alla scuola della classe operaia” o “del popolo” o altro. Sia chiaro: uscire dal suo isolamento sociologico, entrare in contatto con ciò che le altre classi sociali, soprattutto le classi lavoratrici, stanno elaborando in termini di conoscenze, riflessioni e pratiche politiche, è il minimo che un intellettuale possa fare, ma non è di questo che stiamo parlando. Si tratta di un certo discorso a cui è legato questo requisito elementare. Come sappiamo almeno dai tempi di La Rochefoucauld, le posizioni ostentate di umiltà non sono altro che posizioni di estrema arroganza rovesciata. L’ostentazione dell’abnegazione è il sentimento dell’onnipotenza di sé, ma censurata e rovesciata.

 

Ma allora, che posto occuperebbero?

In realtà, si potrebbe desiderare un po’ più di semplicità da parte degli intellettuali nell’idea che hanno di sé stessi: occupano un posto che non è né nullo né demiurgico (abbiamo ormai capito che è la stessa cosa), occupano il loro posto nella divisione politica del lavoro, punto. Il loro intervento non capovolgerà il mondo, ma prenderà il loro posto, né più né meno, nello sforzo combinato di capovolgere il mondo. Insomma, nel loro registro, insieme a tanti altri, vi contribuiscono. Nella divisione politica del lavoro c’è chi sa organizzare gli incontri, chi ha il cuore di uscire e tirare all’alba, chi gestisce le mense dei poveri, chi accetta di scuotere i posti di lavoro, chi ha il talento (di Serge D’Ignazio) di fotografare i movimenti di strada, o di tirare fuori dal basso un foglio che mostra la creatività dei Gilets Jaunes (“Plein le dos”), poi ci sono altri che lo fanno secondo la propria specializzazione: intellettuale. E buttiamo tutto insieme nella zuppa. L’idea è chiara: l’intellettuale non è lo chef, è lo scorfano, se volete. È nella pentola con gli altri.

Lo scorfano non fa tutta la zuppa di pesce, ma ha il suo piccolo sapore. Non capisco perché gli intellettuali cedano alla loro specificità, cioè alla loro specializzazione – o cedano a coloro che, dico, per demagogia, chiedono loro di cedere. Essere specializzati è aver imparato a fare una certa cosa meglio di altre. Solo una lunga storia di arroganza da parte degli intellettuali può spiegare perché, mentre il panettiere non ha problemi a pretendere di fare il pane meglio del filosofo, il contrario è diventato impossibile per il filosofo per quanto riguarda il suo stesso lavoro di pensiero. In realtà, nessuno ha nulla da guadagnare dalla rinuncia intellettuale alla precisione – che, come è noto, comporta delle complicazioni: di categorie, di linguaggio, di espressione, ecc… – nel suo lavoro. Non possiamo chiedere a un intellettuale di produrre un’analisi che faccia la differenza, cioè che trasformi i modi di vedere comuni in cui siamo bloccati e da cui, appunto, si tratta di uscire, di farlo in una forma immediatamente accessibile: non dobbiamo chiederglielo perché è contraddittorio. Se l’intellettuale non sostiene di avere un modo specializzato di praticare il pensiero, che non annulla il pensiero degli altri e non gli conferisce alcuna eminenza politica, insomma, se nega la sua specialità, allora nega sé stesso come intellettuale. Non ci si deve quindi sbagliare sulla “semplicità” richiesta all’intellettuale. Non è la semplicità del suo discorso – semplice, difficilmente può essere semplice per quello che deve produrre – ma la semplicità con cui viene a prendere il suo posto nella divisione politica del lavoro. Infatti, come ogni divisione del lavoro, la divisione politica del lavoro si basa su un duplice principio di specializzazione e complementarietà: è attraverso l’unione coordinata di contributi specializzati che si svolge il lavoro collettivo.

Vorremmo quindi rimproverarlo di “rendere le cose troppo complicate” e di “parlare solo agli addetti ai lavori” per vedere cosa significa ancora in termini di rappresentazione demiurgica della parola intellettuale – immense masse dovrebbero ascoltarla, capirla, senza dubbio seguirla – ma anche, qui paradossalmente, in termini di una profonda ignoranza del carattere collettivo dell’attività politica. Questo è un paradosso perché non dimentichiamo di cantare “il collettivo, il collettivo” nel modo giusto, ma senza trarre la minima conclusione logica, soprattutto per quanto riguarda la divisione del lavoro che il collettivo necessariamente comporta. Ora, collocare opportunamente l’intervento intellettuale in questo contesto è accettare che, nella forma che ha scelto (e che, peraltro, può variare – per quanto mi riguarda), produce … gli effetti che produce, né più né meno, che questo sarà il suo contributo, questo è tutto. Ed è questa mancanza di comprensione della divisione del lavoro che rende anche impossibile vedere che c’è spazio al suo interno per una grande varietà di registri e livelli di discorso, che è un bene. C’è spazio per un lavoro all’avanguardia, che può essere scomodo da accedere, ma che spinge a nuovi modi di pensare che, con il tempo e la staffetta degli altri, si faranno strada; c’è spazio per un discorso che spedisce legna senza circonlocuzioni – non si è costretti a chiedere questo a uno stesso individuo, tra l’altro. Mi dico che i critici degli “intellettuali ermetici” che, per di più, portano Marx sulle spalle, non devono aver letto una sola pagina de “Il Capitale”. Perché “Il Capitale” non è esattamente una passeggiata nel parco, devi darci una sbirciata. Marx può dire di essere molto preoccupato che il suo libro sia “più accessibile alla classe operaia” e anche che “questa considerazione sia superiore a qualsiasi altra”, ma non è certo (questo è un eufemismo) che molti lavoratori abbiano avuto l’accesso da lui voluto. Eppure, questo lavoro non contava molto nella traiettoria storica del movimento operaio, vero? Le opere di pensiero, di difficile accesso per molti, possono quindi, contrariamente alle apparenze, finire per produrre effetti utili per molti. Forse dovremmo chiederci un po’ di questo, non credete? Forse perché le cose sono un po’ meno semplici di quelle che vorrebbero sottoporre tutti gli interventi intellettuali al metro dell’immediatamente accessibile a tutti.


Intervista a cura di Selim Derkaoui e Nicolas Framont
Traduzione di Andrea Mencarelli

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