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il rasoio di occam

La peste e lo Stato

di Alberto Toscano

Screenshot from 2020 04 29 12 24 40La crisi pandemica ha generato un diffuso desiderio di stato e di autorità. Ma per filtrare questo desiderio imponendo un nuovo bisogno collettivo di salute occorre rivolgersi alle tradizioni di ciò che potremmo chiamare “dualismo del biopotere”, vale a dire ai tentativi di appropriarsi politicamente di quegli aspetti della riproduzione sociale, dalle abitazioni alla medicina, che lo stato e il capitale hanno abbandonato o reso insopportabilmente “esclusivi”

È un luogo comune commentare le più diverse crisi notando la loro capacità di rivelare, in un istante, ciò che l'apparentemente fluida riproduzione dello status quo lascia inosservato, di portare in primo piano ciò che è dietro le quinte, di rovesciare la scala delle priorità etc. Il carattere, la durata e le dimensioni del SARS-CoV-2/Covid-19 sono una illustrazione particolarmente efficace di questa vecchia, “apocalittica”, verità. Dalla esposizione “differenziale” alla morte creata dal capitalismo razziale alla nuova ribalta conquistata dal lavoro di cura, dall'attenzione alle condizioni letali della vita carceraria alla diminuzione, visibile a occhio nudo, dell'inquinamento, le “rivelazioni” catalizzate dalla pandemia sembrano grandi tanto quanto il suo impatto sulle nostre relazioni di produzione e riproduzione sociale.

La dimensione politica della nostra vita collettiva non fa eccezione. Dilagano stati di emergenza, nascono vere e proprie dittature sanitarie (egregiamente in Ungheria), una emergenza che è di sanità pubblica viene militarizzata, e ciò che The Economist soprannomina “coronopticon” è variamente testato su popolazioni in preda al panico[i].

E tuttavia sarebbe troppo semplice criticare le varie forme di autoritarismo medico che sono apparse sulla scena politica. Soprattutto per quelli interessati a serbare intatti futuri emancipatori all'indomani della pandemia, è cruciale riflettere sulla profonda ambivalenza verso lo stato che la crisi porta alla nostra attenzione. Stiamo osservando un diffuso desiderio di stato – la domanda che le autorità pubbliche agiscano rapidamente ed efficientemente, che facciano affluire risorse sul “fronte” epidemiologico, che posti di lavoro, condizioni di vita e salute siano assicurati dinanzi a una interruzione, senza precedenti, della “normalità”. E, rettificando una benevola presunzione progressista, secondo cui tutta la repressione è, in origine, dall'alto c'è anche una richiesta diffusa che le autorità pubbliche reprimano velocemente quelli che indulgono in comportamenti imprudenti o pericolosi.

Date le nostre anguste retoriche e i nostri ristretti immaginari politici – ma anche la natura stessa dello stato – questo desiderio è abbondantemente articolato in termini marziali. Le nostre orecchie sono tartassate da dichiarazioni di guerra sul coronavirus: il “vector-in-chief”[ii], come Fintan O'Toole lo ha appropriatamente definito, twitta che “Il nemico invisibile sarà presto in piena ritirata”, mentre il convalescente primo ministro del Regno Unito parla di “una battaglia che non abbiamo mai scelto contro un nemico che non comprendiamo interamente”; improbabili analogie nazionaliste con “lo Spirito del Blitz” sono ripetute, mentre i poteri di legislazione in tempo di guerra sono temporaneamente attivati per nazionalizzare le industrie che producono ventilatori e materiale protettivo. Naturalmente, dichiarare la guerra a un “virus” è, alla fine, non più cogente che dichiarare guerra a un sostantivo (per esempio “terrore”), ma si tratta di una metafora profondamente incastonata sia nel nostro modo di pensare immunità e infezione sia nel nostro vocabolario politico. Come la storia dello stato e delle nostre rappresentazioni di esso testimonia, è spesso straordinariamente difficile separare lo spazio medico da quello militare, sia teoricamente che praticamente. Ciononostante, proprio come identificare, in questa crisi, i centri di iniziativa capitalistici non ci esenta dal fare i conti con le nostre stesse complicità[iii], così criticare l'incompetenza e l'ottusità nella risposta al Covid-19 non ci garantisce alcuna immunità nel confrontarci con il nostro stesso contraddittorio desiderio di stato.

