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Intervista a Toni Negri

di Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero

Schermata del 2023 12 20 14 53 51.pngL'intervista a Toni Negri che pubblichiamo oggi è tratta da Gli operaisti (DeriveApprodi, 2005), curato da Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero.

È un documento importantissimo per capire la storia e il pensiero di Toni Negri: nell'intervista, infatti, si parla dei nodi principali delle sue esperienze politiche, dai «Quaderni rossi» all'Autonomia; del suo percorso di formazione; sul rapporto movimenti-progettualità; sull'attualità, sulla ricchezza e sui limiti del pensiero operaista.

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Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale? Ci sono state persone e figure che hanno avuto una particolare importanza in tale percorso?

lo vengo da un’esperienza assai specifica che è quella di una famiglia laica nel Veneto, una famiglia di origini emiliano-lombarde.

Mia madre è mantovana e mio padre è bolognese, piccoli proprietari terrieri fascisti la famiglia di mia madre e comunisti quella di mio padre, famiglia di operai. Mio padre è morto quando avevo due anni, era un comunista che era stato perseguitato a lungo per questa tradizione, mia madre era praticamente neutrale dal punto di vista politico. La tradizione comunista me l'ha insegnata mio nonno con il quale ho vissuto parecchio a Bologna. Dopo di che ero un bravissimo studente, e nel Veneto degli anni Quaranta e Cinquanta praticamente trovai un’apertura di sinistra (ma piuttosto tardi, intorno alla maturità, in seconda liceo credo) in un gruppo di amici che erano più o meno cattolici, perché in realtà il Partito comunista, poco di più il Partito socialista, non esisteva a Padova, avevano una bassissima rilevanza dal punto di vista culturale all'interno dell'università, e io cominciai allora, alla fine del liceo vissuto a Padova, a parlare di politica con questi compagni, che erano cattolici di sinistra assai radicali.

Forse perché ero un ragazzo intelligente, scolasticamente molto produttivo, forse perché ero diverso, nel senso che non avevo alcuna prevenzione, mi ritrovai promosso immediatamente alla direzione nazionale della Gioventù italiana dell’Azione cattolica, nella quale trovai uno stranissimo gruppo di persone che facevano capo alla presidenza di Mario Rossi e tra cui spiccavano Umberto Eco, Emanuele Romano e via di questo passo. C'era in particolare un prete molto bravo, si chiamava don Arturo Paoli, era un po’ quello che gestiva tutta la faccenda, su posizioni estremamente di sinistra, di rottura con il mondo cattolico di Pio XII, di Gedda, cioè un mondo reazionario da far paura. Noi sostenevamo la dissoluzione della Gioventù italiana dell’Azione cattolica e la formazione, alla francese, di tre grosse sezioni, una di operai, una di studenti e un'altra di contadini, ritenendo che la grazia di stato era diversa nei vari casi: se uno era operaio avrebbe dovuto avere una predisposizione divina ad agire bene diversa da un contadino, pur nell’unità e nella grande comunità dei fini. Ci espulsero dopo due anni, ma avevamo dato un notevole rilancio a questa Gioventù italiana dell’Azione cattolica.

Io nel frattempo avevo cominciato a viaggiare molto, in maniera abbastanza raminga, in autostop, fondamentalmente in Europa; andai in Israele un anno, nel ’54-55, quello fu per me un momento di grande educazione politica, perché vissi in un kibbutz comunista. Di marxismo non sapevo praticamente nulla, vissi le pratiche comuniste radicali in un kibbutz dove non esisteva famiglia, non esisteva nulla, veramente esistevano solo la comunità e il lavoro. Io ho vissuto per un lungo periodo lì, poi sono tornato in Italia e sono andato su e giù tra la Francia, la Germania e l’Inghilterra per due o tre anni, fino a che non mi sono laureato. Se devo parlare dei miei maestri allora parlo ad esempio di un formidabile matematico con cui ho vissuto in kibbutz, Suzy, un comunista egiziano laureato a Cambridge che era stato in galera a lungo sotto Nagib, era stato liberato all’arrivo di Nasser ed era venuto lì. C’era poi un compagno bravissimo, assistente di Bloch a Tubinga. In Italia posso citare ad esempio don Arturo Paoli, che poi è stato espulso, faceva l’assistente degli immigrati quando andavano su e giù con le navi, successivamente è diventato piccolo fratello di padre Foucault ed è stato a lungo a lavorare nel porto di Algeri come docker. All’università ho conosciuto un po’ tutti ma senza legarmi a nulla, quando ne sono uscito ero praticamente un lukacsiano. Ho fatto una tesi sullo storicismo tedesco che è stata poi pubblicata in parte da Feltrinelli nel ’58 (non c’era ancora la casa editrice, era l’Istituto Feltrinelli), si trattava della prima metà su Dilthey, Meinecke, gli storici; ne avevo un’altra parte che non ho mai pubblicato (e chissà, un giorno o l’altro forse riprenderò) su Weber e Troeltsch. Contemporaneamente, appena laureato (e qui in effetti cominciano i maestri) ho vinto il concorso all’Istituto italiano per gli studi storici a Napoli, diretto da Chabod, e lì ho avuto il primo grosso contatto con una grande personalità scientifica; in più c’era un giro di colleghi e persone assai bravi con cui sono rimasto amico. Insomma, Chabod è stato un primo grosso contatto, soprattutto per capire che cosa era effettivamente il politico.

Nel frattempo, nell’ultimo anno di università, quando ero stato a Padova per finire gli esami e fare la tesi, avevo fatto il direttore di una strana cosa che era mezza cattolica e mezza socialista, ossia l'Intesa democratica, ma non quella che c'era a livello nazionale, che si chiamava semplicemente Intesa ed era un prolungamento della Fuci (Federazione universitaria cattolici italiani); quella di cui parlo I'avevamo messa in piedi con un gruppo di amici cattolici che stavano seguendo più o meno le mie stesse evoluzioni, infatti sono diventati tutti laici, tranne quelli che si sono fatti preti e sono partiti in missione via dal Veneto. Ce n’è uno ad esempio, si chiama Umberto Pietrogrande, che è diventato gesuita e ha lavorato per anni e anni nel nord-est brasiliano facendo dei corsi eccezionali, costruendo grandi cooperative di poveri, di contadini ecc., un altro era francescano, anche lui missionario in Africa: insomma, quelli che sono rimasti cattolici se ne sono andati. Tra quelli che sono rimasti qui c'era Paolo Ceccarelli, che è diventato architetto ed è stato rettore di Venezia, c'era Laura Balbo, che è stata anche ministro, e via di questo passo. Era un ambiente di estrema ed enorme vivacità intellettuale nella solitudine: adesso c’è la solitudine e non c’è più la vivacità intellettuale di allora.

