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Playfication. A partire da “La regola del gioco” di Raffaele Alberto Ventura

di Alessandro De Cesaris

pac man championship edition 2 plus 1Nel 2018 Alessandro Baricco pubblica The Game, un libro basato su una tesi semplice ma efficace: il videogioco è diventato la forma dominante di ogni esperienza degna di nota all’interno delle nostre società. Si tratta di un’idea leggera, apparentemente innocua, che suggerisce un’immagine giocosa e divertente della vita. D’altra parte, a chi non piace giocare ai videogiochi? Cinque anni dopo, Raffaele Alberto Ventura riprende questa idea con toni completamente differenti e ne radicalizza le implicazioni più preoccupanti.

La regola del gioco si presenta come un manuale di comunicazione per l’era dei social, ma l’aspetto più interessante del libro è la visione del mondo che sottende. Ventura resta il teorico della classe disagiata e della guerra di tutti, e nella sua lettura la metafora ludica sprigiona tutta la sua potenza più sinistra: in un mondo dominato dalla scarsità di risorse e dalla corsa alla conquista di beni posizionali, la regola del gioco è la più semplice ma anche la più dura, ovvero che se qualcuno vince, qualcun altro deve perdere. Ma siamo sicuri che questa idea di gioco sia l’unica possibile? E soprattutto, è davvero questa la visione della vita che ci trasmettono i videogiochi?

 

Dal play al game. L’eredità di Don Chisciotte

Per comprendere le premesse della diagnosi di Ventura è utile partire dal suo saggio contenuto in The Game Unplugged, una raccolta di testi pensati a partire dal libro di Baricco e uscita nel 2019. In quelle pagine Don Chisciotte viene indicato come la figura più rappresentativa della metafora del Game, quasi un mito fondatore, se non fosse che la contaminazione tra realtà e gioco è molto più antica del cavaliere dalla triste figura.

In fondo, scrive Ventura, «il Don Chisciotte racconta una storia che è anche la nostra, ovvero la storia di come il mondo è diventato una messa in scena. Anzi – in inglese la parola è la stessa: play – un gioco» (La regola del gioco, p. 10). Proprio questa identificazione di play e game è l’aspetto più problematico del modello offerto da Ventura, ma vorrei arrivarci con calma, cominciando da una domanda più semplice: cosa significa che il mondo è diventato una messa in scena?

Shakespeare lo fa dire al suo Antonio all’inizio del Mercante di Venezia: «Considero il mondo per quello che è, […] una scena dove ciascuno recita la sua parte» (trad. F. Marenco). Si tratta di una tesi classica a cavallo tra XVI e XVII secolo, che confluirà in uno dei più celebri modelli sociologici del ‘900, quello presentato da Erving Goffman nel suo capolavoro del 1956 La vita quotidiana come rappresentazione: lo spazio sociale può essere pensato come una strana forma di palcoscenico senza pubblico, in cui tutti sono al tempo stesso attori e spettatori. Vorrei provare a esprimere questa posizione nella sua forma più semplice: nello spazio sociale siamo tutti immagine. È in quanto immagini che conversiamo con sconosciuti e conoscenti, che interagiamo professionalmente, che svolgiamo le funzioni necessarie a sopravvivere in qualsiasi contesto sociale.

In questo senso, come scrive Ventura, la vita sociale è già sempre contaminata dalla finzione. La condizione contemporanea non sarebbe che una radicalizzazione di questo principio: la realtà non è più un palcoscenico, perché è diventata un livello di un videogioco (per queste due cose la lingua inglese usa la stessa parola: stage). Se trasformiamo il mondo in un videogioco, giocando otteniamo effetti reali. Il gioco diventa «terribilmente serio» (La regola del gioco, p. IX).

Ma è davvero così che funziona lo spazio sociale? Cerchiamo di non prendere l’analogia di Goffman troppo letteralmente: ci troviamo come su un palcoscenico, ma non siamo davvero su un palcoscenico. Infatti, tra le due situazioni c’è una differenza fondamentale: nello spazio sociale siamo costantemente tenuti a ricordarci che le persone sono persone, non immagini, che il loro ruolo sociale non coincide con la loro identità, non la esaurisce. Ridurre gli altri al ruolo che interpretano è una forma di cinismo, e di solito è la scintilla che fa scattare quei comportamenti usualmente bollati come villani (o come crudeli): dimenticare che anche il controllore sul bus è un padre di famiglia, che la docente universitaria che ci esamina ha una vita privata, che il cassiere al supermercato non vive e muore per passare i nostri prodotti sul nastro scorrevole.

