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Per scomporre l’orologio della modernità

di Gigi Roggero

A mo’ di una recensione di Gigi Roggero sulla trilogia di Raffaele Alberto Ventura

champagneLeggeteli, i libri di Raffaele Alberto Ventura. Non solo l’ultimo, Radical Choc (Einaudi 2020), ma anche quelli precedenti, Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti (minimum fax 2017 e 2019). In una sorta di trilogia, ci sembra che già il primo volume contenga le tesi e gli argomenti centrali. Aggiornando Thorstein Veblen, che definiva «agiata» una classe oziosa e improduttiva, che spende nei consumi per lo status, Ventura propone una teoria di quella classe diventata «disagiata». Nel contesto della crisi del ceto medio, l’autore si concentra sulla sua frazione colta e intellettualizzata, che usa o usava la conoscenza come strumento di potere e di ascesa sociale, abituata a uno stile di vita – fatto di riconoscimento e consumi «posizionali» – che non può più permettersi. Da qui l’infelicità rancorosa, che per le diverse frazioni prende strade differenti e confluisce nella guerra di tutti. Un novello stato di natura di hobbesiana memoria, che rischia di assumere più i toni grotteschi della farsa che non quelli seriosi della tragedia. Nell’arena si scontrano così i vari pezzi del ceto medio declassato e minoranze aggrappate all’orgoglio di un’identità costruita sull’oppressione subita. Gli uni vogliono tornare a quello che avevano prima, gli altri vogliono avere quello che non hanno mai avuto. Entrambi pretendono un risarcimento per i torti subiti e sono pronti a scannarsi per una risorsa sempre più scarsa: il riconoscimento, appunto.

Con continui riferimenti, culturalmente raffinati, alternativamente colti e pop (ci perdonerà Ventura se rimarchiamo la sua evidente appartenenza allo stile di scrittura del ceto su cui giustamente infierisce nel suo libro), l’autore scarnifica una classe troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, troppo povera per realizzarle.

Affrontandole correttamente da questo angolo prospettico può confrontarsi con le grandi questioni dell’attualità, dal cosiddetto «populismo» alla crisi della scienza. Lo fa talora con una spietatezza che nasconde eccessiva compassione, con una radicalità che ci pare, arrivata al nocciolo, timorosa di andare fino in fondo. Proviamo a mettere in fila alcune delle osservazioni principali.

 

Abbattere il feticcio della cultura

Gli appartenenti alla classe disagiata sono stati bruscamente svegliati dai loro sogni, o peggio ancora continuano a esserne prigionieri. Sogni costruiti dalle promesse della modernità capitalistica: un progresso lineare e senza interruzioni, un mondo che riserva ai colti uno status speciale, torri d’avorio antisismiche. Improvvisamente, tutto ciò che pareva solido si dissolve nell’aria della crisi. Scrive l’autore: «La classe disagiata è il residuo umano lasciato dalle crisi di sovrapproduzione nel momento in cui non è più possibile finanziare il consumo improduttivo». Rileggendo le attività di questa classe, agiata o disagiata che sia, Ventura le cataloga infatti nella categoria del lavoro improduttivo. Il prosumer, di cui tanto si è parlato negli ultimi decenni, è quindi nient’altro che un consumatore mascherato da produttore.

È condivisibile l’obiettivo polemico dell’autore: il feticcio della cultura, mezzo di mistificazione di massa divenuto ideologia dell’autosfruttamento. Da qui il bisogno di «decostruire» il ruolo delle istituzioni che continuiamo a venerare: la scuola, l’università, l’industria culturale, il social web. In questo modo, Ventura può altrettanto correttamente mettere a critica le ideologie costruite attorno alle figure in cui il feticcio della cultura si incarna, ritenute in varia misura portatrici dell’interesse generale del progresso umano. Tale ideologia, inutile sottolinearlo, alberga storicamente a sinistra, fino ad arrivare all’odierno disprezzo non solo per le posizioni «populiste», ma per coloro che da queste posizioni verrebbero abbindolati, come se esistesse un’oggettiva correlazione tra difetto di istruzione e cultura e orientamento a destra. Da qui discende una patologizzazione e medicalizzazione del dibattito politico: astraendosi dalla dura materialità dei rapporti sociali e di potere, attorno a questa ideologia aleggia una terribile puzza di disprezzo di classe nel nome di una conoscenza neutra, oggettiva, universale. A offendere i disagiati di questa frazione di classe non è dunque la precarietà, ma il fatto che la precarietà colpisca le intelligenze del paese. Con il prevedibile paradosso che la tanto decantata democrazia viene rigettata proprio da coloro che dicono di volerla difendere: eh che cazzo, non si può far votare gli ignoranti, altrimenti vincono gli anti-democratici!

