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La Socialdemocrazia Reale

di Polonio210 e Said

 17 settembre 2006. Elezioni politiche in Svezia. Fredrik Reinfeldt, leader dell’Alleanza per la Svezia (coalizione di centrodestra formata da Partito Moderato, Partito di Centro, Partito del Popolo e Cristiano Democratici) ottiene il 51% dei seggi parlamentari. I Socialdemocratici, guidati dal 57enne Göran Persson, si fermano al 34,9% dei voti: è il risultato peggiore dal 1914 

scandinavia14Alle radici di una crisi

Le date, come spesso accade nella storia, altro non sono che piccole tracce su cui riflettere, indagare. Esaminare la crisi politica, ma ancor prima valoriale, della Socialdemocrazia d’oggi è compito davvero ingrato. Mettere a fuoco le diverse dimensioni del problema, proporne una gerarchia delle cause, avanzare infine delle ipotesi sulla misura delle relazioni d’influenza reciproca, risulta viepiù complicato. La tesi di fondo, che qui si propone, seguendo un filo interpretativo che volutamente elude ed esclude alcune variabili pur importanti, è che la crisi del pensiero politico e della relativa proposta socialdemocratica siano stati profondamente influenzati dalla fine dei regimi del cosiddetto Socialismo Reale.

Compiendo un passo indietro verso il vituperato ‘900, una delle chiavi di lettura più convincenti ha scientemente «ridotto» questo secolo alla titanica sfida tra due messaggi universalisti: quello americano (wilsoniano) e quello sovietico (leninista).

Una sfida, quindi, tra modelli di sviluppo e organizzazione della società antietici; l’89, in questo senso, rappresenterebbe la vittoria strategica americana. Venuto meno un modello sociale, quello del Socialismo Reale – comprendente tutti i regimi scaturiti dalla Rivoluzione d’Ottobre – con esso in quest’ultimo ventennio è venuto meno, a livello mondiale, il suo tratto peculiare, distintivo: si tratta, come riconosciuto da Friedrich August von Hayek, un economista sicuramente non ascrivibile al campo socialista - dell’imposizione e dell’affermazione dei diritti economici e sociali. La connessione di questi diritti al concetto di cittadinanza, per dirla con le stesse parole dell’economista, sono stati il risultato dell’esistenza «rovinosa» della rivoluzione marxista russa.

La legislazione dello Stato sociale, com’è noto, affonda le sue radici in alcune specifiche esperienze nazionali della seconda metà dell’ottocento, salvo poi assumere una rilevanza generale nel cosiddetto “Secolo breve”. Sembra potersi affermare che la lenta e progressiva affermazione del cosiddetto Welfare State in una pluralità di ordinamenti scaturì, per richiamare una categoria gramsciana, sotto forma di rivoluzione passiva. Il modello socio-economico occidentale, quello americano per intenderci, nel tentativo di neutralizzare la portata dirompente, e affascinante per le classi subalterne, della rivoluzione socialista, fu costretto infatti ad assumere taluni caratteri di quel modello tanto temuto. Lo Stato sociale, più che il prodotto di una presunta tendenza civilizzatrice della storia, come spesso ci è stato propagandato, era il prodotto di una sfida. L’inclusività dello Stato sociale, del resto, è sempre stata indissolubilmente legata da una parte alla presenza deterrente dei regimi socialisti, e dall’altra alla capacità delle soggettività politiche progressiste di esercitare nei singoli paesi una pressione coordinata e continuativa in questa direzione. In questo quadro la socialdemocrazia, pur essendo recisamente collocata sul fronte liberal-capitalista fin dal voto sui crediti di guerra nella prima guerra mondiale, sulla falsa riga dell’avanzata del Socialismo Reale ha potuto così promuovere nei paesi occidentali i programmi di Welfare State più vasti mai realizzati.

