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Scuola, lavoro e Costituzione

di Saverio Catalano

1440px Online class Kerala 2021 1200x600Perché investire nella scuola (nel modo appropriato) significa investire in maggior democrazia

Senza la scuola, intesa come «comunità fatta di partecipazione, di reciprocità, di consapevolezza condivisa, semplicemente non esiste la società e non può esistere la democrazia». La scuola, come disse Piero Calamandrei, è un organo vitale della democrazia, in quanto è il complemento necessario del suffragio universale(1).

La democrazia, infatti, non si esaurisce nel riconoscere semplicemente il diritto di voto a tutti; se fosse così dovremmo riconoscere che tale sistema rischia di essere una democrazia apparente, in cui la strumentalizzazione dell’élite di un paese è altamente probabile; non sarebbe una democrazia effettiva ma «un caso di autocrazia e oligarchia in cui i protagonisti possono muovere la folla come un’arma»(2), in cui la mediocrità della gran parte è la strada per l’interesse e il potere di pochi, una democrazia dogmatica.

In una democrazia non apparente ma progressiva e critica «il computo dei voti non è l’espressione del dominio della mediocrità, ma la manifestazione terminale di un lungo processo di formazione delle opinioni collettive in cui tutti hanno la possibilità di esercitare la loro influenza, massimamente coloro che hanno maggiori e migliori energie da destinare alla cura delle cose pubbliche»(3).

In questo «lungo processo di formazione» i cittadini diventano non soggetti passivi ma soggetti attivi, partecipi dell’organizzazione politica(4), capaci di iniziativa, fanno sentire la loro voce, non attraverso l’essere oggetto di sondaggi, ma diventando reale forza politica, prima attraverso l’acquisizione delle conoscenze e dei saperi necessari, poi attraverso lo scambio, il confronto, la discussione e la condivisione delle opinioni.

Risulta evidente che in questo processo di formazione deve svolgere un ruolo essenziale l’istituzione scuola. È attraverso di essa che le nuove generazioni possono acquisire quelle conoscenze che permettono loro di essere dei cittadini non in senso formale ma in senso sostanziale.

«Le idee e le opinioni non nascono spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione», fin dalla scuola elementare. Attraverso le nozioni di scienze naturali e le nozioni di diritti e doveri del cittadino si contrastano rispettivamente «la concezione magica del mondo e della natura che il bambino assorbe dall’ambiente impregnato di folclore e le tendenze alla barbarie individualistica e localistica, che è anch’essa un aspetto del folclore». La scuola diffonde così una concezione del mondo più moderna, in cui le leggi civili e statali sono un prodotto dell’attività umana, sono cioè stabilite dall’uomo e che dall’uomo possono essere mutate per i fini del suo sviluppo collettivo(5).

Così, oggi, attraverso uno studio critico e più consapevole delle varie discipline, la scuola può contribuire in modo decisivo a contrastare sia il senso comune, che vede solo l’apparenza dei fenomeni senza interrogarsi sulle dinamiche che sono dietro quei fenomeni, sia per contrastare quelle che sono le idee dominanti, prodotte da una minoranza e fatte diventare artificialmente anch’esse senso comune; idee che, falsificando la rappresentazione della realtà, mirano non all’interesse collettivo e alla tutela dei beni comuni, ma ad occultare determinati privilegi e contemporaneamente a nascondere i reali problemi e le contraddizioni che la società si trova a subire(6). Ad esempio, l’introduzione e lo studio critico del Diritto e dell’Economia in tutti gli indirizzi delle superiori, potrebbero mettere in luce il fatto che il tanto decantato libero mercato è una «mistificazione ideologica, con la quale il neoliberismo cerca di confermare la propria legittimità sociale, in un mondo nel quale la concorrenza sui prezzi è stata cancellata da tempo dalla travolgente diffusione di pratiche oligopolistiche e lobbystiche»(7) – delle quali abbiamo avuto una chiara esperienza di recente, in occasione degli aumenti dei prezzi delle risorse energetiche(8).