La storia della filosofia politica può forse gettare qualche luce sulla nostra condizione. Dopotutto, il nesso tra l'alienazione della nostra volontà politica a un sovrano e la capacità di quest'ultimo di proteggere la vita e la salute dei suoi sudditi, soprattutto di fronte a piaghe e epidemie, è all'origine stessa del pensiero politico occidentale moderno – che, nel bene e soprattutto nel male, continua a ispirare di sé il senso comune. Questo è forse esemplificato al meglio da un motto coniato da Cicerone e poi adottato nella prima modernità – nel momento cioè di gestazione dello stato capitalistico moderno – da Thomas Hobbes, Baruch Spinoza, John Locke e il Leveller William Rainsborowe: Salus populi suprema lex. In questo slogan, ingannevolmente semplice, si può rintracciare molta di quella ambivalenza che è alla base del nostro desiderio di stato – esso può essere interpretato come il bisogno di subordinare l'esercizio della politica al benessere collettivo, ma anche come legittimazione della concentrazione del potere in capo a un sovrano che monopolizza la capacità di definire sia che cosa sia salute, e chi sia il popolo (con quest'ultimo pronto a mutare facilmente in ethnos o razza).

Rivisitare la nostra storia politica o il nostro immaginario politico attraverso il motto di Cicerone piuttosto che, per esempio, attraverso una rigida focalizzazione sulla guerra come “levatrice” dello stato moderno, è particolarmente istruttivo nella nostra epoca pandemica. Si prenda una copia del Leviatano di Hobbes (1651) e si guardi alla famosa immagine che adorna la copertina (in origine era il frontespizio). Si rimarrà probabilmente colpiti da come Hobbes ha istruito il suo incisore per dipingere Il sovrano con una testa il cui sguardo ricade su un “corpo politico” composto dai suoi sudditi (tutti con lo sguardo volto verso il re). O si può osservare il paesaggio e notare l'assenza del lavoro nei campi e i segni di guerra a distanza (posti di blocco, vascelli all'orizzonte, pennacchi di fumo scaturiti dai colpi di cannone). O si può vagare con lo sguardo sulle icone del potere religioso e politico disposte a sinistra e a destra dell'immagine. Ciò che è molto probabile farsi sfuggire tuttavia è che la città su cui l'“Uomo artificiale” di Hobbes volteggia è quasi interamente vuota, salvo che per qualche pattuglia di soldati e per una coppia di infauste figure indossanti maschere d'uccello, difficili da distinguere senza ingrandimento. Questi sono i medici della peste. Guerra e epidemie sono il contesto per l'incorporazione dei sudditi, ora senza più alcun potere, entro il sovrano, così come per la loro reclusione nelle case in tempi di contagio e conflitti. Salus populi suprema lex.

In un recente commento su Hobbes, Giorgio Agamben ha argutamente osservato come il frontespizio del Leviatano rappresenti una chiave d'accesso a un aspetto caratteristico dello stato moderno che il pensiero di Hobbes ha contribuito a formare e legittimare: l'assenza del popolo, o, in greco, ademia. I medici della peste di Hobbes suggeriscono così una sorta di legame segreto fra, da un lato, l'assenza del popolo, il demos (come qualcosa d'altro rispetto alla moltitudine che si deve alienare nella sovranità dello stato) e, dall'altro, le crisi periodiche sollecitate da epidemie e pandemie. Lo stato moderno, con il suo monopolio del potere, è uno Stato-flagello.

Un argomento simile, e adeguato a questi tempi di auto-isolamento, schermatura e distanziamento sociale, è stato avanzato da Michel Foucault. Nelle sue lezioni sulla emersione moderna della figura sociale degli “anormali”, Foucault si chiede sotto quali condizioni l'Europa abbia potuto sperimentare il mutamento da forme di governo che escludevano, proibivano e proscrivevano, a tecniche di potere che cercano di osservare, analizzare e controllare gli esseri umani, di individualizzarli e normalizzarli. Il suo suggerimento è che si tratti di una transizione fra due modi di trattare le infezioni, dalla politica della lebbra alla politica della peste. Secondo Foucault, il passaggio da una separazione dei gruppi, i sani e i malati, materializzato nelle colonie dei lebbrosi o lazzaretti, alla meticolosa regolamentazione della città colpita dalla peste, famiglia per famiglia, ha significato un cospicuo slittamento nel governo del nostro comportamento, da ultimo funzionale a una nuova comprensione del potere politico e della rappresentanza, della cittadinanza e dello stato. La descrizione foucaultiana del dispiegamento del potere nella città colpita della peste dà così inopinata forza all'idea che noi ancora viviamo per lo più nello spazio politico emerso nella Europa del Settecento, in ciò che egli chiama il “sogno politico” della peste (il “sogno letterario” della peste essendo l'assenza della legge e la dissoluzione di ogni frontiera individuale e sociale):