Poi noi nel Veneto stavamo vivendo una trasformazione assolutamente incredibile: tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta esplode il capitalismo, si capisce che cos'è il capitalismo pezzo per pezzo.

Quando io ero bambino, durante la guerra, quando ero stato sfollato in campagna, c’era veramente un paese di contadini poveri che emigravano e tornavano, quando tornavano, con un po’ di soldi. Questo si vedeva anche rispetto al mantovano, nelle cui campagne andavo spesso per fare visita ai miei nonni che avevano una piccolissima impresa, si mangiava il pane bianco, c'era il formaggio, invece nel Veneto non c’era veramente niente, proprio miseria. Negli anni Cinquanta cominciano invece a nascere le fabbrichette, gli emigrati iniziano a non partire più: comincia la scoperta della grande fabbrica.

Dal punto di vista accademico io sono stato molto fortunato, subito dopo Napoli ho fatto un anno in Francia, poi ho pubblicato il mio secondo libro che era la mia seconda tesi, sul giovane Hegel, anch’essa una tesi fondamentalmente lukacsiana, con Hyppolite alla Scuola normale superiore a Parigi. Tornato in Italia, nel '58-59 ho fatto immediatamente la libera docenza. Nello stesso periodo mi sono iscritto al Partito socialista a Padova, che era una sezione di sinistra, insieme ad altri compagni (Ceccarelli, la Balbo ecc.): ci iscriviamo perché ci sembra libero da incrostazioni staliniste che ci davano molto fastidio fin da allora. Lì comincia I'amicizia con Guido Bianchini e Tolin, formiamo un primo gruppo di compagni all'interno del Partito socialista, e ci incrociamo con Panzieri attraverso Mimmo Ceravolo, che era il segretario della federazione mandato lì da Morandi. Comincio quindi ad andare su e giù da Torino alle riunioni più o meno mensili dei «Quaderni rossi», inizio a frequentarli dalla formazione del primo numero ed entro nella redazione con il secondo. Intanto la mia carriera universitaria era completamente bloccata per le mie posizioni politiche, in più ero in una facoltà particolarmente reazionaria come Giurisprudenza, restavo assistente straordinario, non guadagnavo niente, vivevo facendo traduzioni di libri gialli e bollettini editoriali, con un lavoro assolutamente precario. Il professor Opocher mi dà effettivamente una mano, mi stima, mi vuole bene: faccio dunque un libro sul formalismo post-kantiano, è un testo molto accademico, filologicamente piantato, che ha avuto fortuna persino in Germania tra gli studiosi appunto del periodo post-kantiano. Nel frattempo traduco Hegel per Laterza, Gli scritti minori di filosofia e diritto.

Allora, i maestri e la formazione. Se oggi ci penso è la cultura di sinistra, recepita da un angolo di provincia in cui si presenta immediatamente come bisogno di azione. Noi cominciamo ad andare davanti alle fabbriche già attorno alla faccenda Tambroni: credo che le prime volte che sono andato a vedere queste fabbriche da fuori e capire cosa erano, a cercare e ad aspettare gli operai che uscivano per sapere quali erano i problemi, per tentare di capire con molta umiltà, fosse nel’58-59. Poi scoppia il gran casino nel luglio’60 e il divertente della storia è che io a quel punto sono già segretario della federazione: quella di Padova è la federazione socialista più grossa del Veneto, siamo maggioritari anche nei confronti dei comunisti, il segretario della Camera del lavoro era socialista. In pratica mi trovo a gestire le lotte, senza capire niente devo dire, con un deputato comunista che si chiama Busetto, con cui ci vedevamo continuamente, lui andava su e giù da Roma e consigliava la prudenza: sta di fatto che lì faccio un gran casino e mi prendo le prime denunce per comizi infiammati. Poi, nello stesso luglio del ‘60, parto per l’Unione Sovietica, siamo un gruppo di giovani che si sono messi in vista durante i fatti di quel luglio: c'è Cossutta, che allora era il segretario di Milano, c'è Alinovi, il segretario di Napoli, c'è il segretario di Ravenna. Siamo insomma una decina e veniamo ricevuti da Suslov, è veramente una storia assurda: mi sono ammalato, è stato proprio un rifiuto psicosomatico, mi sono preso una polmonite feroce, così dopo un paio di mesi sono tornato giù e ho chiuso questa mia unica e sola esperienza di visite ai kolchoz, ai sovchoz, alle fabbriche. Nel frattempo invece ero stato parecchio in Jugoslavia, quando ero nell'Intesa democratica, la prima volta nel ’56 a un convegno come rappresentante dell’Unione nazionale degli studenti italiani, quindi in un momento grosso della prima grande crisi del mondo socialista: lì si anticipano un po’ dei discorsi successivi, quello che succederà in Polonia ad esempio. In quell’occasione prendo contatto soprattutto con dei francesi, degli amici con cui poi sono rimasto in rapporto, ad esempio Jean-Marie Vincent, con cui abbiamo diretto «Futur antérieur» a Parigi, che aveva la mia stessa età ed era rappresentante dell’Unef, I'Unione nazionale degli studenti francesi; lui, non io, era già un perfetto conoscitore della letteratura marxista. Quindi, la mia formazione è completamente all'interno del mondo della cultura di sinistra. C'è infatti I'enorme fenomeno costituito dall’egemonia sulla cultura italiana imposta, stabilita, diretta e tenuta dal Partito comunista dalla fine della guerra in avanti: io cresco come un buon allievo di questo, salvo appunto il bisogno di azione, che credo poi fosse la cosa che avevano tutte le persone sensate, che passa attraverso il cattolicesimo, l'esperienza in Palestina, in Israele, poi I'entrata nel Partito socialista. Per tutto questo, lo dico sempre, io sono diventato comunista molto prima di essere diventato marxista: prima conoscevo Marx, ma era una cosa scolastica, dietro le categorie non vedevo dei soggetti, restava questa brava filosofia oggettiva, dialettica, non vedevo soggetti, non vedevo storia, non vedevo lo sfruttamento per quello che è e non come formule matematiche. È appunto nel periodo dei «Quaderni rossi» che comincio a leggere e a lavorare, subito dopo aver finito (nel’60-61) la produzione accademica, quella che mi serve per andare in cattedra, che è fondamentalmente orientata a sinistra ma dentro il clima della sinistra italiana: il marxismo comincio a toccarlo solamente allora. Nel frattempo facciamo un giornale che si chiama «Il progresso veneto», che è settimanale, funziona per due anni come federazione, e comincia a rovesciare sulle fabbriche il discorso politico socialista dei «Quaderni rossi». Questo giornale dura, credo, fino al ‘62-63, è lì che dopo passano i giovani, i Cacciari, gli Isnenghi ecc. Sul giornale si parlava di politica veneta e nazionale; a partire dalla meta della sua storia (il ’61 circa), all'interno c’è un inserto che si chiama «Potere operaio». L'inserto si sviluppa, perché intanto Bianchini va ad abitare a Ferrara e prende contatto con una serie di persone lì attorno, e praticamente nasce quello che sarà poi il Potere operaio veneto-emiliano, a partire all'incirca dal '63. Potere operaio veneto-emiliano è assolutamente fondamentale nella rottura dei «Quaderni rossi», assieme ad Alquati, a Faina e ai romani: in realtà siamo i soli ad avere un intervento, quello che succede anche adesso nell’autonomia, in cui i veneti sono gli unici piantati lì, è una cosa cominciata a quel tempo. Allora abbiamo portato fuori I'intervento tra Padova e Venezia, io mi ero sposato nel ’61, sono andato ad abitare a Venezia e lavoravo a Padova, quindi andavo su e giù: invece che alle otto partivo alle sei, mi fermavo a Marghera, poi andavo a Padova a lavorare, e alla sera facevo le stesse cose. Lì comincia il grande trasferimento verso I'autonomia di classe (che prima si chiamava Potere operaio e poi si chiamerà con tutti gli altri nomi) di queste avanguardie operaie e studentesche.

