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laboratorio

La ricostruzione di una ipotesi comunista per la società del XXI secolo

di Laboratorio 21

Leonardo editoriale1. La sinistra radicale e i comunisti stanno vivendo quello che, in Europa e soprattutto in Italia, è il periodo peggiore della loro storia. Ciò appare paradossale se pensiamo alla profonda crisi strutturale del modo di produzione capitalistico in atto, che dovrebbe fornire argomenti alla sua critica. La verità è che la stessa identità comunista ha necessità di essere ridefinita: cosa vuol dire essere comunisti oggi e soprattutto cosa è il comunismo? La risposta a queste domande e la ripresa del movimento comunista richiedono tempo e soprattutto non possono avvenire mediante scorciatoie politicistiche o ideologico-dogmatiche. Si può risalire la china solo con un lungo e radicale lavoro di rielaborazione della storia del comunismo novecentesco e di comprensione del modo di produzione capitalistico e della società che vi sorge sopra.

 

2. Quella della sinistra radicale e dei comunisti è una profonda crisi, inserita all’interno di una fase di grande trasformazione dell’economia e della società dell’Italia e dell’Europa a sua volta inserita in una grande trasformazione del capitalismo a livello globale. I cambiamenti in atto nella struttura socio-economica hanno avuto conseguenze sulla sovrastruttura politica, determinando la crisi del bipolarismo tra centro-destra e centro sinistra – che in Italia si basava su coalizioni ruotanti attorno a Forza Italia-Partito delle libertà e al Pds-Ds-Pd. Nello stesso tempo lo spazio un tempo occupato dai partiti “centrali” è stato occupato, da una parte, da forze cosiddette populiste come il M5s e la Lega, che hanno drenato gran parte del voto della sinistra radicale e comunista e soprattutto di ampi settori di classe lavoratrice, e, dall’altra parte, dall’astensionismo di massa.

 

3. Di fatto la sinistra radicale è rimasta schiacciata dall’evoluzione della fase storica. Gli errori principali sono stati quelli di essersi fatta risucchiare all’interno della logica bipolare, riducendosi ad appendice sempre più subalterna e non autonomia del centro-sinistra, e di non aver capito le implicazioni profonde della globalizzazione e dell’integrazione europea. In particolare la partecipazione all’ultimo governo Prodi è stata esiziale per la sinistra radicale e i comunisti, che non sono riusciti né potevano, all’interno di quel contesto, portare avanti la propria agenda. Si è, quindi, continuato a far parte di quel governo, con il risultato paradossale di essere imputati innocenti della sua fine e di ritrovarsi svuotati di consensi, come hanno dimostrato le disastrose elezioni del 2008, che hanno sancito, per la prima volta dal dopoguerra, l’espulsione dal Parlamento dei comunisti.

 

4. Quella che poteva essere una crisi senz’altro grave ma risolvibile si è invece aggravata nel corso degli ultimi dodici anni. I comunisti sono sempre fuori dal Parlamento e, cosa più importante, hanno perso il consenso e il radicamento che fino al 2006 in qualche modo ancora mantenevano. Bisogna, quindi, avere l’onestà di andare al fondo del problema e capire quali sono le ragioni perché non si è stati capaci di risalire la china. In particolare va capito che gli errori e le manchevolezze vanno ben oltre la pur decisiva partecipazione al governo Prodi II. Tre sono i limiti che si sono palesati negli ultimi anni: a) il politicismo e il tatticismo; b) la mancanza di una identità definita; c) la mancata comprensione delle implicazioni e quindi di un programma che permettesse di far fronte ai fenomeni dell’integrazione europea, delle delocalizzazioni, delle privatizzazioni e dell’immigrazione.

 

5. In pratica, dopo il 2008, si è pensato di recuperare posizioni o ricercando una riedizione fuori tempo massimo dell’alleanza con il centro-sinistra o, in alternativa, facendo affidamento su formule politiche estemporanee e a figure note al pubblico, come nel caso di Rivoluzione civile e di Ingroia. Al contrario ci si sarebbe dovuti affidare a una riflessione sui contenuti e alla costruzione di un coerente percorso di autonomia politica e ideologica, che fossero capaci di unificare settori politici e sociali a sinistra del Pd e soprattutto i comunisti.

