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cumpanis

“La lezione della sincerità”

Contro la frammentazione comunista

di Luca Ricaldone

SenzanomeL'anno prossimo cadrà il trentennale della scomparsa del più grande filosofo italiano del novecento, Ludovico Geymonat. Egli, poco prima di morire, osservava come fossimo di fronte ad un grave arretramento della cultura e come il marxismo venisse esposto solo in modo dogmatico.

Ancora non esistevano i social. Oggi la realtà virtuale è divenuta il dominio incontrastato dell'idealismo, il luogo dove la maggior parte di noi confonde i propri sogni, le proprie aspirazioni con il mondo reale. Il luogo dove si è ciò che si dice di essere; in cui vige il principio: affermo, dunque sono.

Come consigliava Ludovico Geymonat, se vogliamo ricostruire un partito comunista nel nostro paese dobbiamo saper guardare in faccia la realtà e farla emergere, senza aver paura di esporla per quanto dura e difficile possa essere o essere stata. Per questo, ci diceva, è necessaria una “lezione di sincerità”, una lezione di coraggio morale, scientifico, politico che, unito all'azione, deve essere la base per la ricostruzione del partito comunista, che non può nascere su equivoci di sorta.

Ed è proprio da questa considerazione che sarebbe necessario partire quando si affronta il problema dell'unità fra i comunisti.

Il fenomeno della “frantumazione” ha trovato nel nostro paese delle condizioni particolarmente favorevoli, anche se esso si manifesta internazionalmente in ogni paese, avendo la sua origine nell'influenza dell'ideologia borghese tra le file degli stessi comunisti.

E probabilmente è proprio anche a causa di questa influenza nefasta che scontiamo la mancanza di un'analisi critica della storia dei comunisti che non riguardi solo quella del Pci (che pure è stata sviscerata a fondo nel corso dei decenni) ma anche di quello che lo ha seguito, a cominciare da Rifondazione, nonché di tutto quello che c'era alla “sinistra” del Pci e che oggi compone la “sinistra” comunista.

Di tutta questa galassia di partiti, organizzazioni, gruppi e dirigenti poco o nulla si conosce, della loro storia, delle loro origini “vere”, del fatto che molto spesso il contenuto non corrisponde al contenitore, al punto che oggi esiste una miriade di soggetti che fanno, nel modo più disparato, tutto e il suo contrario “in quanto comunisti”. E non è nemmeno un caso che proprio tra i maggiori critici della storia del Pci si annidino i maggiori protagonisti della frantumazione. Da questo punto di vista Rifondazione ne è un paradigma. Ma può essere veramente tutta colpa solo di un Bertinotti qualsiasi?

Mentre le condizioni materiali e morali di vita e di lavoro della classe operaia e di gran parte delle masse popolari del nostro paese si aggravano sempre di più, così crescono anche coloro che guardano con nostalgia al Pci e a ciò che rappresentava. Non si tratta più solo di “vecchi nostalgici”, come in gran parte succedeva fino a pochi anni fa, ma vi sono sempre più giovani. E si avverte in tutti questi la difficoltà a comprendere come sia possibile il permanere di innumerevoli organizzazioni che, in fin dei conti, almeno all'apparenza, si dichiarano tutte comuniste.

L'aspirazione all'unità è molto forte, soprattutto tra i lavoratori, che provano ogni giorno sulla loro pelle gli effetti nefasti della frantumazione. Eppure, malgrado questa generale aspirazione unitaria, fino ad ora non vi sono stati mutamenti significativi in questa direzione.

Sarebbe forse il momento di chiedersi: perché?

Nel 1999 Iniziativa Comunista redasse un “Appello contro la frantumazione” in cui erano esposte nove tesi che ritengo tuttora sostanzialmente valide e che meriterebbero, pur a distanza di oltre vent'anni, una larga diffusione. Coerentemente con quelle tesi Iniziativa Comunista nel 2008 prese la decisione dell'autoscioglimento. Non mi risulta che vi siano stati tentativi equivalenti di affrontare la questione.