L’introduzione di queste discipline potrebbe altresì diffondere la consapevolezza che le attuali pratiche di marketing e di pubblicità(9), diversamente dagli inizi, non puntano semplicemente ad interagire con i gusti e i desideri del consumatore, ma piuttosto ad agire in modo da generarli e condizionarli direttamente(10), dando vita a quello che Shoshana Duboff ha giustamente definito il «capitalismo della sorveglianza»(11); potrebbe far riflettere su quali effetti provoca, sul reale processo decisionale nell’odierna democrazia rappresentativa, il fatto che ormai da tempo lo Stato nazionale ha perso gran parte della sua sovranità nel decidere gli obiettivi e gli strumenti della politica economica, perché questa sovranità è stata ceduta a organi sovranazionali della UE(12) (le cui scelte però – più che essere influenzate dalla volontà popolare sembrano direttamente influenzate dalle lobby delle multinazionali(13)) o perché fortemente influenzata dal contesto internazionale.

Lo studio critico dell’economia potrebbe infine far diffondere la consapevolezza che ormai la grande finanza internazionale non serve più l’economia reale, ma serve sé stessa, con i nuovi protagonisti dell’economia che «fanno soldi semplicemente scambiando soldi» e trasformando così il capitalismo odierno in un enorme casinò(14).

Con una scuola che si pone all’altezza del compito che la Costituzione le attribuisce, si dà la possibilità alle nuove generazioni, non di ricevere un sapere preconfezionato, dogmatico e puramente nozionistico, ma si dà quella conoscenza e quella capacità critica che aiuta a comprendere la complessità della realtà odierna, che rappresenta la premessa necessaria per una qualsiasi prospettiva di cambiamento.

La scuola può contribuire ad attuare quella che Piero Calamandrei chiama «vera democrazia», cioè un sistema sociale nel quale «ogni cittadino deve essere in grado di esplicare senza ostacoli la sua personalità, contribuendo alla vita della comunità», dove «non basta garantire al cittadino teoricamente le libertà politiche ma dove occorre anche metterlo in condizione di servirsene praticamente»(15)

In definitiva, investire maggiori risorse nella scuola pubblica significa contribuire ad aumentare la partecipazione democratica, cosa oggi diventata estremamente necessaria vista l’attuale crisi della democrazia rappresentativa.(16)

È necessario, quindi, investire nella scuola nel suo complesso, e in particolare su quei soggetti che rappresentano il fulcro sul quale far leva per poter realizzare un vero e proprio sviluppo del sistema dell’istruzione pubblica: gli insegnanti.

Questo richiede però che si abbia una chiara consapevolezza dei peculiari caratteri del lavoro dell’insegnante, che, come tutte le attività che implicano dei «servizi alla persona», presenta degli aspetti peculiari e contraddittori che il lavoro con connotazioni più materiali non ha.

 

Cos’è quella particolare attività produttiva che chiamiamo lavoro? perché è diventato sempre più difficile riprodurlo?

Per acquisire questa consapevolezza è prima necessario aver chiaro cos’è il lavoro salariato, quali sono state le condizioni che nelle fasi storiche recenti hanno permesso la sua riproduzione e il suo sviluppo e perché oggi, invece, nonostante la Costituzione affermi che è «il fondamento della Repubblica», esso stia attraversando una crisi profonda che ha ripercussioni sull’intera società e dalla quale è diventato sempre più complicato uscirne.

Secondo la visione di alcuni economisti più critici(17), questa crisi è la conseguenza inevitabile del fatto che l’attività produttiva, per come è venuta a configurarsi fino ad ora, non è più in grado di mediare un nuovo sviluppo.

I bisogni che sono alla base di questo possibile nuovo sviluppo, per loro natura, non si presentano attraverso una nuova domanda, cioè non si esprimono in una nuova spesa. Essi, perciò, secondo questa impostazione, non possono essere soddisfatti riproducendo ed espandendo ulteriormente lavoro salariato, ma attraverso forme di attività superiori.