 

Qual è il tuo giudizio politico dell’esperienza dei «Quaderni rossi» e delle varie posizioni che c'erano al suo interno? Quali sono le tue valutazioni rispetto al ruolo avuto da Panzieri?

Panzieri veniva da un'esperienza nazionale di direzione di un partito frontista: era una persona estremamente intelligente, completamente succube della cultura della sinistra, con pochissime esperienze concrete di movimento operaio. Era però un uomo molto legato alle esperienze internazionali della sinistra operaia, in particolare ai francesi e anche a una buona cultura della sinistra comunista tedesca. Insomma, per parlarci chiaro, se non ci fosse stato si sarebbe dovuto inventarlo, è stato un passaggio fondamentale. Sono cose che poi si sanno benissimo appena si ha un po’ di esperienza, è quello che fa uscire I'opposizione dal provincialismo, dalla chiusura locale; i trotzkisti non c’erano riusciti, in Italia non c'è una storia dell'opposizione di sinistra comunista fino ai «Quaderni rossi», tutte le piccole esperienze che si erano sviluppate erano fallite, se non appunto I'esperienza trotzkista che non si è mai radicata anche quando ci sono stati i grandi episodi, che mi hanno raccontato sempre, dei quartieri torinesi ecc. Il fortunato incrocio tra i giovani intellettuali romani della sezione studentesca universitaria e Panzieri, questo socialista presso Einaudi, però con una storia dietro di contatti a livello della cultura, permette la polarizzazione di un discorso di sinistra, legato a esperienze che sono già in corso ma che vengono per la prima volta portate alla luce: quando il gatto selvaggio esplode alla Fiat nel ’62-63 chi ne avrebbe mai parlato se non fosse stato per i résaux dei «Quaderni rossi» che già si formavano? Quando nel ’63 c’è il primo grande sciopero «spontaneo» al Petrolchimico di Porto Marghera, con la fermata degli impianti, una cosa mai vista, chi ne avrebbe parlato se non fosse esistita una rete a tendenza nazionale e con contatti internazionali, già con una capacita e un linguaggio che si esprimeva? Quanto poi alle lotte interne ai «Quaderni rossi», alla fondamentale idiosincrasia che esiste tra alcuni personaggi lì dentro alcuni gruppi, sono conflitti attorno al linguaggio, che poi si esprimono – come spesso succede — con accuse reciproche di opportunismo feroce: ma, insomma, guardandole con un certo distacco si tratta di cose normali. Mi è capitato di litigare lì dentro con gli uni e con gli altri; anche se devo dire, assolutamente senza nessuna arroganza, che l'essere – come eravamo io e alcuni miei compagni — più legati a delle esperienze ci permetteva di essere anche molto più cinici nel considerare e probabilmente scegliere bene. Perché poi abbiamo sempre scelto bene in tutto quel periodo, cioè abbiamo scelto la continuità dell’esperienza sul radicamento operaio: I'abbiamo credo perfezionata, portata avanti, estesa nei tessuti, per esempio nel Veneto abbiamo condotto una lotta contadina, di contadini nel capitalismo agrario, che pochi sono riusciti a fare, in Francia ho poi visto fare delle cose del genere. Ciò con un radicamento profondo e (questa è stata una grande cosa) sapendo fare una politica operaia, cioè senza avere paure o repulsioni di tipo anarcoide: ad esempio, io credo che una cosa molto importante e anche un elemento di lotta nei confronti di parecchie persone, proprio a partire dall'interno dei «Quaderni rossi», è stato avere un concetto di organizzazione. Quanto alle liti lì dentro erano evidenti. Da un lato c’era una componente, come chiamarla?, bordighista, di sinistra comunista, con elementi anarchici forti, chiamiamola componente cremonese, che si nutriva del rapporto con gli operai meridionali, che si stava educando alla lotta di classe industriale: attorno a tale componente ci sono Alquati, Pierluigi Gasparotto, Monica Brunatto, c'è Faina, il quale poi arriverà alle conseguenze estreme (è una persona a cui ho voluto un bene dell’anima, ho continuato a vederlo anche all'interno dell'Autonomia, successivamente ci siamo visti in galera poco prima che morisse in maniera tragica). Questo gruppo è stato fondamentale nella rottura con Panzieri al momento del passaggio a «Classe operaia», però poteva nutrirsi del rapporto con i romani, che tuttavia hanno sempre agito in una maniera estremamente ambigua, e poi con noi, cioè con I'ala diciamo del Nord-Est, che però comprendeva anche I'Emilia (soprattutto a Bologna c'era un radicamento profondo, da cui è poi uscito il movimento studentesco bolognese, da Bifo a tutti gli altri).

 

Qual è la tua analisi e il tuo giudizio politico su «Classe operaia», sulle varie posizioni e sul suo dibattito interno?