 

6. Una tale riflessione sui contenuti e un tale percorso unificante erano, però, ostacolati dal fatto che era venuta meno una definita identità delle organizzazioni comuniste residue, a causa dei peccati originali del movimento della rifondazione comunista. La rifondazione comunista è stata un assemblaggio di micro-culture politiche, spesso differenziate tra di loro, risultato della disgregazione dell’ipotesi comunista e della fine del Pci e, più importante ancora, dell’Urss. Nessuna sintesi – base di una possibile rifondazione – è stata veramente intrapresa all’interno del Prc, nè è stato fatto ciò che ne era il necessario presupposto: da una parte la rielaborazione critica dell’esperienza del Pci e del movimento comunista internazionale, in particolare della storia dell’Urss, e, dall’altra parte, l’analisi della fase storica del modo di produzione capitalistico. Non che non esistessero delle posizioni in merito a questi temi, il fatto è che si trattava di posizioni che non erano messe in discussione collettivamente e che rimanevano patrimonio delle diverse componenti. Inoltre, si trattava spesso di posizioni che riprendevano e riperpetuavano vecchie posizioni contrapposte, caratteristiche del movimento comunista di parecchi decenni prima. Il problema principale era rappresentato proprio dalla compresenza di correnti e frazioni organizzate all’interno del partito, cui si accompagnava una ridotta capacità di innovare.

 

7. Come dicevamo, la ridefinizione di una identità e di una proposta comunista adeguata al XXI secolo passa per il confronto sul bilancio della storia del comunismo novecentesco, che per noi italiani è in primo luogo quella del Pci. La storia del Pci è quella di un partito comunista, storicamente radicato nella società italiana, che è stato il maggiore dell’Occidente a capitalismo avanzato. Proprio per questo, riflettere sulla sua storia e soprattutto sulla sua fine è di importanza fondamentale. All’interno di quel che rimane del movimento comunista prevalgono atteggiamenti di esaltazione acritica del Pci o, sebbene in misura inferiore, di altrettanto acritico rigetto, che non tengono contro che la sua fine è il prodotto di un processo da analizzare. La fine del Pci non è dovuta al crollo del muro di Berlino, che fu invece l’occasione per portare a termine la trasformazione cui già da tempo si pensava. Il partito, il Pds, che derivò dalla parte maggioritaria del Pci era già in incubazione da diversi anni. Il processo di trasformazione ha origini lontane: “Parti importanti del partito, non solo nel gruppo dirigente, erano andate dagli anni ’70 mutando molecolarmente la propria cultura politica e abbracciavano punti di vista e culture politiche diverse.”[i] Un aspetto molto importante e trascurato è quello dell’analisi critica del periodo berlingueriano. Berlinguer ha rappresentato una figura importante, l’ultimo leader comunista di spessore, però il carisma e l’indubbia buona fede del dirigente non possono farci dimenticare il nostro compito di sottoporre il passato a una analisi seria e senza timori reverenziali. Molti sono i temi dell’epoca berlingueriana su cui bisognerebbe riflettere: l’idea della democrazia come valore universale, che tende a superare la distinzione tra democrazia socialista e borghese; l’affermazione di sentirsi più sicuro nell’ambito della Nato; la conclusione, dopo la vicenda di Allende, che non si potesse conquistare il governo da soli e quindi la proposta di “compromesso storico”, che deluse la domanda di cambiamento così forte all’epoca; la questione dell’”austerità”, che oggettivamente finì per offrire una copertura alla politica dei sacrifici, che coinvolse anche la CGIL; infine il distacco dall’Urss fino ad arrivare alla dichiarazione sulla fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”. Un altro aspetto che, dopo la morte di Berlinguer, determinò le condizioni del passaggio dal Pci al Pds fu il prevalere dell’eclettismo ideologico: la fine della centralità della questione di classe e lo sviluppo di nuove culture sempre più slegate da una critica al capitalismo e dalla prospettiva del socialismo, il femminismo della differenza, la nonviolenza, il pacifismo, l’ecologismo.