Ci convince meno, nell’analisi di Ventura, il suo ricondurre la classe disagiata al lavoro improduttivo. Per dirla sinteticamente, del più volte citato prosumer diamo la lettura opposta a quella da lui fornita: è un produttore mascherato da consumatore, o meglio indica la lavorizzazione del consumo. Il punto non è che cultura e conoscenza siano improduttive, ma al contrario che siano pienamente messe in produzione, al centro dei processi di accumulazione capitalistica. Da ciò non ne dobbiamo trarre la conclusione – giustamente criticata dall’autore – secondo cui i knowledge worker sarebbero soggetto centrale della trasformazione, bensì che si tratta di figure sottoposte a violenti processi di proletarizzazione, nonostante restino aggrappate a vetuste appartenenze di status e illusioni di agiatezza. Il fuoco del ragionamento andrebbe cioè spostato dallo spreco all’impoverimento di capacità, che tra l’altro viene intravisto dall’autore in alcuni passaggi, ad esempio quando afferma che «l’era della post-verità non è un tempo di ignoranza ma di stupidità». Quelle legate alla merce-cultura e alla merce-sapere, lungi dall’essere attività improduttive, innervano infatti uno sviluppo produttivo che impoverisce le capacità e crea, appunto, stupidità.

La stessa crisi è un elemento non decisivo nell’analisi condotta dall’autore del declassamento e del divenire disagiata di questa classe, appena accennato per poi finire sullo sfondo di un’impostazione che rischia di perdere di vista la determinazione storica dei processi esaminati. Anzi, Ventura sembra quasi affermare che è inutile parlare di crisi, perché semmai l’eccezione è il periodo di boom economico. Mentre proprio le sue argomentazioni illuminano la crisi non solo economica del capitalismo, ma la crisi del capitalismo in quanto civiltà. È dunque come se l’analisi sociologica sviluppata sui livelli della vita quotidiana, estremamente efficace e perspicua, non considerasse che quei livelli sono inseriti dentro un sistema complesso di dominio e di produzione, che per alcuni aspetti muta continuamente. È come se – facendoci ininterrottamente viaggiare in modo affascinante avanti e indietro, attraverso i secoli e le epoche, con uno stile che a tratti ricorda da vicino Žižek – non ci fossero fasi e cicli, come se non ci fosse il tempo storico.

 

Guerra civile liquida

«Stai facendo quello che qualsiasi uomo sano di mente farebbe nella tua situazione: stai impazzendo»: le parole che il Joker di Alan Moore rivolge al commissario Gordon calzano a pennello con il quadro sociale della contemporaneità. Non sappiamo se chi oggi riempie le ambigue piazze «cospirazioniste» fosse un tempo sano di mente, certamente l’impazzimento è della società nel suo complesso e non solo dei suoi membri incolti o dei cosiddetti «analfabeti funzionali». Senza nulla concedere alle narrazioni «populiste», da lui anzi ritenute «abiette e pericolose», Ventura si concentra nell’ultimo libro sulla «rottura epistemologica» creata dalla crisi della competenza. Perciò non possiamo accontentarci di «analisi prodotte all’interno dei paradigmi dominanti, perché questi sono allo stesso tempo giudice e parte in causa. È necessario prendere sul serio la critica radicale rivolta al sistema della competenza, apparentemente “irrazionale”, per chiederci se la sua razionalità non si situi a un altro livello. Ci siamo concentrati troppo sulla questione della verità senza capire che a contare davvero era l’efficienza dei paradigmi, la loro capacità di rispondere ai nostri bisogni: così siamo caduti nella metafisica». Detta altrimenti: la questione non è se i paradigmi dominanti siano veri o se chi li attacca si avvalga di fake news, il problema è che tali paradigmi non sono più in grado di mantenere le promesse sulla cui base erano nati e avevano costruito la propria legittimità.