le sentinelle dovevano essere sempre presenti all'estremità delle strade, gli ispettori dei quartieri e dei distretti dovevano svolgere la loro ispezione due volte al giorno, di modo che nulla di ciò che avveniva nella città potesse sfuggire al loro sguardo. E tutto ciò che era sottoposto all'osservazione doveva essere registrato, in modo permanente, trascrivendo ogni informazione su grandi registri. […] Non si tratta di un'esclusione, ma di una quarantena. Non si tratta di cacciare, ma di stabilire, di fissare, di dare il proprio luogo, di assegnare dei posti, di definire delle presenze e di suddividerle. Non rigetto, ma inclusione. Non si tratta nemmeno di una sorta di ripartizione della popolazione in due gruppi: quella pura e quella impura, quella che ha la lebbra quella che non ce l'ha. Si tratta al contrario di una serie di differenze sottili e costantemente sotto osservazione tra gli individui che sono malati e quelli che non lo sono. Individualizzazione, di conseguenza, divisione e suddivisione del potere, che arriva a raggiungere la grana minuta dell'individualità[iv].

Laddove la recinzione dei lebbrosi operava sulla base di una forte divisione di gruppo fra i malati, contagiosi, e i sani, la sorveglianza sulla peste lavora sulla gradazione del rischio, sul tracciamento del comportamento individuale, e delle sue predisposizioni, in città, mobilità e territori. Non è una norma medica o morale che è in gioco qui, ma un continuo sforzo di normalizzare il comportamento degli individui, ognuno dei quali è suscettibile di divenire il portatore di una potenziale minaccia che può essere governata solo attraverso la raccolta dati (i registri degli ispettori). Il governo della peste è così il precursore della ossessione politica per l'“individuo pericoloso”, che raccoglie in sé, confondendoli, fenomeni di contagio, crimine o conflitto. Nell'età del capitalismo della sorveglianza e del potere algoritmico, le pratiche di normalizzazione ritagliate sull'individuo pericoloso aumentano di enorme forza “computazionale”, di grana sempre più fine. Ma esse sono anche, come nei racconti di auto-isolamento di Daniel Defoe in A Journal of the Plague Year, sempre più fatto di scelta volontaria, mentre il prolungamento della pandemia e la sua minaccia alla salute collettiva e individuale può servire come argomento convincente non solamente per l'intensificazione dei poteri dello stato, ma anche per l'esame e il registro, quella relativizzazione della “privacy”, della quale la città colpita dalla peste di Foucault è stata un drammatico precorrimento.

Di fronte alla lunga e profondamente intricata storia dello Stato colpito dalla peste, del potere della peste, è possibile immaginare forme di salute pubblica che non siano semplicemente sinonimo di salute dello stato, risposte alla pandemia che non intreccino ulteriormente il nostro desiderio al monopolio sovrano del potere? Possiamo evitare l'apparentemente insuperabile tendenza a trattare le crisi come opportunità per un ulteriore allargamento e approfondimento dei poteri dello stato nella direzione dell'assenza e dell'isolamento del popolo? La recente storia delle epidemie nell'Africa occidentale suggerisce il significato vitale di un pensiero epidemiologico che pensi come le comunità e di comunità che pensino come epidemiologi[v], mentre il pensiero critico sui profondi limiti della strategia del lockdown senza istituzione di “scudi comunitari” si muove lungo una direttrice analoga[vi].