Come individuato allora, la “frantumazione” consiste, invariabilmente nel tempo, in una pletora di organismi di vario genere che orientano od organizzano un esiguo numero di compagni: se la quantità sembra relativamente uguale (troppi gruppi e pochi compagni), essi non sono sempre gli stessi, i gruppi nascono, si scompongono, cambiando continuamente mentre i compagni nel corso del tempo nel loro complesso sono un numero enormemente superiore di quelli attualmente orientati od organizzati dall'insieme delle varie organizzazioni; cioè, negli anni, un grande numero di compagni è stato orientato od organizzato e poi “bruciato”; la frantumazione quindi è dissipazione: di organizzazione, di militanti e quadri, di influenza. Il Pci è giunto a raccogliere tra le proprie file oltre due milioni di iscritti, quasi il 5% della popolazione italiana dell'epoca, bambini compresi! Il più grande partito comunista dell'Occidente capitalista! Oggi, tutte le organizzazioni che si dichiarano comuniste messe insieme non riescono a raccogliere nemmeno lo stesso numero di compagni che aveva il Pci negli anni più bui della dittatura fascista alla vigilia della II guerra mondiale!

La frantumazione però non si esaurisce nel solo aspetto quantitativo. Ancora oggi non è chiaro a molti che insieme al più grande partito comunista dell'Occidente, si sono persi i principi su cui quel partito si fondava: non abbiamo perso solo il partito, abbiamo perso la nostra identità.

Però è necessario comprendere anche che l’identità comunista non è un ornamento che si può sovrapporre a qualsiasi cosa. Come ci ricorda l'Appello di IC, l’esempio della parte finale della storia del Pci è illuminante: si fa una politica riformista, e poi borghese e la si copre con il nome “comunista”, le bandiere rosse, la falce e martello sulla scheda elettorale. L’identità comunista, invece, corrisponde a requisiti definiti: disponiamo di una storia e di una teoria ben precisi e di una ben precisa concezione del Partito e della lotta. Questa concezione è tale che i comunisti hanno una sola strategia, tattiche univoche in relazione alle varie situazioni, e un unico tipo di organizzazione. Queste tre componenti non possono essere intercambiabili o variabili anche se nella frantumazione ci sono, per esempio, gruppi che pretenderebbero di realizzare una strategia o una tattica comunista portandola avanti con un tipo di organizzazione che è più adatto ad un’associazione culturale o sindacale.

Per questo oggi la prima battaglia da compiere è proprio quella per ristabilire quei principi che innanzitutto hanno caratterizzato partiti come il Pci.

Non basta un'etichetta, un nome, un marchio, per definire ciò che siamo, l'identità non è data solo da un simbolo. Occorre prendere coscienza del fatto che si è ciò che si fa e non ciò che si dice di essere o di voler fare. Ed è da qui che è necessario ripartire.

Noi oggi abbiamo perso la coscienza di cosa voglia dire essere comunisti, essere rivoluzionari. Di che cosa sia un partito comunista; cosa voglia dire costruirlo. Soprattutto, abbiamo perso l'etica dei comunisti. E l'abbiamo sostituita con l'estetica.

Per questo la domanda giusta da porre non è su quali basi realizzare “l'unità dei comunisti”, ma bensì su quali basi costruire un partito comunista.

Per molti non è facile da comprendere, ma ancora oggi il problema che ci si pone è lo stesso dilemma che poneva Lenin un secolo fa, ovvero: “sistema dei circoli o partito?”.

Nei decenni trascorsi dalla liquidazione del Pci tutte le organizzazioni della sinistra, anche quelle che pomposamente portavano o portano il nome di partito, hanno generalmente assolto solo funzioni unilaterali (sono riuscite cioè ad esercitare solo un ruolo tematico e localistico) e hanno, quindi, finito per essere subalterne, indipendentemente dalla propria volontà, a varie forze funzionali al sistema o comunque estranee all'identità e alla funzione storica del movimento comunista. Non riuscendo a coniugare coerentemente teoria e prassi o, per meglio dire, lato qualitativo e lato quantitativo nella propria azione; intendendo il primo come patrimonio e posizioni teorico-politiche e il secondo come capacità reale di radicamento di classe e di reale incisività organizzativa. Sarà facile osservare che questa separazione tra teoria e prassi si è talmente divaricata fino ad esprimersi in una contraddizione tra lato qualitativo e lato quantitativo delle diverse organizzazioni: tanto che, in genere, chi ha tenuto a coltivare il primo aspetto lo ha fatto a scapito del secondo e viceversa.