In «Classe operaia» il problema era molto semplice: il discorso non ha mai decollato perché «Classe operaia» aveva una struttura di partito ed è stato in realtà un gruppetto di intellettuali. Dal punto di vista dell'influenza teorica e politica è fuor di dubbio che i «Quaderni rossi» sono stati molto più importanti (qui parlo della rivista fino alla rottura, perché poi anch’essi diventano un gruppetto). «Classe operaia» è importante dal punto di vista della formazione: per esempio nel Veneto forma una cinquantina di quadri veramente di prim‘ordine tra il ’63 e il ‘67, ma questo vale anche per Milano, Como, vale a Roma per i Piperno, i Ceccotti, i gruppi asorrosiani che poi costituiscono l’asse portante di altre cose. Dal punto di vista di formazione e di estensione di discorso è dunque molto importante, così come nella generalizzazione di pratiche di intervento, ma senza grandi innovazioni e invenzioni teoriche: quello di «Classe operaia» è soprattutto un momento di grande processo formativo. Dal punto di vista del dibattito politico interno, io penso che la teoria valga sempre quando si confronta con le cose, ho sempre molti dubbi quando vedo la gente litigare attorno a questioni insussistenti, linee: in «Classe operaia» c'erano veramente molti litigi, in particolare quello sull’entrismo, sul quale devo dire le ambiguità sono state enormi da parte di tutti, tranne i veneti-emiliani. Perché stava succedendo una cosa stranissima: noi, proprio perché uscivamo da quella esperienza di cui parlavo prima, della modernizzazione, della costruzione del sistema industriale, ci trovammo anche a fondare i sindacati. Entrati cioè in quella fase eroica, della formazione proprio della scoperta dell’interesse economico collettivo da parte di una classe operaia che arrivava per la prima volta, noi moltiplicavamo le lotte sapendo perfettamente che alla fine di queste lotte c’era la costituzione di un sindacato interno; evidentemente noi imponevamo anche i comitati nello stesso momento, però i comitati si prendevano la direzione del sindacato nella vecchia Commissione interna, era la prima cosa che facevano molto concretamente, e non c’erano molte illusioni su questo. Noi all’entrismo però non ci credevamo per nulla, avevamo un senso molto preciso di quello che era un rapporto di forza da stabilire comunque con questo grande pachiderma dell’organizzazione sindacale e politica, attaccavamo i suoi contenuti politici riformistico-opportunisti fino in fondo, ma ci interessava essere presenti sui livelli istituzionali in termini maledettamente concreti e senza avere la merda sotto il naso. Ci trovavamo spesso in situazioni di compagni che invece non avevano alcun tipo di rapporto, sia perché il controllo del sindacato era più forte, sia perché il controllo del padrone era più forte. Bisogna ricordarsi che la realtà alla Fiat in quegli anni è tremenda, anche se comincia a costruirsi qualcosa, la situazione alla Fiat si rovescia nel ‘68 e matura nel '69: mi ricordo in tutti quegli anni con «Classe operaia» andavamo in giro a distribuire i volantoni, queste dichiarazioni contro il piano, andavamo dappertutto ma a parte alcune fabbriche, che proprio si contavano sulle dita, non c'era rapporto alcuno. Per non parlare poi di quello che era l’altro tema, la socializzazione del salario operaio e quindi la necessità di seguire i rivoli di questa socializzazione e di riuscire a capire un momento in cui si ponevano scontri di potere nel sociale. Nel Veneto furono molto importanti le prime lotte sui trasporti, che cominciarono già negli anni Sessanta. Questi primi momenti di lotta sociale erano stati nel Veneto perché avevamo l’enorme vantaggio di avere una concentrazione di fabbriche su Marghera e un‘identificazione sul territorio (non un'identificazione immediatamente metropolitana ma diffusa) di centri da cui venivano gli operai: il problema dei trasporti si è quindi posto dall'inizio come assolutamente centrale da tutti i punti di vista. Per esempio, era più facile fare intervento sui trasporti, sedersi con gli operai per prendere il treno da Treviso a Porto Marghera, o distribuire i volantini sugli autobus. Avevamo poi, per esempio, cominciato un'altra cosa molto bella, ossia l’intervento lungo il Brenta, nelle fabbriche, andavi lì e scoprivi cose incredibili, trentamila operai che lavoravano nei calzaturifici già a struttura completamente diffusa, con fenomeni di sfruttamento mostruosi, le morti, gente con la mano tagliata, salari da ridere, violenza sessuale tremenda. Erano veramente delle cose spaventose e allucinanti, eppure lì riuscivi a mettere in piedi degli scioperi, col blocco delle strade. E scoprivamo tutto, perché il movimento operaio non ci aveva insegnato nulla da questo punto di vista, e noi scoprivamo queste nuove forme di lotta, era veramente una cosa di una forza estremamente fresca.

Quindi, «Classe operaia» secondo me può essere definita proprio come un grande periodo di apprendistato. Alla fin fine anche il dibattito su entrismo o no, quello posto dai romani, da Tronti in particolare, è stato pedagogicamente utile, nel senso che per quanto riguarda me e le persone che mi erano più vicine (come Luciano Ferrari Bravo, questi grandi compagni di allora) è stato veramente fondamentale, anche per Cacciari devo dire, perché lui è uno che è riuscito poi a costruirsi una vita politica, dopo la rottura con noi nel '69-70, con un cinismo totale nei confronti delle organizzazioni, passandoci e uscendone. Quindi, «Classe operaia» termina fondamentalmente perché a Torino e a Milano non riescono a tenerla in piedi, e i soggetti vanno in crisi; a Milano si tiene in piedi una continuità effettiva attraverso i compagni che sono lì, soprattutto Sergio Bologna, oppure Giairo Daghini. Però Torino è completamente persa.

Poi c'è l’esperienza di «Contropiano»: è un mio tentativo completamente indipendente dal lavoro che si faceva nelle fabbriche e che ormai era diventato Potere operaio, non quello nazionale, ma il Potere operaio veneto-emiliano (avevamo continui contatti con i pisani, con Della Mea in particolare). «Contropiano» è un tentativo di tenere insieme questa sorta di discorso intellettuale, che in fondo aveva una sua autonomia, con dei relais universitari che era estremamente importante tenere congiunti proprio come produzione di discorso culturale in quanto tale. Asor Rosa è stato a questo tentativo, salvo il fatto che poi ci troviamo in mezzo al ’68, a quel punto lì come fai?, non si poteva più mantenere la relativa autonomia del discorso culturale e universitario. A quel punto comincia un’altra storia, li cambia proprio il paradigma.

Secondo me in «Classe operaia» il problema era che cosa significava fare politica operaia. Fare politica operaia non è semplicemente la teorizzazione del rapporto classe-partito, su questo potevano parlare anche i filosofi: il problema invece era proprio dire come si fa, come ci si sta dentro, e una volta che ci sei dentro chi dirige chi.