Le pandemie non devono essere pensate, in analogia alla guerra, come argomenti biologici per la centralizzazione del potere. Se il periodo post-bellico, oggetto perduto di molta malinconia di sinistra, fu caratterizzato dal welfare-warfare State, l'uscita dalla condizione presente non deve accettare come suo unico orizzonte quello welfare-as-warfare. Questo soprattutto se riflettiamo sulle profonde contraddizioni che lacerano il governo fra priorità epidemiologiche e di salute pubblica, da un lato, e gli imperativi capitalistici, dall'altro. In altri termini: quando la salute della gente e la loro riproduzione sociale vengono profondamente integrate negli imperativi dell'accumulazione – quelli che determinano il contributo dell'agrobusiness alla crisi presente e l'inadempienza di Big Pharma nell'alleviarla – lo stato può essere congenitamente incapace di pensare al modo di un epidemiologo.

Una strada possibile per cominciare a sceverare il nostro desiderio di stato dal bisogno collettivo di salute implica che la nostra attenzione si rivolga alle tradizioni di ciò che potremmo chiamare “dualismo del biopotere”, vale a dire ai tentativi di appropriarsi politicamente di quegli aspetti della riproduzione sociale, dalle abitazioni alla medicina, che lo stato e il capitale hanno abbandonato o reso insopportabilmente “esclusivi”, in una “epidemia dell'insicurezza”[vii] orchestrata.

La salute pubblica (o popolare o comune) non è stata semplicemente il vettore per la ricorrente presa di potere statale, ma ha anche agito come fulcro a partire dal quale pensare di disfare le relazioni sociali capitalistiche senza confidare nella premessa di una rottura nelle operazioni di potere, senza attendere il day after rivoluzionario. Gli esperimenti, brutalmente repressi, delle Black Panthers per fornire colazioni, screening di anemia falciforme e un servizio sanitario alternativo sono solo uno dei molti esempi di questo tipo di iniziative dal basso. La grande sfida del presente non è di pensare solo a come questi esperimenti politici possano essere replicati in una varietà di condizioni sociali ed epidemiologiche, ma a come essi possano crescere e coordinarsi – mentre, beninteso, non si abbandona lo stato come arena di conflitto e richieste. Lo slogan adottato dalle Pantere nere per questi programmi è forse un adeguato antidoto al legame hobbesiano tra salute, diritto e stato: Survival Pending Revolution.


Trad. it. (a cura di Giorgio Cesarale) di un testo che uscirà a maggio per la casa editrice Between the Lines Books (https://btlbooks.com/).

Alberto Toscano è Reader in Critical Theory, Goldsmiths, University of London. È autore di Fanaticism: On the Uses of an Idea (2017, II edizione); Cartographies of the Absolute (2015, with Jeff Kinkle).

Note
[i] ‘Creating the coronopticon’, The Economist, 28 March 2020, disponibile su: https://www.economist.com/printedition/2020-03-28
[ii] Fintan O’Toole, ‘Vector in Chief’, The New York Review of Books, 14 May 2020, disponibile su: https://www.nybooks.com/articles/2020/05/14/vector-in-chief/
[iii] Rob Wallace, ‘Capitalism is a disease hotspot’ (interview), Monthly Review Online, 12 March 2020, disponibile su: https://mronline.org/2020/03/12/capitalism-is-a-disease-hotspot/
[iv] Michel Foucault, Gli anormali: Corso al Collège de France (1974-1975), trad. it. di Valerio Marchetti e Antonella Salomoni (Milano: Feltrinelli, 2000), p. 49.
[v] Alex de Waal, ‘New Pathogen, Old Politics’, Boston Review, 3 April 2020, disponibile su: https://bostonreview.net/science-nature/alex-de-waal-new-pathogen-old-politics, con riferimento al libro di Paul Richards, fondato sulla sua ricerca in Sierra Leone, Ebola: How a People’s Science Helped End an Epidemic (London: Zed Books, 2016).
[vi] Anthony Costello, ‘Despite what Matt Hancock says, the government's policy is still herd immunity’, The Guardian, 3 April 2020, disponibile su: https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/apr/03/matt-hancock-government-policy-herd-immunity-community-surveillance-covid-19
[vii] ‘Interview: Dr. Abdul El-Sayed on the Politics of COVID-19’, Current Affairs, 7 April 2020, disponibile su: https://www.currentaffairs.org/2020/04/interview-dr-abdul-el-sayed-on-covid-19

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