 

8. Elemento fondamentale di una ricostruzione comunista è definire un modello di società di transizione. Mentre i rivoluzionari del 1917 non avevano alcuna esperienza concreta su cui basarsi, noi abbiamo il grande vantaggio di disporre di un settantennio di storia dell’Urss e dei Paesi socialisti. La fine dell’esperienza sovietica non è la dimostrazione della impossibilità del comunismo. Essa è soltanto una sconfitta, per quanto grave, dovuta a cause e condizioni specifiche e a errori e limiti storici. L’Urss ha rappresentato un esperimento, che è stato svolto in condizioni difficilissime, e che, già per il fatto di essere durato contro tutto e tutti per 70 anni, dimostra che un altro sistema, al di là del capitalismo, è possibile. La nostra opinione è che, in quanto esperimento, debba essere utilizzato per rettificare e approfondire il nostro modo di concepire e lottare per una società socialista, che non solo è possibile ma è l’unica alternativa al capitalismo, che in modo sempre più evidente è fallimentare da tutti i punti di vista. Ovviamente l’analisi della storia del comunismo novecentesco e dell’Urss non può che svolgersi in modo critico, senza negare gli errori ma neanche gettando il bambino insieme all’acqua sporca e soprattutto non può basarsi sulle categorie borghesi o su concetti morali. Di fatto sull’Urss e sui suoi dirigenti principali è stata esercitata una sorta di damnatio memoriae che non viene mai meno e anzi, a distanza di trent’anni dalla sua fine, è rinfocolata in ogni occasione. Gli esiti di questa operazione sulla memoria sono penetrati anche nelle fila della sinistra radicale e persino tra i comunisti, che spesso si trovano privati della loro storia o a ragionare su di essa con categorie borghesi e etico-morali. Bisogna, al contrario di quanto spesso si fa, tenere conto del contesto e dei limiti soggettivi e oggettivi entro i quali i comunisti di volta in volta si sono trovati a operare nell’ultimo secolo in Russia e negli altri Paesi. Per questa ragione non ha senso oggi, dopo quasi cent’anni, riproporre divisioni, basate su questo o quel dirigente del comunismo internazionale di quasi cento anni fa, che invece vanno ricollocate in una prospettiva storica. In Italia come altrove è passato a livello di massa il concetto del fallimento del comunismo. Per questa ragione la riproposizione di una ipotesi comunista non può esimersi dal confrontarsi con il giudizio liquidatorio su 70 anni di storia socialista ed è assurdo pensare di poter svicolare semplicemente dicendo che quella non è la nostra storia e che noi siamo altro.

 

9. La storia italiana recente può essere fatta partire da “mani pulite”, che ha rappresentato la cesura tra il vecchio sistema dei partiti, basato sul proporzionale e sull’economia mista, alla seconda repubblica, basata sulle leggi elettorali maggioritarie e sulle privatizzazioni. Dietro alla lotta contro la corruzione e il finanziamento illecito dei partiti si nascose un’operazione, combinata con la trasformazione del Pci in partito liberaldemocratico di massa, tendente a trasformare il sistema politico a favore del grande capitale finanziario. Da mani pulite in poi la questione morale e la corruzione sono diventate centrali nel dibattito pubblico, contribuendo all’eliminazione della centralità della questione di classe e della critica al capitalismo. La crisi non è imputata al capitalismo o a precise scelte politiche e economiche, ma alla casta, alla corruzione e all’incapacità dei politici. Si tratta di una cultura che si è largamente diffusa, favorendo l’ascesa del M5s.

 

10. L’operazione mani pulite era parte di un’operazione più complessiva che doveva tendere a eliminare “l’eccesso di democrazia”, come è stato definito in un documento della Trilaterale[ii]. La principale leva utilizzata per ridurre la democrazia in Italia è stata l’integrazione europea che è servita, delegando alcune funzioni statali al livello europeo, a ridurre la sovranità popolare, imponendo controriforme e riduzioni del welfare che sarebbe stato altrimenti impossibile introdurre. L’euro è lo strumento del grande capitale transnazionale europeo per imporre politiche di deflazione salariale e per trasformare il sistema economico e delle imprese in modo funzionale ai suoi interessi nella nuova fase di globalizzazione. I vincoli europei hanno permesso di imporre l’austerity alle popolazioni europee e impedito la realizzazione di quelle politiche anticicliche che potrebbero alleviare la crisi strutturale del capitale. Nel contempo, l’integrazione europea ha aumentato i divari tra i vari stati-nazione, che non solo non sono stati aboliti ma hanno visto aumentare la concorrenza e le divisioni reciproche. Per queste ragioni non è pensabile riproporre una politica di classe a livello nazionale e ancora di più a livello continentale senza la distruzione della gabbia rappresentata dall’euro e dalla Ue. Per i comunisti l’uscita dall’euro e dalla Ue non è certo una condizione sufficiente a superare la crisi del capitale, ma è sicuramente una condizione necessaria, senza la quale non è possibile alcuna ripresa di un processo di trasformazione in senso socialista della società contemporanea dell’Europa occidentale. Per queste ragioni è assurdo che si identifichino come di per sé reazionarie, nazionaliste e di destra tutte quelle posizioni che sono per la fuoriuscita dall’euro.