Questo è il “sistema dei circoli”.

Qualche anno fa alcuni compagni hanno proclamato la rinascita del Pci, illudendosi che il semplice recupero di un nome e di un simbolo potessero essere la facile e risolutiva soluzione ai disastri degli ultimi decenni. Inutile dire che quel progetto è completamente fallito e i risultati raccolti sono avvilenti se confrontati con i buoni propositi che lo hanno animato. Tuttavia, l'interesse che ho riscontrato in tanti tra quei compagni per un impegno unitario mi fa ben sperare nella possibilità di condurre insieme una lotta efficace contro la frantumazione. Con la coscienza che nessuno di noi è immune da errori. In alcuni casi certi atteggiamenti si sono manifestati anche nel partito in cui milito, il Partito Comunista. Ma questa non dovrebbe essere una sorpresa o motivo di autoflagellazione: noi tutti, ci piaccia o meno, subiamo l'influenza dell'ideologia borghese. Nessuno di noi ne è immune. Ma è proprio per questo, come consigliava Geymonat, che è necessaria una “lezione di sincerità”.

Nel corso degli anni ho incontrato molti compagni che si sono avvicinati al nostro Partito e una gran parte di essi non ha fatto la scelta della militanza attiva. Certamente vi sono motivi molto diversi per ognuno, ma credo che per la gran parte possano essere fatti risalire ad un unico motivo: quello che trovano è molto diverso da quello che si erano immaginati. Il più delle volte pensano di entrare in un partito già bell'e pronto, con tutte le caratteristiche che poteva avere, o si immaginano abbia avuto, un grande partito come il Pci. È evidente che la realtà è ben diversa. E non tanto per un problema di dimensioni, un problema quantitativo. Ancora oggi fatichiamo ad assolvere varie funzioni del partito non solo e non tanto perché siamo pochi, perché il nostro è un partito molto piccolo. Ma perché ancora molti compagni subiscono inconsapevolmente l'influenza dell'ideologia borghese e perché l'unico modello di partito che la maggior parte di essi conosce è quello di Rifondazione, ovvero un “partito dei circoli”. Non dobbiamo mai dimenticare che il Pci è scomparso da trent'anni e sono sempre di meno ormai i compagni che hanno memoria diretta di cosa sia stato nel concreto.

La maggior parte di quei compagni che si avvicinano a noi lo fanno avendo in mente un'idea di partito e un concetto della militanza che ha subìto l'influenza nefasta degli ultimi decenni, dove a dominare pressoché incontrastati sono stati il revisionismo e l'opportunismo. Essi credono, nella migliore delle ipotesi, che militare in un partito comunista sia qualcosa di simile ad una carica di cavalleria: le bandiere spiegate al vento e avanti inarrestabili fino alla vittoria del comunismo! C'è la credenza diffusa che il successo, ancorché relativo, porti inevitabilmente ad altro successo. Ad esempio, se oggi alle elezioni conquistiamo l'1% domani si aspettano l'1,5% e via di seguito. Ma militare in un partito comunista non è solo sventolare una bandiera o distribuire un po’ di volantini. Men che meno pubblicare citazioni o foto di Stalin sui social. Il partito comunista, così come il suo radicamento tra le masse lavoratrici, non sorge d'incanto, come per magia. Non ci è regalato dalla nostra presenza sui social. Costa un duro lavoro, fatica, sudore. Il più grande partito comunista dell'Occidente non è sorto d'incanto. I comunisti hanno lavorato in condizioni durissime per vent'anni e solo con la guerra mondiale si sono create le condizioni per la sua crescita.

Come ci ha insegnato Fidel, i rivoluzionari devono avere la consapevolezza del momento storico. Questo significa comprendere innanzitutto che siamo ancora nell'epoca di costruzione del Partito. E che il nostro compito principale oggi è dotarlo degli anticorpi e di un apparato riproduttivo senza i quali qualsiasi risultato ottenuto potrà essere solo provvisorio.