I bisogni, e la corrispondente attività produttiva che li soddisfa, assumono inevitabilmente una particolare forma sociale a seconda del grado di sviluppo raggiunto.

Il bisogno espresso attraverso una domanda (denaro) è il bisogno di una generica attività nella quale è precluso qualsiasi elemento personale di chi la eroga e che perciò può essere erogata da chiunque ne abbia le capacità e persino da un congegno automatico che costa meno ed è anche più efficiente. Quindi, il bisogno formulato in forma monetaria e che può generare lavoro, se da un lato riproduce la reciproca dipendenza materiale, dall’altra riproduce la reciproca indifferenza personale.

Il bisogno che viene formulato nell’ambito dei rapporti comunitari contiene invece la conferma del produttore in un suo particolare rapporto personale con colui il cui bisogno deve essere soddisfatto. Ad esempio, il figlio che chiede al padre di accompagnarlo con la sua auto. Il padre non agisce in base al principio del tornaconto personale, descritto a suo tempo da A. Smith(18).

La persona che si rivolge invece al conducente del taxi, si trova difronte un soggetto che fa valere il principio del tornaconto, infatti pretenderà di essere pagato.

Nel primo caso non possiamo certo sostenere che il padre, mentre accompagna il figlio, «sta lavorando», nel caso del tassista diremo invece certamente che «sta lavorando».

Così come per il genitore che gioca con il proprio figlio, non si dirà che questo per lui è «tempo di lavoro», mentre se ci si rivolge a una baby sitter, e questa gioca con il bambino, quest’attività per lei è sicuramente «tempo di lavoro»(19).

La persona che compera offrendo denaro esprime il fatto che il suo bisogno nega l’esistenza di una comunità con colui che soddisfa il bisogno. Con l’offerta di pagamento egli dichiara implicitamente che non c’è nessuna ragione personale che può spingere l’altro a fare ciò che viene chiesto. Tra chi chiede e chi dà c’è indifferenza reciproca – mediata da un rapporto di denaro.

Il bisogno che permette di produrre lavoro non è il bisogno di una particolare attività di uno specifico essere umano, ma di una astratta attività impersonale che, data questa caratteristica, può essere automatizzata e fatta svolgere a congegni meccanici o elettronici. L’attività erogata è un costo, e perciò si pretende un pagamento. Anche chi paga percepisce il prezzo come un costo, e perciò pretende l’attività. Vi è perciò una tendenza intrinseca alla riduzione dei costi, e di conseguenza alla riduzione del lavoro.

L’organizzazione capitalistica della produzione fa di questa minimizzazione dei costi (e al contempo della massimizzazione dei ricavi) il fulcro della sua pratica. Le imprese tendono (attraverso l’innovazione tecnologia) a rendere superflua parte della forza lavoro occupata (riduzione dei costi) e ad impiegarla in altri settori produttivi per massimizzare i ricavi. Quando però emerge una carenza strutturale della domanda, le imprese, per evitare i costi che non si ripagherebbero (perdite), si asterranno dal fare nuovi investimenti, con la conseguenza di una disoccupazione crescente. Le imprese, infatti, in quanto soggetti privati con scopi privati, mettono in moto lavoro solo se esso garantisce loro una ricchezza oggettiva maggiore («plusvalore») di quella che viene consumata nel processo produttivo. Il denaro speso dalle imprese non è usato come reddito, ma è usato come capitale, è usato, cioè, per riprodursi (come capitale) e «figliare» altro denaro. Se gli investimenti non garantiscono questo plusvalore (i profitti) non vengono perciò messi in atto, anzi, nella fase di crisi, vengono ridotti, con l’inevitabile ulteriore aumento della disoccupazione.