Il cosiddetto «populismo», che ha nella crisi del ceto medio il suo fulcro (il trumpismo non è la rabbia degli ultimi ma dei declassati, chiosa l’autore), va allora interpretato come sintomo, una sensazione di cattivo funzionamento delle istituzioni esistenti. Allo stesso modo, Nietzsche considerava un sintomo il nichilismo: lo faceva non in quanto nichilista, bensì perché era pienamente consapevole, o meglio anticipatore della crisi della razionalità moderna. Dunque, nel momento in cui un sistema tradisce le promesse che aveva fatto per imporsi, si apre una fase di delegittimazione, potenzialmente rivoluzionaria: «la legittimazione è un debito che deve presto o tardi essere pagato». Quella che Ventura definisce la «classe competente» fatica a onorare innanzitutto «l’antica promessa di sicurezza sulla quale aveva fondato la propria legittimità». Non solo: nel dominio della tecnica, i rischi sono creati dallo stesso ordine razionale che avrebbe dovuto scongiurarli. Si determinano cioè degli «effetti iatrogeni», che indicano una patologia causata o amplificata dalla cura. Il panico della crisi pandemica deriva anche dall’ossessione per la sicurezza, ovvero dall’illusione della scienza moderna di dover avere tutto sotto controllo. Oppure, si potrebbe continuare seguendo il filo del suo ragionamento, la classe disagiata è un effetto iatrogeno delle promesse di progresso legate alla merce-istruzione.

La paranoia dei cospirazionisti, del resto, è una derivata della paranoia del «potere», quello visibile; è il risultato cioè di un sistema che continuamente produce paranoia, alimentando «il rischio di volersi proteggere da tutti i rischi». Il punto, infatti, è che i cospirazionisti immaginano molto meno e non più di quello che il potere reale effettivamente fa. Tutto sommato, ci dice l’autore, hanno una fede profonda nella scienza, che li porta a credere che gli scienziati dicano delle stupidaggini non per errore ma per calcolo. Puntando sempre a qualcosa di occulto, finiscono così per scagionare le istituzioni di potere esistenti per ciò che visibilmente fanno. Oppure – si pensi alla parabola dei 5 stelle – aprono la strada a una soluzione tecnocratica, del resto già contenuta in nuce nel ciclo dei movimento occupy (si pensi alla proposizione di una «tecnopolitica» delle acampadas spagnole).

Ecco perché la rivolta contro gli esperti e i competenti va presa sul serio. Sembra crollare – non per la prima volta, come ci ricorda l’autore sulla scorta di Merton – la fede nella grande religione moderna: uno scientismo che ha divorato la scienza. Si può irridere l’aspetto grottesco delle sue espressioni più mediatizzate, come fa lo spettatore di sinistra di fronte alle bufale o alle piazze no mask. Il punto, però, è che dentro quella rivolta vi è la crisi di fiducia nelle istituzioni, dalla scienza alla politica. Esprime, in modo deformato finché si vuole, una diffidenza nei confronti di una realtà così brutta che è difficile accettare che sia vera. Soprattutto da parte di chi fino a ieri da quella realtà ha goduto benefici materiali e promesse più o meno mantenute. Nella misura in cui quella rivolta non riesce a coagularsi contro chi sta in alto, si frantuma orizzontalmente e si sfoga verso il basso. Nel campo di battaglia delineato dalla crisi del ceto medio nel suo complesso, ogni individuo o segmento si radicalizza nelle bolle di un’appartenenza concreta o immaginaria, dando vita a una guerra civile molecolare, liquida, dai confini indefiniti e continuamente variabili. La questione è: le bolle devono restare tali o possono diventare parti? La guerra civile sarà fatta da lupi solitari oppure potrebbe trasformarsi in scontro di classe, e il rancore individuale in odio collettivo?