Chi è alla ricerca di soluzioni facili e rapide non le troverà. Ciò che sembra facile e rapido in realtà non è una soluzione. Non contrapponiamo una soluzione lunga e faticosa ad una facile e immediata: saremmo veramente sciocchi a farlo. Una strada, per quanto ripida e tortuosa, ci porterà alla meta. L'altra è una via senza uscita che ci fa solo perdere tempo. Da una parte c'è la dura e difficile lotta per la costruzione del partito comunista. Dall'altra, la vana ricerca di una facile e immediata via d'uscita alle difficoltà del momento. La prima richiede tempo. La seconda sembra semplice e a portata di mano. Non è un caso che tutti i tentativi compiuti fino ad oggi nella direzione del “superamento” della frantumazione attraverso alleanze, fronti o “costituenti comuniste” di varia natura non solo non hanno ottenuto i risultati sperati, ma anzi hanno finito e finiscono coll'alimentare ulteriormente la frantumazione conducendo molti altri compagni all'abbandono della militanza politica. Dovrebbe essere chiaro che il modello di Rifondazione ha dimostrato il suo fallimento e non è certo la sua riproposizione in chiave odierna che può rappresentare la soluzione dei nostri problemi.

È chiaro che l'impostazione che auspico richiede un profondo lavoro dedicato alla formazione politica di tutti i comunisti: dal primo dei quadri dirigenti all'ultimo dei militanti. Non sto parlando di uno studio scolastico dei maestri del marxismo-leninismo. Non è sufficiente saperli decantare fino all'ultimo salmo. Trovare la citazione giusta per ogni occasione non serve a null'altro se non a gratificare il proprio ego. Sto parlando della capacità di comprendere il mondo in cui viviamo e di saper agire per poterlo cambiare. Quindi studio e azione, teoria e pratica. Un'organizzazione che non si preoccupa di formare nuovi quadri capaci di pensare con la propria testa, di apprendere dai propri errori, di migliorarsi, di non lasciarsi abbattere dalle sconfitte, è un'organizzazione che verrà sconfitta. Perché se si addestrano i militanti unicamente ad eseguire direttive emanate da altri, questi stessi militanti non saranno in grado di vedere, di scoprire gli errori e le deviazioni. Saranno impreparati ad affrontare gli ostacoli e i nemici, esterni e interni al partito, che via via si troveranno innanzi. Saranno impreparati a condurre una lotta implacabile contro il revisionismo e l'opportunismo. Saranno impreparati nel garantire l'indipendenza del partito.

È qualche cosa di molto più difficile e complicato del pubblicare un commentino sui social o inserire una scheda in un'urna. Sicuramente saranno in molti, se non tutti, d'accordo su questo. Il problema è che fino ad ora ben pochi si sono messi al lavoro in questa direzione.

Non dobbiamo mai dimenticare che tutte le grandi vittorie del movimento comunista internazionale sono costate sacrifici enormi. La Rivoluzione d'Ottobre, l'edificazione del primo Stato socialista, la vittoria sul nazismo, le grandi vittorie rivoluzionarie in Cina, a Cuba, nel Vietnam, sono state ottenute a costi umani immensi. Oggi vedo moltissimi compagni capaci di schiacciare l'imperialismo a colpi di commentini e guerre nucleari scatenate sui social. Ma la vita reale è un'altra cosa. Nel mondo si combattono guerre vere. La gente muore veramente. Il sangue scorre veramente. E le guerre non si vincono facendo a gara a chi è più sanguinario a parole.

L'elevamento della coscienza politica è sempre stato la componente essenziale di ogni esercito rivoluzionario. Da qui l'importanza della figura del Commissario politico, tanto disprezzata dalla borghesia. Lo si è visto in Unione Sovietica, ma anche altrove. Durante la Resistenza in Italia; in Cina, dalla Lunga marcia; nella guerra in Vietnam; a Cuba; ecc.

Senza un altissimo livello di coscienza politica non sarebbero stati possibili i tremendi sacrifici fatti in tutte quelle guerre. Solo con una disciplina imposta dall'alto semplicemente non sarebbero stati possibili. Quando la guerriglia cubana incorporava nuovi volontari, il “Che” non pretendeva che sapessero sparare, ma bensì che sapessero leggere e scrivere.