 

Lo sviluppo garantito dallo Stato sociale

Attraverso l’intervento dello Stato, riconoscendo da un lato i diritti sociali inseriti nella carta costituzionale e attuando dall’altro lato le politiche keynesiane della spesa pubblica(20), viene garantita un’altra fase di grande sviluppo.

Lo Stato con la spesa pubblica (in deficit)(21) permette alla società di produrre al di là del rapporto di denaro, al di là del rapporto di scambio: compra forza-lavoro e risorse per soddisfare bisogni collettivi, espressi non nella forma della domanda ma in quella dei diritti sociali.

È da sottolineare, inoltre, che in questo modo lo Stato agisce in maniera non solo redistributiva: usa il surplus generato dal settore privato, altrimenti inutilizzato, per finalità produttive alternative. Lo usa per soddisfare bisogni necessari che altrimenti, se lasciati all’interazione privata della domanda e dell’offerta, rimarrebbero del tutto insoddisfatti. E rimarrebbero insoddisfatti perché questi bisogni non garantiscono un profitto.

Nello stesso tempo lo Stato riesce a far tornare risorse nel ciclo attraverso il quale si crea nuova ricchezza (moltiplicatore del reddito).

Si può perciò affermare che «così si presenta una prima rozza forma di lavoro che è un’attività superiore rispetto al puro e semplice lavoro salariato capitalistico e alla semplice produzione di merci, appunto perché viene messa in moto da un intermediario (lo Stato) che, nonostante evochi l’attività attraverso il denaro, la fa poi erogare non già per imporre il pagamento di un valore equivalente, ma per la conferma dei cittadini come titolari di quelli che vengono considerati diritti sociali»(22) e che sono inseriti nella prima parte della nostra Costituzione(23).

Si è trattato in pratica di un vero e proprio rivoluzionamento del modo di produrre e della creazione di nuove forze produttive. E tra queste va inclusa certamente quella particolare forza-lavoro – detta «classe media» – costituita in gran parte dagli impiegati pubblici, i quali per più di un trentennio dopo la Seconda guerra mondiale hanno rappresentato gli unici produttori aggiuntivi rispetto alla struttura occupazionale del dopoguerra.

Sono questi ultimi, specie nel settore della sanità e dell’istruzione, che hanno sperimentato, con l’enorme espansione del terziario dei servizi, il lavoro non dominato dalle cose ma dalla consapevole mediazione fra persone. Una forza produttiva nuova, frutto del sistema del Welfare, e che di fatto ha accresciuto le capacità produttive sociali(24).

Una parte di questa forza è stata definita da alcuni sociologi «ceti medi riflessivi», proprio per mettere in evidenza l’approccio critico di questa classe ai problemi che con lo sviluppo la società è chiamata ad affrontare.

I «lavoratori della conoscenza», parte rilevante di questi «ceti medi riflessivi», sono dunque il prodotto diretto dello sviluppo dello Stato sociale.

 

La Crisi dello Stato sociale

Con l’affermarsi dello Stato sociale si è realizzato un enorme progresso. Ma una volta che quel cambiamento ha prodotto i suoi effetti positivi, siamo entrati in una dimensione nuova dalla quale sono emersi problemi nuovi che richiedono soluzioni nuove.

Con lo sviluppo, proprio perché la domanda (cioè la richiesta di un bene o di un servizio tramite una spesa in denaro) cresce meno che proporzionalmente rispetto al reddito, l’effetto moltiplicativo sul reddito della spesa pubblica si riduce (il moltiplicatore si riduce a livelli irrisori)(25).

Il deficit diventa perciò strutturale, facendo aumentare il debito e aumentare il peso relativo della spesa pubblica sul PIL. Riemerge così la disoccupazione, e comincia ad emergere la lamentela che «i soldi non ci sono», e viene ripetuta la litania «abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità».