 

11. La debacle della sinistra radicale e del comunismo in Italia parte anche dal venir meno della centralità della contraddizione lavoro-salariato/capitale e dall’abbandono della critica marxista dell’economia politica in particolare della legge del valore, che mette al centro dell’economia l’accumulazione di capitale basata sull’estrazione di plusvalore dal lavoro salariato. Alla base della società contemporanea c’è, quindi, il rapporto tra le due classi principali: lavoratori salariati e capitalisti. Ma la società capitalistica non è fatta solo di queste due classi, ci sono settori intermedi e suddivisioni all’interno delle classi subalterne e della classe capitalistica. Il lavoro salariato ad esempio non è tutto direttamente produttivo di plusvalore, ma è crescentemente composto di figure di supporto alla produzione di plusvalore sul piano amministrativo e commerciale ad esempio. È quindi imprescindibile, per poter capire la società e la politica, lo svolgimento di una analisi articolata della composizione di classe della società italiana contemporanea e sulla base di questa svolgere una analisi della natura dei partiti principali, a partire da Pd, Lega, M5s. Il settore apicale della società italiana è l’élite capitalistica transnazionale, le grandi imprese multinazionali e le grandi banche internazionalizzate, un settore fortemente europeista e integrato con l’élite europea e statunitense. Questo settore è rappresentato dal Pd. C’è poi un settore di capitale più nazionale, composto di imprese medie e piccole concentrate sul mercato nazionale. A livello ancora inferiore troviamo una massa di lavoratori autonomi e indipendenti con o senza dipendenti. Questi settori, fortemente penalizzati dalla crisi sono rappresentati dalla Lega e, oggi in misura inferiore e soprattutto al Sud, dal M5s. La crisi peggiore dal ’29 ha prodotto effetti di tale entità da aver generato un distacco dalla politica tradizionale, e a volte dalla politica tout court, da parte di milioni di elettori, disoccupati, salariati, autonomi e piccola borghesia, che ha determinato la crisi di Pd e Fi e l’avvento di terze forze, come appunto la Lega e il M5s.

 

12. Parte dell’analisi della composizione di classe è la questione dell’immigrazione, che è strettamente connessa con le dinamiche del modo di produzione capitalistico e con l’impatto di questo sulla società e sulla demografia. L’immigrazione si collega, da una parte, alle dinamiche demografiche in atto in Europa e, dall’altra parte, all’aumento dei divari tra aree periferiche e aree centrali del sistema capitalistico, prodotto dall’imperialismo e dallo sviluppo ineguale tipico del capitalismo. I fenomeni demografici vedono, a causa anche del peggioramento delle condizioni dei salariati nei Paesi avanzati, la riduzione del tasso di natalità che ha portato la popolazione europea a diventare sempre più vecchia e a diminuire nei prossimi decenni: senza immigrazione Eurostat prevede che la popolazione italiana scenderà dai 60 ai 47 milioni di abitanti nel 2060. Di conseguenza diminuirebbe e sta diminuendo già oggi il bacino di popolazione cui attingere forza lavoro con il rischio per il capitale che la scarsità di manodopera faccia crescere i salari. Al tempo stesso l’aumento dei divari tra Paesi centrali e periferici determina un accrescersi del flusso di popolazione migrante dalla periferia. L’immigrazione è, quindi, una parte importante del marxiano esercito di riserva, cioè rappresenta quella parte della forza lavoro occupata in modo intermittente e al di sotto delle condizioni normali allo scopo di tenere alto il saggio di profitto. Gli immigrati sono oggi parte irrinunciabile della classe salariata italiana. Cadere in tentazioni xenofobe significherebbe approfondire i divari e le divisioni all’interno delle classi subalterne e introiettare le contraddizioni del capitale dentro la classe lavoratrice. Dall’altro lato, non si può affrontare la questione dell’immigrazione in modo emotivo o con un approccio etico-caritatevole, troppo spesso influenzato dall’ideologia cattolica. L’approccio corretto è quello di classe, che agisce sul terreno della più generale ricomposizione del lavoro salariato, sviluppando una unità sempre maggiore sia sul piano economico che politico tra lavoratori immigrati e autoctoni.