Questo perché in un partito comunista la disciplina non è fatta solo del rispetto delle regole. Ma, innanzitutto, della loro comprensione. Perché è dalla loro comprensione che sorge la coscienza della necessità della disciplina.

Per questo il lavoro per elevare le coscienze, ovvero la formazione, dovrebbe essere considerato di importanza fondamentale.

Oggi, invece, si è gradualmente realizzata la completa sostituzione dell’etica con l’estetica. La forma, l’apparenza hanno preso il posto dei contenuti e dei significati: lo scopo essenziale è diventato simulare, apparire, far sembrare che. Ovvero, tutto il patrimonio di mezzucci con cui fino ad oggi si è alimentata e di cui vive la frantumazione.

Per questo non la lotta per l'unità dei comunisti, ma bensì la lotta “contro” la frantumazione (che è cosa ben diversa da un suo “superamento”) deve essere il principale obbiettivo attuale del processo di ricostruzione del Partito.

Ad un'osservazione superficiale sembrerebbe una contraddizione, ma in realtà non lo è. Infatti, la lotta alla frantumazione non è finalizzata ad una imprecisata aspirazione “unitaria” ma è proprio lotta contro il revisionismo nella forma in cui essa si deve esprimere nella situazione attuale.

Quindi, è nella lotta per la ricostruzione del Partito e contro la frantumazione che si distingue l'identità comunista oggi ed è questa una delle discriminanti per l'unità di principi e azione.