In un primo momento le nuove problematiche sono state affrontate con le stesse ricette keynesiane. [Es: il programma di governo del Premier laburista H. Wilson in Inghilterra; il programma del governo Mitterand in Franci; in Italia la legge 285/1977]. Queste ricette non producono più i risultati abituali. Da lì in poi viene attuata una sorta di restaurazione neoliberale con una serie di misure a carattere regressivo (26) che contribuiscono ad aggravare la disoccupazione (27) e a precarizzare il lavoro (28).

 

La contraddizione insita nello sviluppo del lavoro salariato nel settore dei servizi

Tra i vari cambiamenti strutturali intervenuti vi è sicuramente la distribuzione del lavoro tra i vari settori. Mentre l’insieme della forza lavoro impiegata nell’agricoltura e nell’industria copre ormai solo meno di un quarto della forza lavoro totale, e va sempre più calando, nel settore dei servizi copre ormai dal 70% all’80%.

Ma cosa significa «fornire servizi»?

Il lavoratore del settore dei servizi non produce cose destinate successivamente ad altri, ma svolge un’attività che soddisfa immediatamente bisogni. Il valore d’uso non è incorporato in un bene, ma è direttamente contenuto nell’attività.

In ogni caso, quando i rapporti di comunità recedono e si diffonde il rapporto mercantile, i servizi per poter essere erogati da soggetti estranei alla comunità, e assumere dunque la forma sociale di lavoro, devono suscitare necessariamente una domanda solvibile da parte di coloro che li richiedono.

Sono nate così le varie professioni salariate di insegnante, medico, infermiere, nurse, ecc. Si afferma la tendenza ad eliminare l’impronta personale di chi eroga il servizio, il fatto che è l’attività di un particolare individuo. Si finisce per trattare il servizio come un qualsiasi procedimento impersonale a carattere industriale.

Ma i servizi non sono tutti uguali. Se questa spersonalizzazione non crea particolari problemi quando riguarda attività in cui l’elemento impersonale e materiale è prevalente (il bigliettaio, la cassiera, la dattilografa, il postino, ecc,), essa diventa problematica e contraddittoria per quelle attività in cui è invece prevalente la componente personale (il terapeuta, l’insegnante, l’educatore, il medico, ecc.,). In quelle attività in cui, cioè, è essenziale, per soddisfare il bisogno in modo efficace, la risposta umana particolare del singolo soggetto che eroga la prestazione.

Il primo tipo di attività, proprio perché ha connotazione prevalentemente materiale, subisce lo stesso destino dell’agricoltura e dell’industria. La tendenza a ridurre i costi del processo produttivo farà sì che quelle attività siano via via sostituite da macchine (la macchinetta distributrice di biglietti sostituirà il bigliettaio, la cassa automatica la cassiera, la fotocopiatrice la dattilografa, il telefax o la posta elettronica il postino).

Per il secondo tipo di attività, la spersonalizzazione ha un esito inevitabilmente contraddittorio, in quanto la sua caratteristica intrinseca, la quale la rende capace di soddisfare il bisogno, è proprio la particolarità e soggettività di chi la eroga. Si finirebbe per trattare come non umana un’attività che è invece essenzialmente umana. Si finirebbe per voler ridurre un’attività costituita da un insieme ricco e complesso di forze a qualcosa di semplice ed astratto. Si finirebbe per togliere proprio ciò che è coerente con la ricchezza e la complessità del bisogno verso cui è diretta.

Il terapeuta non può essere sostituito dal farmaco psicotropo. L’insegnante non può essere sostituito da un’applicazione (e come sappiamo tutti, in alcuni casi, nemmeno da un altro insegnante, perché «gli insegnanti non sono tutti uguali»). Il medico non può essere sostituito da un robot, ecc.(29).

Cercare di soddisfare il bisogno semplificando e spersonalizzando l’attività crea un corto circuito all’interno del rapporto, facendo sì che l’attività alla fine sia inadeguata a soddisfare il bisogno. È per questo che da qualche decennio anche nel settore dei servizi è diventato molto complicato riprodurre il lavoro, così come è diventato illusorio tentare di rendere più «efficiente» ed adeguato il servizio ricorrendo a forme di incentivi che vanno a premiare il cosiddetto «merito» (30) del singolo.