Il quadro cambia, come detto, con la caduta del Muro. Se guardiamo, infatti, al ventennio che ha seguito l’89, non possiamo fare a meno di notare che la dismissione del Welfare State - un processo macro che ha riguardato indistintamente tutte le società occidentali, seppur in misura diversa - è stata promossa in Europa congiuntamente da tutte le tradizionali famiglie politiche: liberali, conservatori e socialdemocratici. Di più, in Inghilterra e Germania, tanto per citare due casi esemplificativi, gli artefici del cannoneggiamento delle conquiste dello Stato sociale sono stati per primi proprio il Labour e l’SPD. La rottura dell’asse strategica coi sindacati, non a caso si è parlato di New Labour e Neue Mitte, si è accompagnata con l’azzeramento politico e programmatico della tradizione socialdemocratica: un nuovo impalpabile, indistinto. Se è vero che la socialdemocrazia ha mutato i suoi caratteri anche sotto la spinta dello tsunami economico conseguente alla crisi energetica del 1973 – cui seguì un mutamento culturale e valoriale che a partire dagli anni ottanta ha permesso ad individualismo e consumismo di penetrare i tessuti delle società occidentali nella loro interezza – è altrettanto vero che il sostanziale mutamento genetico è venuto a realizzarsi solamente a partire dagli anni novanta.
 

Un omogeneizzato sociale

Una volta ipotizzate le dinamiche alla base del mutamento della socialdemocrazia, è possibile enucleare i caratteri di fondo che oggi la contraddistinguono. In un volume del 2010, Eclisse della socialdemocrazia, ed. Il Mulino, G. Berta s’interroga sul futuro delle socialdemocrazie europee dopo la loro rinuncia a domare il capitalismo attraverso il mantenimento di quel complesso di regole ed istituzioni che era stato edificato nell’«età d’oro» con lo Stato sociale. Secondo l’autore, la socialdemocrazia del nostro tempo si è giocata la carta della globalizzazione dei mercati, decidendo di adeguarsi al modello economico liberale piuttosto che tentare di limitarne gli istinti più bestiali.

Una volta effettuata questa scelta, la socialdemocrazia è stata parte attiva dello smantellamento dello Stato sociale, oggi giunto peraltro ad una fase di maturazione (si v. le politiche fiscali, del lavoro, sanitarie, e così via). In altri termini, di fronte al nodo del rapporto tra mercato e società, la socialdemocrazia non ha optato per il modello della c.d. economia sociale di mercato, che nella tradizione storica tedesca tentava di realizzare una sorta di terza via, quella dell’equilibrio tra diritti individuali e diritti sociali; viceversa, ha sciolto questo nodo rifugiandosi nel più rassicurante “modello sociale europeo”: un modello che punta alla difesa prioritaria dei diritti individuali ed in cui s’intrecciano, come ricorda Berta, elementi eterogenei e spuri. In esso possono oggi ritrovarsi, pur con alcune minime differenze, sia le forze di centrodestra sia quelle di centrosinistra. Significativa appare a tale proposito, come anticipato, l’esperienza del New Labour, un partito che nella lunga stagione blairiana ha declassato e depauperato le politiche sociali, restituendole all’originario spirito paternalistico tipico del sistema anglosassone. Questa assunzione del paradigma del mercato a discapito e in opposizione delle politiche sociali ha poi rivelato tutta la sua fragilità di fronte all’incedere della crisi economica e finanziaria. Non è un caso che oggi sia in Gran Bretagna sia in Germania le due forze socialdemocratiche stiano ripensando la propria funzione attraverso la ricerca di un rinnovato, ma quanto mai ambiguo, rapporto con il sindacato. Da questa angolatura appare drammaticamente in ritardo la principale forza d’opposizione italiana, la quale in un primo tempo (con la svolta veltroniana) ha riproposto a distanza di dieci anni, e malgrado il suo insuccesso, il modello perseguito da Blair e Schroeder. Successivamente, l’avvicendamento della leadership è sembrato preludere ad un’inversione di rotta, nella direzione di un rinnovato rapporto, ambiguo anche in questo caso, con i sindacati. Tuttavia, nella recente esperienza dei referendum della Fiat (cfr. su questa rivista, I liberal-progressisti a Pomigliano, n.9/01), che hanno costituito un passaggio fondamentale nella definizione dei rapporti tra lavoratori ed impresa, il partito maggioritario di centrosinistra ha accolto, senza troppe remore, la logica dello sfruttamento, ovvero il baratto tra il salario e la rinuncia a diritti costituzionalmente garantiti; lo ha fatto trincerandosi dietro l’argomento della globalizzazione dei mercati, che con tutta evidenza continua a rappresentare l’arma a doppio taglio della socialdemocrazia. Il rapporto con il sindacato, a sua volta, è parte di un problema più ampio che investe in ultima analisi quello della forma partito. La scelta effettuata dalla socialdemocrazia negli anni novanta ha favorito la rincorsa verso forme deboli di organizzazione, l’esaltazione del momento monocratico, massicci investimenti sulla formazione mediatica del consenso. Queste innovazioni hanno minato l’insediamento sociale delle forze socialdemocratiche, conducendole verso una inarrestabile omologazione organizzativa con i propri avversari.