Comments

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Eros Barone
Saturday, 14 November 2020 13:37
Visto che l'autore dell'articolo valorizza giustamente il pensiero di Ludovico Geymonat, non sarebbe stato male che, riferendosi all'importanza della disciplina rivoluzionaria, ne avesse sottolineato non solo il significato etico-politico (di rispetto delle regole ecc.), ma anche il significato filosofico ed epistemologico che essa assume alla luce del rapporto tra teoria e prassi, che è uno dei capisaldi della concezione marxista-leninista del partito proletario. Vi è poi un punto di dissenso fondamentale rispetto all'impostazione per alcuni versi condivisibile che caratterizza questo articolo, ed è l'assenza del concetto (giusto) di 'costruzione' sostituito dal concetto (erroneo) di 'ricostruzione' del partito comunista. E va detto con franchezza che tale errore inficia nella sostanza l'intera impostazione dell'articolo. E' proprio in questo preciso punto che si colloca il giudizio sulla figura e sull'operato di Togliatti. Ovviamente, non è in questione il pieno riconoscimento della statura intellettuale e culturale di questo eminente uomo politico. Sennonché Togliatti e il togliattismo sono difficilmente separabili, e la ragione di tale inseparabilità va ricercata nel fatto che entrambi costituiscono, nella storia del movimento comunista italiano e internazionale, la matrice della degenerazione revisionista. Partirei, nell'argomentare il mio giudizio negativo sulle scelte di Togliatti, dalla parola d'ordine della lotta al "socialfascismo" formulata dal VI Congresso dell'Internazionale (1928), che identificava il fascismo e il socialismo borghese come due manifestazioni equivalenti del nemico di classe. Questa direttiva, di cui oggi constatiamo tutta la pregnanza anche dal punto di vista tattico, era strategicamente giusta perché individuava la 'democrazia' e il fascismo come due aspetti dello stesso nemico di classe. Sennonché la svolta del VII Congresso (1935), incardinata sulla parola d'ordine dei "fronti popolari" e sulla ridefinizione del movimento comunista come alleato della democrazia borghese nella lotta contro il fascismo, sembrò una scelta valida perché inseriva il movimento comunista nelle contraddizioni del nemico, divideva il fronte capitalistico e portava la democrazia borghese su posizioni di lotta antifascista. Così fu intesa e praticata, ad es., dal movimento comunista cinese che con questa tattica di alleanza da esso egemonizzata riuscì, in poco più di un decennio, a conquistare il potere. In Occidente, invece, il movimento comunista negli anni successivi intese e praticò sempre di più la politica dei "fronti popolari" in termini strategici, anziché tattici (lascio, per ora, in sospeso l'importante questione dell'analisi delle cause che determinarono questa conversione della tattica in strategia). Sta di fatto che i partiti comunisti europei tendevano in quegli anni a vedere nella politica dei "fronti popolari" una linea permanente (e non solo contingente, cioè tattica), finendo con l'essere egemonizzati, nel gioco delle alleanze, dalla democrazia borghese. Così, all'inizio questa viene vista come male minore rispetto al fascismo; poi come un regime più favorevole per avanzare verso il socialismo; poi ancora come una tappa obbligata per portare a compimento la rivoluzione borghese prima di passare alla tappa socialista; infine come una rivoluzione 'democratica' che deve comprendere la classe operaia ed i suoi alleati (praticamente la grande maggioranza della nazione) portandoli ad assumere la direzione politica della società. Questa elaborazione, che durerà due decenni (1935-1956) e procederà in modo lento e tortuoso, sfocerà nel revisionismo della "via democratica" nei paesi capitalisti e dello "Stato di tutto il popolo" nei paesi socialisti, mettendo in soffitta la "rottura dello Stato borghese" e la "dittatura di classe", cioè due teorie basilari del marxismo-leninismo. Inoltre, questa prospettiva gradualista e riformista farà sì che durante le guerre di liberazione concomitanti alla seconda guerra mondiale nessun movimento comunista dell'Europa occidentale cercherà di egemonizzare il fronte antifascista orientandolo verso la rivoluzione socialista. In tal modo il potenziale rivoluzionario delle classi subalterne sarà messo al servizio della democrazia e dell'antifascismo borghesi operanti nelle singole realtà nazionali. Palmiro Togliatti, uno dei maggiori esponenti del movimento comunista europeo, ha personificato in modo paradigmatico, sia nella pratica che nella teoria, la conversione della tattica in strategia, che è l'essenza del moderno revisionismo. Basta leggere uno degli articoli da lui scritti sulla rivista teorica "Stato operaio" durante la seconda metà degli anni Venti per misurare quale differenza vi sia rispetto alla successiva produzione politica e intellettuale: ad es., rispetto al discorso di chiusura tenuto al VII Congresso del 1935. In questo discorso Togliatti, dopo aver giustamente rammentato che "vi furono dei sedicenti marxisti i quali tentarono di rivedere questa posizione affermando che il capitalismo può 'organizzarsi' e svilupparsi per vie pacifiche; teorie opportuniste... già fallite da molto tempo", attacca la "deformazione pedantesca... che è impossibile separare la guerra dal regime capitalistico", sostiene che "esistono dei governi borghesi interessati al mantenimento della pace" e conclude che "non soltanto oggi è possibile differire la guerra, ma, date certe condizioni, è anche possibile 'prevenire' lo scoppio di una nuova guerra imperialista". Orbene, l'analisi di Togliatti è svolta sulla scia della svolta dell'Internazionale verso la tattica dei "fronti popolari", ma, a ben guardare, il discorso di Togliatti eleva a princìpi teorici e strategici certi aspetti tattici della nuova politica, escludendo in via di fatto, oltre che in linea di principio, la rivoluzione proletaria nei singoli paesi. Il 'Leitmotiv' di questa elaborazione è sempre lo stesso: non utilizzazione delle contraddizioni in seno al capitalismo (se non a parole), ma dislocazione del movimento comunista sul terreno della lotta contro i 'cattivi' capitalisti (i fascismi) e dell'alleanza con i 'buoni' capitalisti (le democrazie borghesi). Il passaggio dal marxismo al socialismo piccolo-borghese sarà poi concluso e sancito quando Togliatti, che Stalin era solito definire "italijanski advokat" per certi tratti di causidico e di pignolo, nel rapporto al Comitato Centrale dell'aprile 1964 inquadrerà la guerra non come un fenomeno tipico del capitalismo ma come una forma di "distruzione della nostra civiltà". Sono questi i motivi per cui, se si vuole procedere speditamente e chiaramente sulla via (non della 'ricostruzione' né tanto meno della 'rifondazione' ma) della costruzione del partito comunista, occorre liberarsi non solo dal revisionismo epigonico di Berlinguer, ma anche e soprattutto dal revisionismo prototipico di Togliatti.
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