Del resto, la contraddittorietà e l’inadeguatezza di un’attività che viene resa impersonale e oggettiva risulta evidente proprio nella relazione educativa tra docente e alunno. Il processo di apprendimento, fatto di acquisizione e rielaborazione di saperi, al fine di contribuire anche allo sviluppo del pensiero critico(31), è possibile solo in un rapporto di comunità, in cui le relazioni tra i soggetti risultano vive e feconde, dirette ed immediate, in cui la strumentazione tecnologica può essere sì un utile supporto, sussunto alla relazione stessa, ma non può certo sovrastare, o addirittura sostituire, la relazione stessa (diversamente da come qualcuno ha ipotizzato durante i mesi della DAD). Anzi, proprio durante la DAD l’idea che la trasmissione delle conoscenze sia solo un fatto tecnico nel quale la soggettività delle persone non gioca nessun ruolo essenziale ha mostrato tutti i suoi limiti.

Bisogna prendere coscienza di quanto la ricerca scientifica ha già da tempo acquisito, e cioè che non esiste livello dell’apprendimento nel quale la soggettività non giochi un ruolo essenziale e immediato, e che quindi non si può ridurre l’apprendimento all’acquisizione di una tecnica.

L’apprendimento è sempre ed inevitabilmente un particolare rapporto tra chi ha prodotto conoscenza, chi media il contatto e chi impara. Per evitare lo svuotamento di senso delle varie discipline e la pietrificazione dei saperi nei manuali scolastici, la trasmissione delle conoscenze deve avvenire pertanto in un rapporto dinamico fondato sulle reciproche individualità, cioè sulle particolari esperienze dei soggetti coinvolti.

 

Le azioni sindacali prioritarie

Se si tiene conto di queste considerazioni, l’azione sindacale non può non essere orientata a contrastare quei provvedimenti come, ad esempio, quello relativo al cosiddetto “docente esperto” e i prossimi che la nuova denominazione del ministero prefigura. Questi provvedimenti finalizzati a premiare economicamente i pochi docenti “bravi”, secondo l’ideologia del merito e del tornaconto personale, finiscono per provocare quel corto circuito relazionale di cui sopra.

Questi provvedimenti, infatti, essendo basati sulla competizione tra singoli che operano nell’indifferenza reciproca, entrano in contraddizione con quella che dovrebbe essere la «comunità educante»(32), producendo gravi conseguenze negative proprio sul piano della soddisfazione dei bisogni, alla quale l’apprendimento è finalizzato.

Se questa analisi è corretta, l’azione sindacale, per essere adeguata (e in coerenza con la seconda azione del primo documento congressuale CGIL), deve perseguire in primis una riduzione e una redistribuzione del lavoro (che per il lavoratore della conoscenza è in buona parte il lavoro fatto al di fuori delle ore di insegnamento frontale), senza diminuzioni di salario, attraverso una forte riduzione del numero di alunni per classe. In questo modo si potrebbe liberare spazio per una attività più libera(33) e più coerente con la soggettività di chi la eroga e con i bisogni di coloro a cui è diretta(34).

Nello stesso tempo (coerentemente con la prima azione prioritaria del primo documento congressuale CGIL), cercare di conseguire un consistente aumento dei salari(35), in quanto questi, essendo la forma sociale che permette di partecipare all’appropriazione della ricchezza prodotta, permettono alla forza-lavoro della conoscenza di riprodursi e svilupparsi al livello adeguato delle attuali condizioni socioeconomiche. In coerenza con quanto stabilisce la Costituzione che all’art. 36 afferma che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».