Si badi, inoltre, che l’accettazione di un modello di società che antepone fermamente i diritti individuali a quelli collettivi ha contagiato anche quei grandi partiti europei che vengono comunemente presentati come gli ultimi avamposti del socialismo democratico. Il PSOE di Zapatero, raro caso di socialdemocrazia al governo nella stagione delle destre al potere, non ha forse innovato puntando sulla politica estera e su avanzate misure in materia di diritti civili? Si obietterà che anche il problema dei diritti civili è un problema di eguaglianza. Senza volerne negare l’importanza, va comunque ricordato che di fronte ad una crisi economica che ha colpito in misura molto rilevante la Spagna, il partito di maggioranza non ha accennato a mettere in discussione le politiche economiche degli ultimi anni, scaricando sui lavoratori il masso della crisi e su altre policies l’onere della necessaria discontinuità con l’era Aznar. Vale la pena di sottolineare, in estrema sintesi, che il filo rosso che lega le forze di eredità socialista è costituito dall’aver espunto dall’agenda politica i temi cruciali delle prestazioni sociali, della dignità del lavoratore, della lotta alle diseguaglianze economiche.

È ancora interessante osservare che la sopravvivenza oppure la recessività delle regole e degli istituti dello Stato sociale siano dipesi, in alcuni casi, da fattori peculiari e di contesto. Le esperienze contemporanee dei paesi scandinavi, ad esempio, che a lungo sono stati citati come “ordinamenti modello”, suggeriscono che la tenuta dello Stato sociale può collegarsi, come ricorda lo stesso Berta, ad un fattore-chiave quale l’omogeneità sociale, a prescindere quindi dall’avvicendamento al governo di forze di centrodestra o di centrosinistra. Viceversa, disomogeneità e scarsa coesione sociali hanno consentito alle forze politiche dominanti di smantellare più agevolmente le fondamenta dello Stato sociale.

Contestualmente, anche sotto il profilo prettamente comunicativo, la socialdemocrazia ha subito una torsione. Berta ha colto acutamente alcune novità lessicali del laburismo inglese: dalla disoccupazione si è passati al concetto di occupabilità, il quale a sua volta si fonda su un’esaltazione della specializzazione e delle competenze e su una visione molto competitiva della education (del resto vediamo che anche in Italia il merito e l’eguaglianza delle chances sono i valori che il centrosinistra antepone al diritto allo studio); in luogo della coesione sociale si parla di responsabilità sociale; fa da sfondo l’immancabile accento sulla sicurezza. Risulta così evidente che anche sul piano della comunicazione, che in una certa misura rispecchia l’essenza programmatica di un partito, i diritti sociali e le diseguaglianze reali sono assenti o relegati in una sfera marginale.
 
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Oggi sembra riproporsi, ancora una volta, la questione del ruolo e della funzione della socialdemocrazia in relazione alle soggettività politiche che mirano al superamento della struttura economico-sociale vigente.

Occorre riflettere, in questo senso, su quale tipo di rapporto - in una fase di crisi economica, politico-istituzionale e culturale - debba intercorrere tra queste soggettività e le forze socialdemocratiche. Fra gli altri, si possono realisticamente ipotizzare due scenari: da una parte l’alleanza nella direzione della difesa delle minime garanzie costituzionali; dall’altra, una politica di opposizione e di auto-sufficienza. Entrambe le prospettive, tuttavia, rischiano di tradursi ora in puro pragmatismo ora in velleitarismo, a fronte di una conclamata crisi di rappresentatività che attraversa i soggetti alla sinistra della socialdemocrazia.

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