Che cos'è il partito? Il discorso classe-partito era fissato, immobilizzato dalla definizione del partito come Partito comunista italiano; mentre invece lì c'è un altro problema. Tutti noi alla fin fine eravamo convinti, anche quelli del Partito comunista, che le lotte in realtà erano autogestite, le facevano le avanguardie operaie, e se non volevano farle sicuramente non le faceva né il sindacato né nessun altro; ma il problema era anche quello di capire come questa autogestione delle lotte si determinava, quali erano i meccanismi. Noi avevamo cominciato ad avere esperienze incredibili a Marghera, proprio di gestione. Praticamente noi viviamo dentro «Classe operaia», senza averne coscienza, da un lato un processo di formazione, nel senso proprio di quadri politici, e dall'altra parte una specie di vuota polemica su classe e partito. E poi c'erano naturalmente gli arricchimenti della tematica dell’analisi di fabbrica, certe volte ottimi da infiniti punti di vista però bloccati all'incapacità di ricollegare direttamente la classe operaia al suo territorio, alla sua società: sono state cose che poi gli anni Settanta hanno chiarito fino in fondo, ma negli anni Sessanta mancava proprio questo. Quindi, quando «Classe operaia» si autodistrugge, io credo che non ci siano stati alla fine grande dolore e lutto: le cose che erano vive sono andate avanti, e quelle che non erano capaci di andare avanti sono morte, c’è anche una legge dell’effettualità che viene fuori. Quelli che non sapevano come andare avanti si sono bloccati, e si sono trovati completamente sbalestrati di fronte a quella cosa che doveva accadere qualche anno dopo e che era il'68: allora c'è stato I'ingresso nel Pci e l’emersione di un’autonomia del politico addirittura feticistica, per non parlare d’altro, uomini che si sono messi a fare i consiglieri del principe. D'altra parte, invece, ci sono state situazioni di isolamento o l'incapacità di vivere fino in fondo le nuove esperienze che si facevano. Torino è come al solito estremamente significativa da questo punto di vista: io credo che effettivamente se Torino avesse continuato quella presenza di discorso politico che «Classe operaia» aveva rappresentato in parte, anche in piccolissima parte, ci saremmo risparmiati Lotta continua, per parlarci chiaro.

 

Quali sono state le ricchezze e i limiti delle esperienze di Potere operaio prima e successivamente dell’Autonomia operaia?

lo riesco molto difficilmente a mettere insieme Potere operaio, che resta comunque due o tre cose diverse: esiste un Potere operaio romano, che finisce praticamente nelle Brigate rosse, anche se non i suoi dirigenti. Sono dei ragazzi estremamente intelligenti, con capacità di organizzazione e di radicamento nel territorio mostruose, ma non hanno nulla a che fare con quello che trovi nel Veneto o in Emilia: C'è una mancanza di direzione che è fondamentale in Potere operaio dal principio, una divisione di settori che ne costituisce per certi versi la ricchezza, ma anche lì immediatamente si va alla rottura. C’è un grandissimo ed elevatissimo salto teorico: sia le cose dei «Quaderni rossi» che quelle di «Classe operaia» sono illeggibili oggi, mentre invece quelle di Potere operaio e dell’Autonomia sono leggibili e attuali. Sia «Quaderni rossi» che «Classe operaia» sono dentro la dogmatica marxista (non sto dicendo male del marxismo ma della dogmatica), invece con Potere operaio e soprattutto con l’Autonomia si apre un vero marxismo creativo adeguato ai tempi: l’analisi di fabbrica si collega all’analisi sociale e viceversa, si riesce a riconquistare il discorso economico generale. Questi sono limiti enormi di «Quaderni rossi» e di «Classe operaia», il fatto di non volere intervenire su certi terreni: paradossalmente l’unico terreno disciplinare sul quale si interviene è la letteratura, con Asor Rosa e il suo Scrittori e popolo, ma né sul terreno del diritto né sul terreno dell’economia politica si interviene granché, tranne nella fase di «Classe operaia» quando si apre il discorso sulla finanza e sulla moneta, che comunque maturerà dopo, da Lapo Berti fino a Marazzi. In realtà c'è un operaismo molto stretto, che è fondamentale dal punto di vista della formazione, dal ’58 al ’68 sono veramente anni di apprendistato. lo ero un po’ più vecchio, gli altri erano più giovani, ma insomma non si è andato molto fuori da questo, e come tutti gli apprendistati e le formazioni è un apprendimento settario, anche se ricchissimo. Però non è che quando sei riuscito a scoprire la legge fisica più importante l’universo ti si dipana davanti, la legge fisica resta la legge fisica. Noi avevamo in mano alcune leggi operaie della lotta che funzionavano benissimo, ma l’universo non ce lo facevano vedere. Comunque è lì che a un certo punto bisognava rompere e questo è avvenuto dopo il’68.

Potere operaio e l’Autonomia: io lo rifarei ancora, questo è fuori di dubbio. È vero che lì siamo stati travolti non solo dalla repressione, anche se è vero che essa ha pesato: ma quando parlo della repressione non parlo del '79, dell’ultimo momento, ma della capacità dello Stato di intervenire, dalla politica delle stragi al terrorismo di destra, alla repressione sistematica, continua e violenta di ogni lotta e via di questo passo. La cosa assolutamente eccezionale, soprattutto vista nei confronti degli altri movimenti europei, è la continuità, e ciò si spiega solo se si va a quel periodo di formazione: un movimento che produce un ’68 che dura dieci anni può nascere solo da una ricchezza di quadri, da una consistenza sociale che ne permette la riproduzione. La capacità di farlo significa molte cose, in termini di denaro, di produzione di materiali di propaganda, di formazione e di informazione, dal volantino alle radio insomma; un movimento che in qualche modo risolve la questione economica, che non è secondaria, con tutto il problema delle sedi, dei luoghi di riunione politica e dei luoghi di riunione collettiva; inventa il sistema dei Centri sociali; allarga enormemente i meccanismi di valutazione e di lotta sul salario, dal salario di fabbrica al salario sociale; man mano identifica un soggetto critico, le nuove generazioni che entrano nel mercato del lavoro che è sconvolto dalla modificazione del modo di produrre, il passaggio dal taylorismo al post-taylorismo, dal fordismo al postfordismo; dà a questa generazione una prima possibilità di lotta, innova teoricamente assumendo queste tematiche all’interno, per esempio tutto il problema della scuola (da questo punto di vista i contributi di Alquati sono davvero fondamentali); e via di questo passo. E poi c'è un’altra cosa maledettamente importante che è la costruzione di una struttura di resistenza, cioè il fatto di rendere coscienti le forme della resistenza che prima erano semplicemente clandestine e sotterranee all'interno della classe operaia, l’averle generalizzate, portate fuori, messe in luce.

