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L'uomo massa e suo fratello, al voto

di Giovanna Cracco

   I dati della ricerca Ials-Sials in Italia incrociati con l’ultimo rapporto Censis su Comunicazione e media evidenziano un popolo-bue-tele-comandato incapace di leggere, informarsi e di costruire nessi logici tra due fatti

“La maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo”.
Pier Paolo Pasolini

La politica italiana del XXI secolo ha sempre in bocca la parola ‘popolo’. Da una parte Berlusconi dichiara un giorno sì e l’altro pure di essere stato eletto dalla maggioranza degli italiani – evitando in tal modo di dimettersi e venire processato. Dall’altra il Pd, che in assenza di un programma politico di opposizione, per mostrarsi vicino alla sua gente – e, quindi, veramente democratico – indossa la veste moderna delle primarie. Ma mentre quest’ultimo meccanismo ha ancora bisogno di aggiustamenti per diventare pienamente la farsa che dovrebbe essere – come dimostrano la cecità politica e i giochi interni di potere che hanno portato la sorpresa della schiacciante vittoria di Vendola nelle primarie pugliesi – l’appello al popolo quotidianamente lanciato dal Pdl è un ingranaggio mirabilmente oliato e funzionante; al punto che se qualcuno richiama l’attenzione sul conflitto di interessi, sulla deriva autoritaria di una maggioranza che sempre più esautora il Parlamento dalla funzione legislativa, sui problemi giudiziari del presidente del Consiglio, si sente ribadire il concetto senza possibilità di appello: gli italiani lo hanno comunque votato. Che cosa significa? Che sono tutti scemi?

In effetti è vero: gli italiani lo votano. Non la totalità del ‘popolo’ che evoca l’enfatica dichiarazione, tantomeno la sua maggioranza assoluta, ma poco importa dal momento che i meccanismi di una legge elettorale lo rendono legittimamente capo del Governo. Centrali diventano dunque due altre questioni: attraverso quali informazioni il cittadino decide a chi dare il proprio voto e, data l’informazione, quale sia la sua capacità di comprenderla e di sviluppare un’opinione propria. Partiamo da quest’ultima.

Nel 1992 l’Ocse lancia la Ricerca internazionale sulle competenze alfabetiche della popolazione adulta (International Adult Literacy Survey IALS) a cui partecipano solo dodici Paesi; nel ’96 avvia la seconda ricerca (Second International Adult Literacy Survay – SIALS) a cui aderiscono altre nove nazioni, tra cui l’Italia; l’indagine si conclude nel ’99. Il quesito a cui l’Ocse cerca una risposta non è ‘questa popolazione sa leggere?’ ma ‘quanto e come sa leggere?’. Viene coniata la definizione di “competenza alfabetica funzionale o letteratismo” che “è la capacità di raccogliere e utilizzare informazioni reperibili in testi scritti, in grafici, in tabelle ecc. e di eseguire operazioni, calcoli ovvero risolvere problemi”. Lo scopo è quello di misurare una competenza e non le conoscenze possedute, in quanto le statistiche tradizionali riferite ai vari livelli di titoli di studio conseguiti da una popolazione sono poco significative al fine di comprendere la sua capacità reale di ‘leggere’. La ricerca stabilisce tre tipologie di competenza alfabetica – testi in prosa, grafici e calcoli – e per ognuna cinque livelli. Di questi, il primo è al limite dell’analfabetismo, al di sotto della soglia di illetteratismo, il secondo rappresenta un limitato possesso di competenze di base; qui si inserisce l’importante linea di demarcazione indicata dall’Ocse che individua, nei primi due livelli, quella quota di popolazione che dovrà usufruire di percorsi di formazione per essere messa nella condizioni di possedere “una piena cittadinanza nel XXI secolo”. Pena il ritrovarsi come il popolo analfabeta dei secoli passati, che abitava passivamente una società in cui norme e leggi scritte da altri sopra la sua testa regolavano la sua vita, senza che esso fosse in grado nemmeno di leggerle. Perlomeno quel popolo non votava, viene cinicamente da concludere, e riconosceva la propria ignoranza.

Perché, neanche a dirlo, la situazione italiana fa spavento. Un terzo della popolazione non supera il primo livello, un terzo si ferma al secondo, un terzo raggiunge gli ultimi tre. Nella comprensione di testi in prosa – la prova metteva a disposizione articoli di giornali, riviste, pubblicazioni a stampa e depliant – il 34% si ferma il primo livello, il 30,9% al secondo, il 26,5% al terzo e solo l’8% raggiunge il quarto e il quinto.