Note
1 – Discorso di Piero Calamandrei, 11 febbraio 1950
2 – Imparare la democrazia, Gustavo Zagrebelsky
3 – Quaderni del carcere, Antonio Gramsci
4 – È anche questo il senso del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
5 – Quaderni del carcere, Antonio Gramsci
6 – Un indicatore della grave regressione culturale che con le varie riforme si è tentano di introdurre nel sistema scolastico è dato dalle Indicazioni nazionali del 2004: esse non prevedevano nell’area scientifica la teoria dell’evoluzione, per lo studio della storia nominavano «la comparsa dell’uomo» (e non la sua «evoluzione») e per la scuola dell’infanzia indicavano di «soffermarsi […]sul senso delle origini della vita […] e dell’esistenza di Dio, a partir dalle diverse risposte elaborate e testimoniate in famiglia e nelle comunità di appartenenza» (!).
7 – L’evoluzione in corso: una tragicommedia di fantasmi, di G. Mazzetti https://www.redistribuireillavoro.it/quaderno-9-2021.html
8 – http://effimera.org/la-dittatura-della-finanza-e-il-mercato-del-gas-di-andrea-fumagalli/
9 – È stato calcolato che i vari canali della comunicazione impongono circa sei ore di pubblicità al giorno, cioè più del normale orario scolastico!
10 – Contro il target, Remo Bassetti
11 – Il capitalismo della sorveglianza, Shoshana Duboff
12 – Con l’entrata in vigore dei Trattai europei la politica monetaria è di esclusiva competenza della BCE, la stessa politica economica e fiscale dei singoli Stati è in gran parte determinata dalla Commissione europea attraverso le sue raccomandazioni, inoltre con la modifica dell’art. 81 imposta dalla stessa Commissione, che ha introdotto il pareggio di Bilancio, è stata resa inattuabile la politica economica di tipo keynesiano.
13 – Nell’UE sono attivi oltre 15.000 lobbisti! La lobby dell’Oil&Gas a Bruxelles ha avuto 113 incontri a porte chiuse con la Commissione europea dall’inizio di febbraio alla fine di settembre, uno ogni due giorni! La Commissione europea, tra dicembre 2019 e maggio 2022, si è incontrata più di 500 volte con rappresentanti dell’industria dei combustibili fossili o con gruppi a cui aderiscono aziende del settore!
14 – Il valore di tutto, Mariana Mazzuccato
15 – Lo Stato siamo noi, Piero Calamandrei
16 – Nelle ultime elezioni politiche il «partito» a maggioranza relativa è quello degli astenuti, 38%!. Se si aggiungono a questo dato le schede bianche e quelle annullate, la percentuale è ancora maggiore. Il partito che ha preso più voti e che con l’attuale legge elettorale avrà, insieme ai suoi alleati, una maggioranza assoluta in Parlamento di quasi il 60% dei seggi, ha conseguito una percentuale di consenso rispetto agli aventi diritto solo del 16%!
17 – Diritto al lavoro, beffa o sfida?, Giovanni Mazzetti.
18 – «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale», Adam Smith, La ricchezza delle nazioni.
19 – Diritto al lavoro, beffa o sfida?, G. Mazzetti
20 – «Perciò ogni volta che ci asteniamo dallo spendere, nonostante accresciamo il nostro margine, diminuiamo quello di qualcun altro; e se la pratica viene seguita da tutti, tutti staremo peggio… Un individuo o un’istituzione o un organismo pubblico che volontariamente e senza necessità tagliano e pospongono la spesa utile, stanno compiendo un atto antisociale». J. M. Keynes, L’assurdità dei sacrifici.
21 – Spesa che però in un primo momento si ripaga con la crescita multipla del reddito nazionale. «Quando si riconosce che la domanda privata può essere al di sotto del necessario, lo Stato, se persegue l’obiettivo del pieno impiego, deve essere pronto a spendere più di quello che raccoglie con le imposte dai cittadini, al fine di usare il lavoro e le altre risorse produttive che altrimenti andrebbero sprecate». Sir William Beveridge Full Employment in A Free Society.
22 – Dieci brevi lezioni di critica dell’economia politica, Giovanni Mazzetti.