Poi ci sono invece i limiti, l'incapacità del coordinamento: non tanto l'incapacità di costruire una direzione, quanto l'incapacità di mettere in moto un meccanismo che determinasse direzione, e quindi a quel punto di nuovo l'apparire, ma questa volta in forma distruttiva (perché prima era apparso in maniera inutile) del rapporto partito-classe. Praticamente il movimento muore sul problema da cui era partito: era cominciato con la speranza che la classe potesse investire il partito e finisce nella convinzione che questo non era possibile, che quindi in realtà bisognava usare le due corsie, quella dell'avanguardia e quella del movimento di massa, e questo diventa distruttivo, noi siamo sconfitti su questo. E poi siamo sconfitti anche da quella che è stata la forza del nostro radicamento, è anche questo è il paradosso se si vuole: la forza del nostro radicamento era appunto determinata dalla presenza, si pensi alle 50.000, 100.000 persone che riuscivi a mettere in piedi, dei soli militanti, a Milano e a Roma, era una cosa enorme. In più c'era il radicamento sociale nei quartieri, ci sono stati momenti nelle città in cui la situazione era effettivamente impressionante, io parlo di Milano perché in quel periodo ci stavo, ma la stessa cosa potrei dire del Veneto e ogni tanto la vedevo a Roma. Sia la continuità che il radicamento alla fine sono stati fenomeni che hanno rappresentato I'isolamento, in Europa eravamo ormai soli, in Francia il movimento era finito da lungo tempo; e tutto questo ha determinato una situazione pazzesca di pura repressione laddove negli altri paesi europei proprio la brevità del movimento aveva in fondo permesso il suo riassorbimento in una modernizzazione più ampia del sociale che apriva possibilità reali di sviluppo, mentre invece in Italia ci hanno buttato dentro, e poi oltretutto l'hanno pagata anche loro perché guarda dove sono finiti, prima hanno dovuto affidare il paese a Craxi e poi c'è stata la totale mancanza di ricambio politico, di capacita di seguire o di inseguire la modernizzazione.

 

Quali sono stati i numi tutelari nel tuo percorso di formazione? Quali sono gli autori più significativi e di riferimento con cui confrontarsi, anche criticamente, per i nodi politici aperti nell’attualità, soprattutto per quanto riguarda la questione della politica?

Per quanto riguarda la mia formazione, la cosa strana è che ci sono Bruno e Spinoza quasi da subito, dalla prima o seconda liceo. Poi ci sono le cose fondamentali per quella generazione: Hegel e Marx, saltando Gramsci. Su Gramsci e sui sacri testi del comunismo italiano io arrivo molto tardi. Poi c'è la scuola di Francoforte, dopo Lukàcs. Ce ne sono talmente tanti, che è facile confondersi.

Poi c'è la seconda mia rieducazione che passa attraverso i francesi, Deleuze e Foucault fondamentalmente: ciò attorno al ‘68, quando avevo già 35 anni. Diciamo che passo dalla Germania alla Francia. Oggi sulla questione della politica io ho l'impressione che marciamo maledettamente da soli, è proprio difficile trovare dei riferimenti.

Negli Stati Uniti non c'è quasi più nulla, e oltre tutto non c'è quasi niente neppure dal punto di vista della destra. Qualche tempo fa ho fatto una recensione su Rawls: quando mi hanno mandato i libri, sono rimasto stupito dal fatto che non fossi minimamente curioso. I saggi li conoscevo già, a parte Il diritto dei popoli, un libro reazionario, neanche più pieno di quella freschezza teorica che c'era prima in Una teoria della giustizia. In Germania è finita, Habermas è proprio finito: quando ne parlo con i miei amici e compagni mi dicono che non c'è più niente, è un deserto. Si tenga presente che ci sono anche una censura e un blocco dal punto di vista editoriale che diventano sempre più massicci, e non è una cosa secondaria; poi il risultato della diffusione culturale che avviene attraverso la televisione è tremendo. Oggi ci sono un sacco di cose che sono buone dal punto di vista specialistico, anche sul terreno degli studi globali ci sono ad esempio degli indiani interessanti: penso, per dirne un paio, ai bei libri di Chakrabarty e Mittelman. Però, niente di più che questo: di libri belli ad alto livello e di alta qualità universitaria ne trovi un po’ dappertutto, e nonconformisti, anzi. Però, non ci sono grossi personaggi cui fare riferimento. In Francia, dopo la morte di Foucault, Deleuze e Guattari, che si suicidano (ed è la tragedia di questa storia) tra il principio e la metà degli anni Novanta, non c'è più molto. In Italia chi c'è come riferimenti? Assolutamente nulla.

 

Sulla base delle analisi di queste esperienze trascorse, come si può oggi ripensare il nodo della politica e del rapporto movimenti-progettualità?

Che questo sia stato e sia il problema mi sembra ovvio. lo sarei molto prudente comunque, perché, quando si affronta questo problema, bisogna stare attenti a tenere presenti le condizioni nelle quali poi di volta in volta è riemerso il problema. Quando si dice che la caratteristica primaria dell'operaismo è di inserirsi in un movimento estremamente accelerato di ingresso dell'Italia nel regime fordista e quindi di fatto di riuscire a criticare e ad anticipare le categorie del nuovo periodo rispetto al movimento operaio, bisogna tener presente che questa velocità è continuata. Ed è fuori di dubbio che uno dei più grossi guai che abbiamo avuto negli anni Settanta è stato il fatto che le formazioni armate, le Br per esempio, non si sono minimamente rese conto che il movimento era altrettanto veloce, e che quindi la difesa e la resistenza dell'operaio-massa doveva organizzarsi a fronte di una nuova composizione e dunque di un nuovo progetto politico. La trasformazione che è incominciata negli anni Settanta oggi è in atto interamente, e quindi anche su questo bisogna stare molto attenti: quando si dice far politica, cosa vuol dire? Come al solito, malgrado tutto io non sono mai stato un estremista, sono sempre stato un uomo di «centro», e non solo per scherzo. Per esempio, quando sono uscito di galera dopo essere tornato dalla Francia, mi sono trovato con vecchi compagni romani che insistevano sulla dimensione del politico. Ma la netta impressione era che non considerassero due cose: da un lato certo bisogna cercare di esprimere un programma, che sia perlomeno minimale; ma dall'altra parte bisogna tenere presenti quali sono i movimenti, le rotture e soprattutto i tempi, la temporalità generale di questa situazione. I tempi di maturazione del movimento non sono semplicemente tempi di maturazione organizzativa, ma sono assetti e rapporti interni; gli eventi sono poi i momenti nei quali hai la cartina di tornasole, la metti dentro e ti accorgi che le cose sono cambiate. Si pensi, per esempio, al rapporto tra il movimento sociale e gli operai di fabbrica: c'è stata una fase in cui i due termini si sono incontrati. Oggi è divertente che anche un riformista classico alla Bergamaschi dice: «non c'è niente da fare, i nuovi assunti in Fiat sono molto più simili al movimento che ai vecchi operai». Quindi, la situazione si è rovesciata: la cosa divertente è che il movimento di Seattle ha rivelato quello che già si poteva senz'altro capire. Allora, il problema di battersi per il salario garantito, per il reddito di cittadinanza, per riempire il programma con questi punti, è una cosa che puoi fare nel momento in cui hai interamente questa dimensione. Secondo me, la questione è molto semplice e su questo resto operaista: non è il programma che configura il movimento, ma è il movimento che configura il programma. Su questo non ci sono santi, tanto più oggi, dove veramente un luogo di avanguardia è sempre più difficile da trovare, è una dinamica interna. Non c'è più luogo di avanguardia: nella misura in cui si intellettualizza, la forza-lavoro si riappropria delle capacita di direzione.