L’indagine dunque evidenzia che il 64,9% degli italiani è in grado di leggere ma non di capire ciò che legge: riesce a estrarre da un testo un’informazione che vi si trova esplicitata (primo livello), la trova anche quando deve compiere alcune semplici deduzioni perché il documento contiene dei distrattori (secondo livello), ma non è in grado di trovarla se è contenuta in diversi paragrafi e non in una sola frase (terzo livello), se il testo è abbastanza lungo, se l’informazione è astratta (quarto livello) e se lo scritto è denso e contiene distrattori plausibili (quinto livello). Vale la pena leggere gli esempi delle diverse prove (1), che stupiscono per semplicità e banalità.

La debole scolarizzazione è una delle cause che determinano un basso livello di comprensione di un testo in prosa: tra la popolazione con la sola licenza media, appena il 25% supera la soglia di rischio. Chi consegue una laurea e oltre, oltrepassa il secondo livello nel 66% dei casi. Tuttavia, se si confrontano i dati per fascia di età indipendentemente dal titolo di studio, quella che possiamo definire scolare anche se non più scuola dell’obbligo, cioè 16-25 anni, risulta essere nella situazione migliore: il 52,2% supera il secondo livello. Il problema è che man mano che l’età aumenta, la capacità di comprendere peggiora: tra i 26 e i 35 anni approda al terzo livello solo 43,7% della popolazione, tra i 36 e i 45 il 34,9%, tra i 46 e i 55 il 24,2% e infine tra i 56 e i 65 anni il 12,4%. Non basta quindi aver studiato: il cervello ha bisogno di essere tenuto allenato, necessita di letture stimoli e confronti, tutte cose che gli italiani abbandonano giunti al termine degli studi.

La cultura non ha mai avuto vita facile, in Italia. Nel 1861, il 75% della popolazione non sa né leggere né scrivere. Le riforme scolastiche che si susseguono fino all’epoca fascista mirano ad alfabetizzare, condizione sempre più necessaria per poter lavorare: viene istituita la scuola dell’obbligo dai sei agli undici anni. Nel 1951, gli analfabeti sono ancora il 13,8% (il 25% nelle isole) e i semianalfabeti – appena in grado di scrivere il proprio nome e incapaci di comprendere un testo scritto – sono il 26%; inoltre, il 60% della popolazione si esprime unicamente in una lingua dialettale.

Il ministero della Pubblica istruzione decide di usare la televisione in funzione pedagogica, per uniformare la lingua e per alfabetizzare. Nel 1958 Telescuola avvia il ciclo di trasmissioni cosiddette educative, a cui si affianca Telemedia, nel 1961. Contemporaneamente nasce Non è mai troppo tardi (1960-1968), con un approccio completamente diverso: protagonista non è più il maestro che trasmette il sapere ma lo diventano gli studenti/pubblico, in studio e a casa. Il docente diviene una sorta di conduttore, che falsamente – la televisione che entra nelle case è sempre qualcosa che cala dall’alto – fa da guida ‘tra pari’, tenendo insieme testi, immagini, supporti audio, filmati e interviste.

Gli italiani si uniformano: imparano non solo a leggere e scrivere ma una lingua e una ‘cultura’ nazionale; avviene quell’omologazione che Pasolini chiamava “genocidio culturale definitivo”. Non poteva andare diversamente per un popolo che, nel proprio percorso storico, ha saltato a piè pari la trasmissione del sapere basata sulla cultura tipografica dei libri e dei giornali ed è passato direttamente dall’analfabetismo alla cultura visiva della televisione: il nonno semianalfabeta, il nipote laureato, conviventi in una casa priva di libri.

“La televisione è un medium di massa e come medium di massa non può che mercificarci e alienarci”, diceva Pasolini nel 1971. Meno evidente nella televisione cosiddetta pedagogica, la drammatica verità di questa affermazione è divenuta lampante con l’avvento della televisione commerciale, in cui tutto è diventato entertainment, intrattenimento: allo scopo di vendere una merce, parificando un detersivo a una notizia a un messaggio politico. Le caratteristiche della comunicazione sono le stesse: brevità, leggerezza, semplicità del linguaggio. Frasi a effetto snocciolate una accanto all’altra senza la preoccupazione di creare un ordine di senso logico, perfettamente integrate in un mezzo televisivo che è una collezione di frammenti.