 

13. La ricomposizione di classe e il collegamento delle lotte economiche a quelle politiche non riguarda solo gli immigrati ma tutto il lavoro salariato. Ciò pone la centralità del sindacato. La questione sindacale è uno degli aspetti decisivi della ripresa della capacità di lotta della classe lavoratrice. Le mobilitazioni più importanti contro l’austerity europea sono venute soprattutto da movimenti extrasindacali sorti fuori dai luoghi di lavoro, come gli indignados e i gilet gialli, invece che dalle organizzazioni tradizionali dei lavoratori. Non sono mancate le eccezioni, come in Francia, dove si sono avute alcune forti mobilitazioni sindacali negli ultimi anni, e anche recentemente, come nel caso delle importantissime mobilitazioni contro la riforma delle pensioni. Invece, le mobilitazioni contro l’austerity e le controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni, ecc. sono state particolarmente deboli nel nostro Paese, dove persino i provvedimenti del governo Monti, di gran lunga il peggiore almeno dell’ultimo decennio, sono passati senza alcuna significativa opposizione da parte dei sindacati principali. Le ragioni della particolare debolezza della riposta sindacale in Italia sono molteplici, e vanno dalle massicce delocalizzazioni alla estrema frammentazione contrattuale del lavoro salariato. Ma, almeno in parte, sono da ascriversi alle scelte politiche del sindacato stesso, in particolare al connubio di concertazione, neocorporativismo e filo-europeismo, che ha caratterizzato i tre principali sindacati italiani, compreso il maggiore, cioè la Cgil. Si pone quindi la questione, da una parte, della ricostruzione di un sindacalismo di classe e antagonista e, dall’altra parte, la capacità di individuare una linea comune, basata sulla critica alla concertazione e all’europeismo, che metta insieme i compagni che sono all’interno della Cgil con quelli che operano in altre realtà del sindacalismo. Proprio la capacità di ricomporre politicamente i comunisti che operano in sindacati diversi è stato ed è uno dei principali elementi di debolezza della Rifondazione comunista e delle altre organizzazioni comuniste. Per poter attuare questa politica unitaria è necessario un programma adeguato alla complessità dei Paesi a capitalismo avanzato secondo quella che Gramsci chiamava “Rivoluzione in Occidente” e la presenza di un altrettanto adeguato e attrezzato partito comunista. Infatti, il sindacato senza la direzione politica di un partito rischia sempre di rimanere circoscritto all’interno di una dimensione economicistica.

 

14. Il capitalismo nel 2007-2008 è entrato nella sua crisi peggiore dal 1929. La crisi attuale è di carattere strutturale, cioè è causata da una sovraccumulazione assoluta di capitale. L’intervento massiccio dello Stato, soprattutto negli Usa, è servito a salvare imprese e a dare una spinta all’economia, ma la crescita del Pil rimane al di sotto della crescita potenziale. In Europa la crisi si sente maggiormente a causa dei vincoli di bilancio che hanno compresso le politiche anticicliche. La crisi strutturale ripropone l’attualità del socialismo come fase di transizione al comunismo. Il comunismo, per usare le parole di Marx nel Capitale, è la riconduzione delle forze produttive sotto il controllo dei lavoratori liberamente associati secondo un piano. L’attualità del socialismo è, però, da intendersi come attualità storica non come attualità politica immediata e non solo per ragioni soggettive, cioè per i bassi livelli organizzativi dei comunisti in Europa e Usa, ma soprattutto per la maggiore resilienza che ha sempre manifestato il capitalismo nel suo centro avanzato. Per questo Gramsci, riprendendo Lenin, parlava di “Rivoluzione in Occidente”, intesa, nelle condizioni e nei metodi, come diversa da quella che si era svolta in Russia. La Rivoluzione in Occidente è la rivoluzione nei Paesi del centro del sistema imperialista lì dove la forza del capitale è maggiore e i rapporti di produzione capitalistici sono maggiormente innervati nella società. Compito dei comunisti in Europa e nei Paesi del centro è capire perché qui la rivoluzione non c’è stata, quali sono le ragioni della resilienza della società capitalistica anche davanti alle crisi maggiori e i limiti di questa resilienza che si possono sfruttare per trasformare lo stato di cose presenti.