23 – Ecco, in sintesi, alcuni dati relativi allo sviluppo favoriti dallo Stato sociale e dalle politiche keynesiane: Per 30 anni (1945 – 1975) la disoccupazione media nei paesi Ocse è sotto il 3%; sviluppo economico e sociale che fa gridare al «miracolo economico»; allungamento della vita media; assistenza medica universale; scomparsa dell’analfabetismo; aumento considerevole delle strutture abitative, aumento dei mezzi di trasporto, elettricità, comunicazioni a distanza, ecc.; in Italia, dal 1948 al 1964 la spesa pubblica cresce del 27%, ma il reddito cresce del 190%! La produzione complessiva viene di fatto generata dalla spesa pubblica.
24 – Il capitale non è un moloch, Rivista del manifesto, L. Cavallaro, G. Mazzetti
25 – «Se è vera la nostra ipotesi che la propensione marginale al consumo [e quindi anche il moltiplicatore] cada sistematicamente via via che ci avviamo al pieno impiego, ne consegue che diventerà sempre più difficile assicurare un aumento dell’occupazione aumentando la spesa in investimenti [pubblici]», J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – UTET pag. 313
26 – Si inizia in Italia nel 1981 con il divorzio della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro e si prosegue successivamente con i Trattati europei che impongono il divieto per la Banca centrale di fornire agli Stati la moneta necessaria a coprire i deficit e a finanziare i loro interventi. Si continua per i decenni successivi ad adottare tutta una serie di provvedimenti regressivi quali: l’aumento delle imposte, i successivi Trattati europei [Patto di stabilità (1997), Six Pack (2011), MES e Fiscal compact (2012)], il vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione – art. 81 Cost. (2012), le varie Riforme strutturali (Jobs act, ecc.), le privatizzazioni dei beni pubblici.
27 – Dai dati diffusi recentemente dalla Fondazione Di Vittorio, il numero reale di disoccupati in Italia è di oltre 4,2 milioni, ovvero molti di più dei 2,3 milioni conteggiati dall’Istat nel 2021. Se si sommano però ai senza lavoro quelli che, non trovando altre occupazioni, sono sottoccupati perché lavorano solo qualche ora a settimana (ma che secondo i criteri dell’Istat risultano invece tra gli occupati), il dato arriva a toccare in termini assoluti i 9 milioni di persone. Il che porta la percentuale di disoccupazione reale ben oltre il 20%!
28 – Simboli di questa restaurazione sono ovviamente R. Reagan e M. Thatcher. Il primo sostenne che «Lo Stato non è la soluzione ma il problema», la seconda che «La società non esiste, esistono solo gli individui»!
29 – Dieci brevi lezioni di critica dell’economia politica, Giovanni Mazzetti
30 – Un esempio, noto a tutti, di provvedimento mistificatorio che nega la complessità dei rapporti è sicuramente quello del bonus merito per la valorizzazione dei docenti, introdotto a suo tempo con la «Buona scuola». Anche la nuova denominazione del Ministero dell’istruzione e del «merito» ripropone questa visione neoliberare, che tende ad escludere e a discriminare.
31 – Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria: Art. 1 (Vita della comunità scolastica) comma 1: La scuola è luogo di formazione e di educazione mediante lo studio, l’acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica.
Art. 24 CCNL 2016-2018: Ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, la scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvata dall’ONU il 20 novembre 1989, e con i principi generali dell’ordinamento italiano.
33 – Detto in altri termini, per garantire quella libertà di insegnamento prevista dall’art. 33 della Costituzione.
34 – «Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria […][quest’ultima] rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa». (Karl Marx – Il Capitale – Libro Terzo).
35 – Da conseguire perciò non con gli incentivi del salario accessorio, ma con aumenti dello stipendio base

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