“Ho visto sfilare in quel video un’infinità di personaggi, la corte dei miracoli d’Italia, e si tratta di uomini politici di primo piano; ebbene, la televisione fa di tutti loro dei buffoni, riassume i loro discorsi facendoli passare per idioti, con il loro sempre tacito beneplacito; oppure, anziché leggere le loro idee, legge i loro interminabili telegrammi, non riassunti, evidentemente, ma ugualmente idioti, idioti, come ogni espressione ufficiale. Il video è una terribile gabbia che tiene prigioniera dell’opinione pubblica, servilmente servita per ottenere il totale servilismo, l’intera classe dirigente italiana”. Così scriveva Pasolini, e dal momento che il percorso culturale degli italiani non può provocare oggi stupore davanti alla loro incapacità di comprendere un testo scritto, la riflessione dovrebbe spostarsi sul concetto stesso di democrazia, indipendentemente dalle questioni del conflitto di interessi e della proprietà delle reti televisive – che pure lo stravolgono di parecchio.

In 1984, George Orwell paventava la fine della libertà a causa di una esplicita dittatura, in cui l’informazione, la cultura e la Storia sarebbero state censurate e riscritte da un ministero apposita; il romanzo uscì nel 1948, con alle spalle la dittatura nazista e davanti agli occhi ‘il mostro’ sovietico. Quindici anni prima, nel 1933, Aldous Huxley pubblicava Il mondo nuovo, un romanzo che suscitò meno clamore probabilmente perché poco si prestava a essere strumentalizzato: immaginava infatti una società in cui le persone vivevano felici, in uno stato di costante divertimento, distratte da cose superficiali, grate alla tecnologia che le liberava dalla fatica di pensare; erano oppresse, ma a tal punto condizionate fin dalla nascita da non essere in grado di capirlo. Orwell temeva una società in cui i libri sarebbero stati banditi, Huxley quella in cui nessuno avrebbe avuto il desiderio di leggerli; Orwell temeva la dittatura che si odia, Huxley quella che si ama; Orwell la cultura censurata, Huxley quella divenuta un balbettio infantile. Davanti a una televisione che è diventata il principale strumento di un potere falsamente democratico, ha ancora ragione Pasolini: “La maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per propria natura, brutalmente repressivo”.

Un conformismo fotografato anche dal Censis nel suo Rapporto annuale 2009 relativo all’aspetto ‘Comunicazione e media’: l’Italia è un Paese in cui “il pluralismo delle fonti è un processo ancora incompiuto”. Quando si tratta di informarsi sull’attualità politica, il 59,1% degli italiani si affida principalmente alla televisione (con punte del 63,1% tra i soggetti meno istruiti e del 67,7% tra gli anziani – 65 anni e oltre); solo il 30,5% affianca al mezzo televisivo la lettura dei quotidiani acquistati in edicola. Per scegliere chi votare, il 69,3% si affida ai telegiornali (il 76% tra i meno istruiti, il 74,1% tra le casalinghe, il 78,7% tra i pensionati e l’81,8% tra gli anziani), il 25,4% ai quotidiani. Internet potrebbe essere una grande possibilità, ma non lo è. Non solo per un problema generazionale – lo usa l’84,2% dei giovani (14-29 anni) ma nel complesso solo il 48,7% della popolazione – ma per l’uso che principalmente ne viene fatto, che lo rende simile al contesto televisivo: entertainment. Social network, YouTube, musica. Solo il 16,5% e il 2,5% tra i giovani accede rispettivamente ai portali e ai quotidiani online, e il 7% e il 4,7% nel complesso degli internauti. Se a questo si aggiunge che la percentuale delle persone totalmente estranee alla lettura di qualsiasi mezzo a stampa è aumentata dal 33,9% del 2006 al 39,3% del 2009, che gli utenti internet hanno raddoppiato la loro disaffezione per la carta stampata (erano il 5,7% nel 2006 sono diventati il 12,9% nel 2009) e che la percentuale dei giovani che usa regolarmente internet ma non legge né giornali né riviste né libri è il 28,7%, la conclusione è disarmante: solo il 35,8% degli italiani gode pienamente del pluralismo delle fonti nell’ambito dell’informazione.

Una situazione che va peggiorando. Negli ultimi due anni, a fronte di un utilizzo del mezzo televisivo rimasto invariato (92,1% contro il 91,7%), la disaffezione alla carta stampata va aumentando: nel 2007, il 67% degli italiani leggeva giornali a pagamento, il 21,1% quelli online e il 34,7% la free press; nel 2009 sono diventati rispettivamente il 54,8%, il 17,7% e il 35,7%. Contro un misero 1% di aumento di lettori dei giornali gratuiti, il 15,6% dei cittadini ha smesso di informarsi tramite i quotidiani.
Va ancora peggio nell’ambito delle riviste: il 40,3% leggeva settimanali e il 26,7% dei mensili; in due anni sono diventati il 26,1% e il 18,6%, registrando un calo complessivo del 22,3%.