 

15. La crisi della sinistra radicale e del movimento comunista si è tradotta in una sempre maggiore polverizzazione organizzativa. Di fatto nessuna organizzazione attualmente esistente ha in sé le specifiche quali-quantitative per essere il punto privilegiato di riaggregazione in grado di ricostruire il partito comunista. Il partito comunista non è un punto di partenza ma un punto d’arrivo di un percorso di ricostruzione del soggetto della trasformazione, che sarà indubbiamente lungo e faticoso soprattutto perché l’impianto precedente va completamente mutato. Per molti anni i comunisti hanno limitato la propria attività alla finalità elettorale e di partecipazione al Parlamento che tendeva come obiettivo ultimo alla partecipazione al governo. Oggi, quella breve fase del centro-sinistra che permise la partecipazione ai governi è definitivamente tramontata. I comunisti devono trovare le ragioni della loro esistenza al di là di quell’obiettivo che era diventato il maggiore, se non l’unico, attorno a cui ruotava la loro attività. Di fatto, la decadenza del movimento comunista in Italia parte dalla rinuncia alla trasformazione della società per aderire invece a un quadro di compatibilità capitalistiche. Questa tendenza, già presente nell’ultimo Pci, non viene meno con la fine del partito nel 1991 e con la rifondazione comunista. La ricostruzione del partito comunista deve ripartire da una sorta di neoleninismo, cioè dai principi organizzativi e politici del leninismo adattati alla nuova realtà sociale: la lotta contro l’opportunismo, l’antagonismo radicale tra capitale e lavoro salariato, la centralità della lotta teorica, perché senza teoria rivoluzionaria non può esserci movimento rivoluzionario, e la coscienza di classe non come coscienza economica, che sorge spontaneamente e direttamente dalle lotte economiche, ma come coscienza politica che nasce dalla critica complessiva all’insieme dei rapporti sociali capitalistici e quindi dalla critica dello Stato come concentrato del potere della classe dominante. Dunque, la ricostruzione di una teoria rivoluzionaria è centrale nel processo di ricostruzione del partito comunista. Ciò non vuol dire che ci si debba limitare a un lavoro teorico, ma che questo debba guidare e dirigere il lavoro di ricostruzione di un radicamento sociale e il processo delle lotte nella società. L’obiettivo del partito comunista deve essere lo sviluppo della ricomposizione delle lotte parziali, che pure sono presenti nel nostro Paese, in forme più generali di critica al complesso dei rapporti sociali e di produzione, collegando il particolare al generale. Oggi, non ci sono le condizioni per la costruzione di un partito di massa come fu il Pci ed è irrealistico pensare a rieditare quanto è finito per sempre. Il nuovo partito comunista non può che essere un partito di quadri, basato su una struttura di militanti capaci di offrire direzione al movimento della classe lavoratrice nei territori e nei posti di lavoro. Il compito dei comunisti non deve essere quello di raccogliere consenso a livello elettorale, bensì quello di costruire e diffondere un orientamento politico rispondente alle necessità della fase con l’obiettivo di innalzare il livello di coscienza e consapevolezza di classe. Troppo spesso ci si è posti il problema dell’”utilità” del partito per i lavoratori in termini di mera difesa delle condizioni di vita o come rappresentante di tipo quasi “sindacale” magari a un livello più alto, parlamentare. Il miglioramento delle condizioni di vita e le lotte economiche e politiche specifiche e parziali non sono obiettivi in sé stessi, ma strumento del processo di accumulazione delle forze e della modificazione dei rapporti di forza politici e ideologici a favore della classe lavoratrice, sempre con la prospettiva dell’abbattimento dello stato di cose presenti. La crisi del movimento comunista italiano parte dalla sfiducia proprio in questo tipo di prospettiva sin dall’interno dei gruppi dirigenti che videro la caduta dell’Urss non come una sconfitta di fase cui rispondere con il rinnovamento delle posizioni e delle idee comuniste, ma come un segnale che il comunismo in sé non potesse avere più cittadinanza e attualità nella società italiana ed europea del XXI secolo. Prova ne sia che con la sconfitta elettorale del 2008 si pensò a ridurre il comunismo a corrente culturale e a ricercare formule politiche ed elettorali da cui non solo i contenuti ma anche il nome stesso di comunismo era espunto. La costruzione del partito comunista deve essere non la riproposizione del passato ma l’originale interpretazione dei principi comunisti in un contesto inedito. Riconoscere la sconfitta è un passo importante ma riconoscere che non si tratta di una sconfitta decisiva e che la storia rimane aperta allo sviluppo possibile di una società comunista è fondamentale.