 

Tu prima hai parlato della composizione tecnica di una forza-lavoro che nel processo produttivo eroga maggiori capacità intellettuali. Composizione tecnica e composizione politica coincidono oppure no?

Oggi mi sembra che siano molto distanti. Composizione era anche un linguaggio che si era depositato, erano delle istituzioni. lo penso a mio nonno, per esempio: è nato nel 1870, è venuto via dalla campagna ed è arrivato a Bologna nel 1896. Lì è diventato operaio nei trasporti pubblici interni che erano ancora a cavalli; è entrato immediatamente nelle cooperative, nel sindacato, è vissuto a partire dagli anni Dieci in una casa delle cooperative rosse. Poi c'è il fascismo, il figlio a cui ne succedono di tutti i colori, c'è la fondazione del Partito comunista. Questa è la composizione politica, è una cosa maledettamente densa. Oggi che composizione politica si ha? Prendiamo un ragazzo di trent'anni oggi, che composizione politica ha? Può essere un precario, magari è andato su e giù dalla fabbrica, o è passato al terziario ed esprime questo tipo di forza-lavoro, certamente ha un livello di bisogni, se è intelligente, sveglio e reattivo al rapporto di sfruttamento oppone una gamma di desideri, ha un bisogno assoluto di cooperazione: probabilmente è questo il terreno, il rapporto tra solitudine e complessità determina una reazione. Però, una volta detto questo, qual è la composizione politica? È fuori dubbio che l'importanza del movimento di Seattle è stata il fatto che ricomponeva: con il movimento di Seattle è la prima volta che si ricompone il ciclo. Quella degli anni Settanta non è una sconfitta secondaria: questi rompono la composizione politica, rompono quella tecnica, rompono il ciclo delle lotte. Quello degli anni Sessanta è l'ultimo grande ciclo di lotte moderno, come lo chiamo io, adesso siamo in questa fase post.

Scrivevamo in Empire con Michael Hardt che ci sono state delle lotte (da Tienanmen al Chiapas, dall'Indonesia ai movimenti francesi dell'inverno ’95) tutte estremamente importanti, tutte ormai dirette contro il livello mondiale del comando, e però erano lotte che una con l'altra non avevano niente da dirsi. Oppure si pensi alle lotte dei neri di Los Angeles, che rivelavano queste sacche di Terzo mondo che ci sono nel Primo. Ma non avevano nulla da dirsi l'una con l'altra: l'enorme e straordinaria importanza di Seattle è che ricostruisce il ciclo. Infatti, questo è uno dei grossi problemi di oggi, perché il ciclo è uno degli elementi fondamentali nella costruzione del linguaggio, e quindi della composizione politica, che non è il rispecchiamento meccanico della composizione tecnica. Per esempio, la composizione tecnica era mutata dall'operaio professionale all'operaio-massa, ma la composizione politica aveva avuto una continuità: ed è probabilmente quello che noi avremmo dovuto fare negli anni Settanta, determinare la continuità tra il vecchio e il nuovo movimento, tra il vecchio movimento operaio e il nuovo movimento che io allora chiamavo dell'operaio sociale, definizione per cui tutti mi dicevano che ero un farabutto, una delle poche cose di cui ho orgoglio. Per quanto riguarda la composizione politica oggi, il fatto che ci siano sempre queste centinaia di migliaia di persone che in una maniera o nell'altra si mettono fuori può essere significativo. Su questo c'è il problema del progetto, che a un certo punto può diventare una scommessa.

 

Nel rapporto tra movimenti, sedimentazione politica e progettualità un elemento decisivo è quello della temporalità.

Da questo punto di vista esiste una via breve, che è quella leninista, del piccolo gruppo centralizzato, ideologicamente compatto, che fa una rappresentanza di rottura rispetto alla realtà data. Se fosse reale ci starei, il mio odio per il potere mi porta a qualsiasi conclusione! Credo però che, data la struttura antropologica della moltitudine, qualsiasi operazione di questo genere riprodurrebbe un'omologia fondamentale con il potere capitalistico. Ora il problema diventa quello di giocarsi questa transizione verso nuove forme di organizzazione e di istituzionalizzazione. Negli anni Settanta si diceva: «dobbiamo mantenere aperto il dualismo di potere», oggi siamo andati molto avanti rispetto ad allora, il problema è quello di organizzare e dare strutture alla dualità, al rapporto tra movimenti e governo con la capacita non dico di istituzionalizzare (perché si rischia di ricadere nella forma di omologia di potere) ma di accelerare le scadenze.

In Italia e in Europa dobbiamo fare il lavoro che è stato fatto negli anni Sessanta, un approfondimento pratico del rapporto moltitudine - lavoro vivo - metropoli. Oggi abbiamo la possibilità di concentrare sull'attuale crisi di movimento questo tipo di operazione fondamentale che, a differenza degli anni Sessanta e Settanta, comprende in sé la tematica della redistribuzione del reddito, una lotta salariale e una battaglia di rappresentanza politica. I grandi oggetti della critica diventano il clima mediatico, i problemi di etica collettiva, i temi dell'organizzazione della produttività generale, le migrazioni e l'integrazione, che non è culturale dal punto di vista moderno, ma investe la capacita di essere cittadini. La questione della rappresentanza ci porta alla gestione della vita comune, noi ci battiamo su questo oggi.