Quest’ultimo dato rivela, più degli altri, il progressivo disinteresse verso l’approfondimento; un aspetto fortemente legato al basso livello di letteratismo registrato dall’Ocse. Gli articoli dei quotidiani sono sempre più brevi, in un telegiornale che dura meno di mezz’ora il tempo medio riservato a una notizia è un minuto; il giorno dopo, altri avvenimenti incalzano. Sono le riviste – quelle che si occupano di politica e di società – il mezzo dell’approfondimento. Non legate alla stretta attualità, riprendono una notizia o ne anticipano un’altra e ne vanno a fondo, in lunghi articoli di analisi affrontano argomenti che richiedono documentazione, tempo per essere pensati e scritti; stimolano quella riflessione che permette di avere le chiavi di lettura della società e il formarsi, soprattutto, di una cultura politica e di conseguenza di opinioni che vadano oltre lo slogan buono per il tempo di un caffè al bar. Ma per quale motivo il 64,9% degli italiani dovrebbe impiegare parte del proprio tempo a leggere qualcosa che non capisce?

Purtroppo, l’uomo massa non è figlio unico, ha un fratello scemo; ed entrambi, com’è loro diritto, votano. A questo punto si tratta di capire, stante la situazione sopra descritta, quale fattore cognitivo e percettivo della realtà politica induca questa tipologia di individuo a orientare il proprio voto a destra piuttosto che a sinistra; perché da una parte e non dall’altra, quale essa sia.

Ida Dominijanni, in un articolo sul Manifesto del 2 febbraio scorso, rifletteva sul diverso approccio comunicativo della destra e della sinistra, prendendo spunto dal saggio di George Lakoff, The political mind: l’egemonia della prima sarebbe dovuta “alla sua capacità di suscitare un’identificazione ‘calda’ dell’elettorato mobilitandone gli elementi emotivi e irrazionali”, laddove la seconda, “puntando a convincere con la razionalità degli argomenti e delle soluzioni, non riesce a vincere”. Non si tratta di semplici tecniche di marketing – sottolinea la Dominijanni – ma dell’intero complesso culturale che si manifesta attraverso il linguaggio: quello della destra sarebbe appunto ‘caldo’, quello della sinistra, “figlia dell’illuminismo e di una concezione razionale del contratto sociale”, sarebbe ‘freddo’, come le discipline del diritto e dell’economia che sono alla base della sua cultura. Per invertire l’egemonia, quindi, la sinistra dovrebbe allargare la propria formazione culturale “a saperi più in grado di sintonizzarsi con i fattori inconsci della ‘political mind’”.

Quando nel 1994 Berlusconi fondò Forza Italia prese in blocco un gruppo di manager di Publitalia – la concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset – e li portò con sé in politica: primo fra tutti Dell’Utri, e poi Micciché, Galan e altri. Era quindi chiaro fin dall’inizio quello che sarebbe stato l’approccio comunicativo del partito nascente: dopo aver creato in Italia la televisione commerciale e aver venduto per anni bibite e merendine, Berlusconi avrebbe iniziato a vendere se stesso con la stessa tecnica pubblicitaria. Non poteva che uscirne vincente. È vero, come dice la Dominijanni, che la sinistra paga la propria incapacità ad aggiornare il suo modus comunicativo; è anche vero però che il linguaggio ‘freddo’ che pretende di spiegare anziché emozionare è perdente perché totalmente incompreso, perché cade nel vuoto di cervelli italiani disabituati al ragionamento e al pensiero; ed è infine vero che è più facile vendere fumo, cavalcare paure e conformismo, piuttosto che un progetto politico; soprattutto quando questo è confuso.

Perché se per ‘sinistra’ si intende il Pd – che ha manovrato insieme alla destra per escludere dal Parlamento e conseguentemente dal circuito mediatico Rifondazione comunista & C. – questa è una questione nodale: dall’abbraccio al neoliberismo degli anni Novanta, si ritrova senza un’idea alternativa di società da proporre, salvo l’antiberlusconismo e una ‘questione morale’ che sempre più si rivela una farsa anche nelle sue fila. Ma ipotizzando che questa ‘sinistra’ ritrovi qualcosa di sinistra da proporre – che vada magari anche oltre l’illuminismo e il contratto sociale, valori borghesi, e ritrovi concetti come struttura e sovrastruttura – e che impari a trasmetterlo con un linguaggio ‘caldo’, uscendone vincente in termini elettorali, non si potrebbe comunque parlare di rovesciamento dell’egemonia. Un popolo bue resta un popolo bue, sia esso governato dalla destra o dalla sinistra; ma una sinistra preoccupata solo di trovare la strategia vincente e non di ricostruire lentamente quella cultura politica che il consumismo e l’omologazione si sono divorati, quella sinistra non è più sinistra.