 

Dalla foto al film

In questa domanda, dall’interno della guerra civile liquida, c’è un’altra questione decisiva. Quella che Ventura chiama «classe», agiata da un lato e dei competenti dall’altro, è in realtà una bolla, un ceto sociologicamente inteso, che si aggrega attorno a uno status che ha o che vorrebbe tornare ad avere. La classe per noi resta al contrario una definizione politica, la posta in palio di un processo di lotta. Non è una banale questione terminologica bensì di sostanza, di postura e prospettiva politica. L’autore legge il declassamento degli ex agiati come una «tragedia della borghesia». Cosa succede, però, quando cambia la collocazione materiale di queste stesse figure, quando le promesse si infrangono, quando il ceto medio non può più continuare a vivere come prima? Questi soggetti non sono oppressi ma mancati oppressori, ci dice: la seconda parte è probabilmente vera ma ciò non significa che sia vera la prima. Anche gli operai possono essere mancati capitalisti, ma ciò non significa che non siano operai. Ci sembra che l’autore resti fermo su una fotografia dell’esistente, una fotografia molto nitida e ottimamente scattata, che tuttavia non riesce a cogliere le possibili tendenze, i punti di tensione, le faglie potenziali. La sua analisi corre cioè il rischio di essere statica, di non presupporre il movimento, di guardare indietro e non avanti. Pur criticando l’ideologia, Ventura ne resta parzialmente impigliato, perdendo di vista la materialità dei rapporti sociali, dunque la talora rapida tumultuosità dei processi e la possibilità della loro rottura e sovversione.

Le pagine di critica demolitrice dei radical chic sono indubbiamente gustose. Per certi versi, ci dice l’autore, il rapporto si è rovesciato rispetto al secolo scorso, quando con lo champagne si ostentava il lusso e con il dichiararsi di sinistra una moralità vistosa. Oggi la birra artigianale, equivalente funzionale dello champagne di ieri, esprime una posizione di moralità rispetto ai consumi e al mondo, mentre è proprio l’essere di sinistra a ostentare un’appartenenza di classe, a un ceto che può continuare a esprimere ideali che non costano niente sui grandi temi del mondo perché, materialmente, l’apericena non gliela toglie nessuno. I mercatini bio, coi loro prezzi direttamente proporzionali al consumo ideologico, sono i luoghi privilegiati di questa esibizione.

Da qui si può dedurre, per chi non l’avesse già fatto prima o addirittura assunto come un presupposto, che la critica al capitalismo non viaggia sull’asse sinistra-destra, perché quella dialettica è tutta interna alla modernità borghese. Nella «fabbrica del dissenso», Ventura evidenzia la sussunzione della contrapposizione e dell’indipendenza; il problema non è essere esclusi, ma al contrario essere triturati negli ingranaggi dell’inclusione al sistema. La questione è, ancora una volta: la sussunzione è fatto concreto o destino ineluttabile? L’autore dà la sua risposta: «Il capitalista e l’anticapitalista sono stretti in un abbraccio dal quale nessuno può staccarsi senza mettere in pericolo la propria esistenza». Altrove, tuttavia, ci invita a non cadere nell’immagine di perfetto funzionamento che il sistema dà di se stesso: «l’incubo della gabbia d’acciaio non è la sua inscalfibile razionalità, ma sono le venature di follia che la percorrono».

Quando la bolla si buca, sembra non restare altro che risentimento e depressione, schegge impazzite pronte a tutte, contro gli altri e/o contro se stesse. Il serial killer e il depresso sono due facce della stessa condizione. Tuttavia, anche la soggettività è materia di produzione: è formata dai rapporti sociali esistenti, si forma nella lotta contro di essi. E cambia, può cambiare. Può addirittura rovesciarsi contro se stessa, in forma imprevedibile. Non è ottimismo della volontà, ma critica di un pessimismo indotto da un presente eternizzato, da fine della storia. D’altro canto, non ci resta che un ruolo di testimonianza? Forse sì, però farsi professionisti e scrittori della testimonianza, perfino della condizione di sfiga dei traditi dal progresso, non è esattamente l’ennesima illusione feticistica della classe disagiata?