 

Un tuo recente libretto è intitolato La differenza italiana. Quale potenzialità può avere oggi la categoria di differenza, tra l'edulcorata proliferazione di differenze compatibili (si pensi al multiculturalismo democratico) e invece differenze radicali, quella di genere e non solo?

Bisogna portare questo discorso dentro la corporeità, cioè non solo la differenza come tema polemico tra uomo e donna: il nero e il bianco, la donna e l'uomo non sono aspetti secondari, ma sono fondamentali e restano incisi nei corpi. Il problema è affrontare il discorso tra la separazione e la differenza: io penso che la differenza separativa sia legata a un naturalismo che non riguarda semplicemente l'aspetto sessuale, ma in generale le differenze genetiche che sono affermate. Uno dei grandi passaggi del postmoderno è proprio quello di iniziare a parlare di queste differenze come elementi creativi che aggiungono qualità alla vita; ciò significa che queste non possono essere utilizzate come elementi di comando e di gerarchizzazione del sociale. In primo luogo va posto il problema della rottura di tutti i parametri patriarcali e gerarchici, ma poi diventa decisivo considerare queste differenze in termini creativi, di costruzione di meticciaggio generalizzato. Il grosso passaggio è quello tra la separazione come fondamentale momento di lotta, e la costruzione di differenze creative. Questo contrasto tra differenze, comunque, non può essere risolto in termini istituzionali.

 

Rispetto alle nuove generazioni di movimento, qual è l'attualità dei nodi teorici e pratici squadernati dalle esperienze dell'operaismo politico?

Credo che in quell'esperienza ci siano dei nodi molto grossi, che negli ultimi tempi Rifondazione comunista ha tirato fuori in maniera provocatoria e ambigua: i nodi della violenza e della rappresentanza. Io credo che il movimento non abbia saputo risolvere questi due problemi perché era andato più avanti. La tematica dell'esodo è stata assunta dal movimento, il che non vuol dire la marcia nel deserto aspettando che il mar Rosso si apra, bensì ragionare del rifiuto profondo per la rappresentanza borghese, statuale, moderna. Il movimento si è trovato incastrato di fronte alla pressione fortissima esercitata dall'insieme degli organi politici e mediatici, e dalla sua coscienza interna dell'incapacità immediata di risolvere questi problemi. Questo è stato ancora più pesante per le vecchie generazioni, che avevano riassunto e portato dentro il movimento le esperienze del passato. Proprio queste vecchie generazioni erano quelle che erano più rodate, ma anche quelle più coscienti della difficoltà di impostare tali problemi. Un movimento nuovo oggi può ripartire solo dalla soluzione di questi due problemi, non affidandosi a una soluzione vecchia come quella proposta da Rifondazione comunista, ma capace di affrontare la questione dell'esodo. È paradossale che, come sempre, i problemi che il movimento si pone vengono riassorbiti dalle forze contrarie: oggi la teoria della mondializzazione liberista si basa sull'esodo e sulla sua trasformazione. Noi dobbiamo imparare cos'è sviluppare l'esodo, il rifiuto della rappresentanza in termini politici, che non significa affermare che non ci devono essere più rappresentanti, sarebbe sciocco, da questo punto di vista alcuni risultati della cultura borghese della rappresentanza vanno ripresi. Esiste certo una sperimentazione nei rapporti tra movimenti e governi, ma è data e mistificata nello stesso tempo: è vero che i processi di governance sono legati all'apertura ai movimenti, perché se no non riescono a governare, in quanto il rapporto tra legittimità ed efficacia del governo passa attraverso la partecipazione della gente. I passaggio grosso consiste nel puntare su questo problema e riuscire a demistificare le versioni di destra.

L'altro tema grosso è quello della violenza. È chiaro che la violenza terroristica, anarcoide, priva di ragione e legittimità va rifiutata fino in fondo, perché la sicurezza non è una questione di destra, ma è un problema del lavoro, però va presa e trasformata in una capacità di partecipazione reale. Il problema della violenza va dunque riassunto come una questione di legittimazione moltitudinaria.

Io continuo a pensare che le lotte vadano avanti a cicli: la massa critica che si era formata negli anni Settanta, non solo in Italia, ha determinato un rivolgimento mondiale che ha toccato non semplicemente i comportamenti politici, ma addirittura la dimensione antropologica. Gli anni Settanta sono stati una specie di enorme accumulatore e condensatore di una trasformazione che è la fine del moderno, di un'ideologia statale e capitalistica. Dobbiamo smetterla di continuare a pensare o ironizzare su quegli anni come se fossero stati un errore, sono stati anzi l'esplodere di una nuova epoca. La repressione è intervenuta, ma se ha sconfitto e distrutto le forme politiche esteriori e superficiali, ha lasciato aperta la sua forza e latenza istituzionale, che rappresenta una potenza sovversiva inimmaginabile. Se noi non assumiamo la concezione globale come base delle nostre considerazioni, perfino degli eventi personali, non riusciamo a uscire dalle difficoltà e dalle passioni tristi nelle quali siamo di volta in volta ributtati.

Il movimento si è trovato di fronte a problemi politici reali che non possono essere risolti con delle forme compromissorie. Nelle discussioni con universitari americani spesso mi dicono: «tu continui a parlare del passaggio dalla modernità alla postmodernità come elemento fondamentale, ma a noi interessa la contemporaneità, perché dobbiamo incominciare a ragionare in termini di concentrazione di intensità temporale». Sono abbastanza d'accordo: da situazioni periferiche — com'è ormai quella italiana, se non europea — parliamo in termini di passaggio generale, mentre dal punto di vista della leadership mondiale si tratta di ragionare sulla concentrazione. In altre parole, il problema è che cosa si fa per agire una transizione. La contemporaneità che loro esigono è in realtà la forma decisionale della transizione, dell'interregno nel quale convivono unilateralismo e pluralismo, che è richiesto dalle grandi aristocrazie mondiali; e poi ci sono le moltitudini a livello mondiale, coloro che vogliono utilizzare l'enorme ricchezza che il nuovo modo di produrre mette a disposizione di tutti per ribellarsi e per goderne. Allora, questa contemporaneità è secondo me l'esodo.

Quali sono dunque le forme politiche di questa contemporaneità? Io penso che possano essere le più diverse. Una volta che abbiamo assunto questo passaggio dal punto di vista ontologico, radicale, eticamente fondato, noi dobbiamo avere la capacità di giocare il massimo rapporto egemonico con le istituzioni di un potere declinante e fottuto. Non si tratta né di un puro momento tattico né di opportunismo politico in termini schmittiani, è semplicemente un rapporto di forza che io riconosco oggi favorevole all'esodo.

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