Note
[i] Liguori, La morte del Pci, p.10
[ii] Crozier, Huntington, Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale.

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Eros Barone
Monday, 04 May 2020 17:15
Il dato su cui riflettere è il seguente: i partiti comunisti rappresentano oggi, nella più estensiva delle ipotesi, una quota di consenso elettorale inferiore o pari al 3%. Questo significa che gli italiani non comunisti o addirittura ostili al comunismo sono più del (o pari al) 97%. Che l'Italia non sia mai stata incline verso il 'comunismo' e la 'sinistra' si sa da parecchio tempo, di là dagli stambureggiamenti mistificatori sul "più grande partito comunista dell'Occidente", che era grande numericamente proprio perché non era comunista né politicamente né ideologicamente. Fin dalle elezioni del 18 aprile 1948, a soli tre anni dalla caduta di Mussolini, le forze
clerico-fasciste, rinnovata espressione del vecchio blocco sociale che aveva sostenuto il fascismo, ripresero saldamente in mano le redini del comando, dopo che il 2 giugno 1946 il referendum su monarchia o repubblica era finito con una vittoria di stretta misura della seconda sulla prima (54,3% contro 45,7%). Insomma, il patrimonio politico-elettorale conquistato con la Resistenza non era poco, ma neanche molto (grosso modo, un terzo del paese). Facciamo allora un confronto tra due situazioni storiche: dopo il "biennio rosso" (1919-1920), nelle elezioni politiche del 1921 socialisti e comunisti raccolsero insieme il 29,3% (il PCd'I, appena costituitosi, ottenne il 4,6%); il 18 aprile del 1948, dopo vent'anni di fascismo, cinque anni di guerra, due anni di resistenza armata, PCI e PSIUP, uniti nel Fronte Democratico Popolare, raccolgono il 30,98%: è quasi la stessa percentuale. La situazione attuale, dopo la scomparsa della sinistra di ispirazione (più o meno vagamente) marxista dal parlamento nel 2008, segna la fine di questa parabola storica. Nell'articolo si legge quanto segue: "La costruzione del partito comunista deve essere non la riproposizione del passato ma l’originale interpretazione dei principi comunisti in un contesto inedito". Vi sarebbe, non so se da ridere o da piangere, per questa mozione di sentimenti e per quel riferimento ad "un contesto inedito". In realtà, è necessario, oggi più che mai, se si intende compiere anche un solo passo nella direzione giusta, individuare con chiarezza ideologica e rigore scientifico le cause oggettive e, soprattutto, le ragioni soggettive per cui in Italia il movimento comunista ha cessato da molto tempo di essere un soggetto storico ed è divenuto una forza ultraminoritaria del tutto irrilevante. Certo, il socialismo è storicamente attuale, ma questo non significa che esso sia politicamente attuale e nel nostro paese è ancor meno politicamente attuale che in qualsiasi altro paese capitalistico avanzato. Questa è, per l'appunto, la contraddizione in apparenza più paradossale: che nel momento in cui si ripresentano con una evidenza irrefutabile le ragioni e financo le basi oggettive per la trasformazione dei rapporti di produzione in senso socialista, le forze soggettive della trasformazione non sono mai state così deboli e immature come in Italia e in Europa.
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