 

Una catastrofe senza apocalisse?

Nell’epilogo di Radical choc Ventura introduce un dubbio, che noi riformuliamo così: e se la democrazia fosse una tecnica di gestione politica capace di funzionare solo all’interno dei binari della normalità, cioè in contesti non segnati dall’emergenza e dall’eccezione? Democrazia e tecnocrazia non sono in contraddizione. Al contrario, possiamo dire che la seconda è insita nella prima, ne costituisce il compimento. La democrazia è il trionfo della tecnica, forma suprema di depoliticizzazione di massa. Del resto, ceto medio e democrazia sono le Twin Towers del Novecento: il primo non è pensabile se non nella cornice della seconda, la seconda ha bisogno del primo per stabilizzarsi. A questa altezza l’autore si ferma, colto dal timore del precipizio: «La tragedia nazista vale ancora oggi come avvertimento, ma è un avvertimento duplice e paradossale: essa ci mostra il pericolo rappresentato contemporaneamente dalla grande macchina della competenza e dall’ideologia che voleva abbatterla. Se davvero la Storia vorrà prendere la strada della distruzione creatrice per sostituire i suoi paradigmi in crisi, allora dobbiamo sperare che le catastrofi del passato ci abbiano insegnato un po’ di prudenza, e che tra i populismi che si candideranno ad abbattere l’ordine dominante sapremo scegliere il meno devastatore». Per certi versi Ventura è un eccellente sociologo della catastrofe. Una catastrofe senza apocalisse, una catastrofe normalizzata. Una catastrofe che non ha un volto inquietante o pauroso, ma ne ha uno di gran lunga peggiore: un volto banale e noioso. In questo collasso senza crollo, Ventura dipinge scene e vizi di una vita inesorabilmente da basso impero, ma senza barbari che minacciano i confini: sono già dentro, eppure gli ingranaggi della macchina continuano a girare indifferenti con i loro automatismi. Al contrario di quel che viene detto ne L’odio, il problema qui non è l’atterraggio, ma la caduta.

A questo punto, ci pare opportuno concludere approfondendo Hobbes e la metafora dell’orologio, solo accennata a più riprese nelle pagine dell’ultimo libro: «Come in un orologio o in un’altra macchina un poco complessa non si può sapere quale sia la funzione di ogni parte e di ogni ruota, se non lo si scompone, e si esaminano separatamente la materia, la figura, il moto delle parti, così nell’indagine sul diritto dello Stato e sui doveri dei cittadini si deve, se non scomporre lo Stato, considerarlo come scomposto, per intendere correttamente quale sia la natura umana, in quali cose sia adatta o inadatta a costruire lo Stato, e come debbano accordarsi gli uomini che intendono riunirsi». Leggeteli questi testi, dicevamo all’inizio. Grazie a Ventura possiamo articolare ulteriormente una discussione su temi e questioni dirimenti, che qui sono solo accennate e troppo poco scandagliate. Però, dopo aver esaminato la materia, la figura e il moto delle parti, andiamo avanti, e scomponiamo fino in fondo questo stato di cose presente. Che è così brutto che basta viverci dentro per odiarlo.

Comments

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Mario M
Monday, 12 October 2020 13:12
Paolo Selmi: " Non ci è dato sapere, non ci è dato conoscere, non ci è dato partecipare, non ci è dato unire i puntini, non ci è dato unirci, aggregarci, lottare per cambiare questo schifo."

Il movimento politico Forza del Popolo risponde alla tua perorazione:
https://www.sfogliami.it/fl/140313/vcdi54psog3yrvsrhmhc211stlz9y444

Considero l'avvocato Lillo Massimiliano Musso, ora coordinatore del movimento, il politico più attrezzato dal punto di vista culturale, tecnico; con capacità organizzative, carisma, conoscenze approfondite e diffuse in economia, medicina, e ovviamente di giurisprudenza.

Tenete presente che - presumo per ritorsione - il fratello Dario ha subito un TSO, perché manifestava pubblicamente il suo pensiero.
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Paolo Selmi
Sunday, 11 October 2020 19:34
"Tra la maschera e l'individuo non c'è niente, non c'è assolutamente niente che possa opporsi, io sto a casa, sto a casa, questo era il motto generale"
Ottima sintesi, Pantaléone. Ricambio il saluto! La Val Veddasca è stupenda, ancora poco frequentata e con una strada bruttissima che scoraggia eventuali "turisti per caso"... Da lì si va all'Indemini e si transita in Svizzera, attraverso un valico anch'èsso poco noto, fino all'Alpe di Neggia, trampolino ideale per il Tamaro che è il monte più alto della zona. Quasi 2000 m, quasi Alpi...
Ivan Graziani pensava a queste zone quando scriveva Lugano addio (in realtà era dall'altra parte, sul lago di Como, ma sempre storie "insubriche", che ho sentito anche da questa parte dei monti.
"Tu, tu mi parlavi di frontiere
di finanzieri e contrabbando
mi scaldavo ai tuoi racconti "
E mio padre sì" tu mi dicevi
"quassù in montagna ha combattuto"
Poi del mio mi domandavi."
https://www.youtube.com/watch?v=pTzatGPQaNE
Buona settimana!
Paolo
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Pantaléone
Sunday, 11 October 2020 10:49
si dovrebbe leggere acculturato e non culturato
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Pantaléone
Sunday, 11 October 2020 10:46
Paolo Selmi
Ti saluto per la sua presentazione, ma torno sempre alla soggettività.
Avrete notato, credo, una massa di individui che portano spontaneamente e volontariamente questo feticcio alienante, senza bisogno di costringerli...
E qui dobbiamo arrivare alla soggettività del capitale, che per riprodursi in una fase superiore ha bisogno di un uomo acculturato, devitalizzato della sua sostanza.
Tra la maschera e l'individuo non c'è niente, non c'è assolutamente niente che possa opporsi, io sto a casa, sto a casa, questo era il motto generale.
Conosco bene le città che avete appena citato, sulle sponde del Lago Maggiore, ho trascorso qualche anno in Val Vedascca, Buona giornata a te.

Tradotto con www.DeepL.com/Translator (versione gratuita)
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Paolo Selmi
Saturday, 10 October 2020 12:39
L'articolo non l'ho letto, ma intervengo per riflettere brevemente su quanto osservato nel commento precedente.

E' di oggi la dichiarazione di Mattarella, non l'ultimo dei terrapiattisti, sull'aumento dei disagi psichici durante la quarantena.
https://www.quirinale.it/elementi/50619
"Quest’anno, le vicende della pandemia hanno acuito la sofferenza delle persone affette da patologia psichica, spesso costrette a vivere lontano dalle proprie famiglie per ragioni terapeutiche, e che si sono trovate in alcuni casi ad affrontare in solitudine gli effetti della chiusura.

A ciò si aggiunga che la pandemia ha prodotto, tra le sue tragiche conseguenze, un incremento delle condizioni di disagio psichico, acutizzando situazioni di emergenza psicologica e sociale."

Mi permetto di aggiungere, dove la patologia non c'era, il lockdown l'ha creata. Vogliamo parlare di bimbi e ragazzi chiusi PER MESI in casa e lasciati completamente da soli, ovvero isolati l'uno dall'altro? Soprattutto nel caso dei primi? Vogliamo parlare dei messaggi che giungevano dalla televisione e che - specialmente i primi - assorbivano e rielaboravano alla loro maniera? Vogliamo parlare delle ansie che, specialmente nei soggetti più deboli e fragili, hanno contribuito ad acuire fino, in alcuni casi, a raggiungere livelli patologici?

C'è malafede. Questo è fuori discussione. Per esempio sulle mascherine, da tenersi all'aperto "a prescindere dalla distanza interpersonale". Perché? "Per tenere alta l'attenzione"... Quindi, seguendo la stessa logica, io devo camminare con un casco in testa anche per casa e aveva ragione Leslie Nielsen nel primo una pallottola spuntata, scena "io sono per il sesso sicuro" (https://www.youtube.com/watch?v=7g19tN2XPJ0).
Andiamo avanti così, invece di far ragionare le persone e impegnarle a comportamenti responsabili e a precauzioni sacrosante che partano dalla consapevolezza di quello che si sta facendo e del perché lo si sta facendo. Il bastone e la carota sono l'insulto maggiore che si possa fare a un popolo, come se quelli che ci governano - invece - fossero dotati di maggior raziocinio. Perché questo è il messaggio che poi passa, anzi, con lo stato di emergenza fino a gennaio, piena fiducia! Alzarsi una mascherina non appena ci si avvicina a una situazione di assembramento è un attimo, tirarla fuori da una tasca, togliersela da un gomito e metterla è un attimo. Ed è un gesto di rispetto, consapevolezza, maturità, nei confronti di chi si incrocia o con cui ci si relaziona. Ma loro non vogliono questo. Esci di casa, su la mascherina, da quando varchi l'uscio. Perché si. Poi queste perle di saggezza, fatte da persone ragionevoli, dicono anche "fatte salve le previsioni degli specifici protocolli di settore vigenti (ad esempio per le attività di ristorazione, bar, sport all’aperto)."

E qui arriviamo al paradosso. Mascherina su tutto il giorno, entro in un bar a bermi un caffè, o a prendere un aperitivo, o vado a mangiarmi una pizza, e lì "vale tutto"... perché basta tenersi "a distanza", anche perché bere un caffé filtrato dalla mascherina non è il massimo della vita. Ma tant'è.

Perché, sempre in tema di malafede, andiamo avanti a demonizzare. di tutto e di più. Mi girano questo commento sul 77% dei focolai in famiglia.
https://www.huffingtonpost.it/entry/claudio-mencacci-continuiamo-a-organizzare-feste-perche-luntore-e-sempre-laltro-ma-ci-sbagliamo_it_5f80407ac5b664e5babc3dd3?utm_hp_ref=it-homepage
Un commento delirante. Delirante perché associa automaticamente il 77% alle feste in casa. Delirante perché non tiene presente di come certi atteggiamenti ci stanno portando a diventare, e di come Mattarella, invece, se ne è accorto. Ma magari c'è un fondamento di verità, per l'amor del cielo. Festa di compleanno, 13 persone in casa, e vai di focolaio! Bene, voglio andare a fondo sulla questione e vado a vedere la fonte di questa "perla", ovvero il "Monitoraggio settimanale Covid-19, report 28 settembre 4 ottobre"
http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=5112
Ecco il brano incriminato:
"Sono stati riportati complessivamente 3.805 focolai attivi, di cui 1.181 nuovi (la definizione adottata di focolaio prevede l’individuazione di 2 o più casi positivi tra loro collegati), entrambi in aumento per la decima settimana consecutiva (nella precedente settimana di monitoraggio erano stati segnalati 3.266 focolai attivi di cui 909 nuovi).
Sono stati riportati focolai nella quasi totalità delle province (104/107). La maggior parte di questi focolai continua a verificarsi in ambito domiciliare (77,6%). Continua a scendere la percentuale dei focolai rilevati nell’ambito diattività ricreative (4,1% vs 4,5% la settimana precedente). "
Leggo più attentamente: LA DEFINIZIONE ADOTTATA DI FOCOLAIO PREVEDE L'INDIVIDUAZIONE DI DUE (2!) O PIU' CASI POSITIVI TRA LORO COLLEGATI.

Prima reazione: Grazie al ca###o! Io e mia moglie, Io e mia figlia, mia moglie e mia figlia: ho già tre tipologie di "focolaio" dove lo prendo io e lo passo alla moglie, o viceversa, o lo piglia mia figlia e lo passa a me o a mia moglie. Non c'è bisogno di fare la "festa di compleanno" con 13 persone in cucina e il tavolo che straborda in sala attaccandoci quello del campeggio, per fare quel 77%!

Peraltro, il rapporto NON differenzia neppure, non ci prova a calcolare, stimare, accennare all'incidenza dell'assembramento io-mammeta-e-tu sul totale, rispetto a quella dell'assembramento domani-sera-tutti-a-casa-mia-e-ciascuno-porta-qualcosa. No, non è interessante... per loro. MA IL DATO E' IMMEDIATAMENTE INTERPRETATO DALLO "PSICOLOGO" COME... ECCO, TUTTA COLPA DELLE CENE A CASA! E' lì che ce li becchiamo tutti. Quindi ciascuno resti nel suo goldone, come nella scena già citata della pallottola spuntata! E non fiati, né di sopra, né di sotto. E non protesti, altrimenti è un terrapiattista!

Poi guardo le notizie di oggi sul giornale locale e trovo un focolaio di VENTIDUE CASI all'ospedale di Luino
https://www.varesenews.it/2020/10/ventidue-positivi-nel-focolaio-covid-nellospedale-luino/969162/
Si saranno invitati tutti a casa di qualcuno la sera prima...

Poi si cerca di capire l'andamento locale, ma i dati diffusi in provincia di Varese sono "aggregati"... e la gente si incazza:
"La quotidiana litania di dati asettici spaventa o fa arrabbiare, ma non lascia mai indifferenti con pesanti ricadute sugli equilibri sociali e anche economici. Torniamo quindi a chiedere e pretendere risposte.

Come stanno andando i ricoveri? Dieci a Varese e 18 a Busto come dichiarato o sono di più? Noi non possiamo accedere negli spazi ospedalieri ma ci arrivano segnali che non riusciamo a confermare: c’è chi racconta di un reparto covid esaurito e di imminente allargamento a nuovi posti anche di terapia intensiva. “Gli ospedali si stanno preparando”, ci viene detto, ma a cosa? A chiudere di nuovo tutto alle altre malattie? A cosa ci dobbiamo preparare noi cittadini?

Perché non possiamo sapere con puntualità dati più specifici sui nuovi contagiati? Quanti anni hanno? Come stanno? Quanti di loro vengono ricoverati e quanti sono privi di sintomi? Quanti tamponi vengono eseguiti in provincia ogni giorno? Che rapporto c’è con i contagi individuati? In quali comuni si registrano i casi? Per quale oscuro motivo si continua a non essere trasparenti e a tacere di fronte alle domande?

Sappiamo che Ats Insubria non è in grado di comunicare ma Regione non può risolvere tale limite? È frustrante e, nello stesso tempo allarmante, questo atteggiamento indisponente di silenzio davanti alla richiesta di trasparenza."
https://www.varesenews.it/2020/10/stanchi-del-silenzio-cittadini-diritto-sapere/969089/

Gallarate ha sessantamila abitanti, Busto ne fa ottantamila, il mio paese cinquemila. Ma sapere se i 100 casi di ieri sono avvenuti di qui o di là, se i 22 di Luino sono bissati da qualche altro focolaio che di colpo ridimensiona il tutto riportandolo in linea coi giorni scorsi, non ci è dato. Non ci è dato sapere, non ci è dato conoscere, non ci è dato partecipare, non ci è dato unire i puntini, non ci è dato unirci, aggregarci, lottare per cambiare questo schifo.

Ciao
Paolo
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persona
Saturday, 10 October 2020 01:22
Pare strano sentir definire "aspetto grottesco" una piazza no-mask: grottesca è semmai l'immagine di un'umanità che, ipnotizzata dai media di regime, porta costantemente delle buffe maschere facciali, anche se il Carnevale è finito, nonostante non vi siano evidenze scientifiche sulla loro utilità all'aperto (anzi..), per non parlare degli aspetti psicologici e simbolici della questione...
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