È per questo che quella teatrale è solo un’analogia: quando guardo uno spettacolo posso sospendere la mia incredulità e dimenticare l’attore dietro il personaggio. Nello spazio sociale invece – contrariamente a quanto afferma Goffman – non si tratta di “credere” a ciò che vedo, e anzi è importante non far scomparire gli altri (o me stesso) dietro la storia che viene raccontata. Altrimenti si finisce come quel cameriere di cui parla Sartre in L’essere e il nulla: un cameriere troppo solerte, troppo meccanico, troppo calato nel suo personaggio. Agli occhi di chi guarda, una figura del genere risulta fastidiosa, perché non sembra più nemmeno un cameriere, ma qualcuno che gioca a fare il cameriere. Perché «il cameriere non può essere immediatamente cameriere, nel senso in cui questo calamaio è calamaio, o il bicchiere è bicchiere» (J.P. Sartre, L’essere è il nulla).

Insomma, non basta diventare immagine per giocare. Quando giochiamo, infatti, possiamo permetterci – entro certi limiti molto netti – ciò che non possiamo permetterci in società, ovvero considerare gli altri solo in quanto immagini. In una partita di calcio l’avversario è solo un avversario, e sarebbe inaccettabile considerare la persona che c’è dietro – ad esempio, il fatto che è mio fratello e che gli voglio bene.

Di solito un gioco si definisce per le sue regole o per i suoi obiettivi. Io vorrei invece proporre una definizione di gioco un po’ diversa: il gioco è quel modo d’agire straordinario in cui possiamo essere puramente immagine, e interagire con gli altri puramente in quanto immagini.

Questo significa che le regole del gioco non servono solo a stabilire chi vince e chi perde. Le più importanti delimitano i confini del gioco, servono a distinguere chi gioca da chi non gioca, e a stabilire quand’è che il gioco deve fermarsi. Proprio qui possiamo riprendere il discorso sul Don Chisciotte: la follia del personaggio di Cervantes consiste precisamente nel non rispettare queste regole fondamentali, ovvero nel rifiutare la distinzione tra gioco e non-gioco. Don Chisciotte gioca sempre e con tutti, considera sé stesso e gli altri solo in quanto immagini: è un’operazione pericolosa e violenta, che infatti provoca un sacco di danni al protagonista, al suo sventurato scudiero e a tutti coloro che incontrano.

Don Chisciotte è il giocatore totale, perché gioca a un gioco illimitato. Ma che forma ha il suo giocare? Non compete con nessuno, non ha nessun obiettivo se non continuare a essere ciò che è. Anche il suo rapporto con Dulcinea non è segnato da alcun desiderio di conquista: come i cavalieri cortesi, vuole solo restare devoto alla sua amata. L’obiettivo di Don Chisciotte non è superare uno stage, ma restare eternamente sullo stage: non vuole vincere nulla, vuole solo continuare a essere un’immagine tra le immagini. In altri termini: Don Chisciotte è un player, ma non è un gamer (e nemmeno un gambler, per evocare una terza dimensione del gioco, immortalata da Dostoevskij nel suo romanzo).

 

The Name of the Game

Questa descrizione, infatti, è del tutto incompatibile con la logica del game descritta da Ventura. Si tratta di una logica basata su classifiche e punteggi, e su interazioni che sono strutturalmente competitive: nei game si gioca sempre contro qualcosa, che siano gli altri o il gioco stesso. Un game può essere collaborativo, ma è sempre anche competitivo. Non è lo stesso per il play: questo tipo di gioco non è fondato sulla competizione, ma sulla complementarità, sul riconoscimento reciproco dei partecipanti. Nel game si gioca per vincere; nel play si gioca per giocare. Ventura definisce la comunicazione come l’atto di «impiegare dei mezzi linguistici per realizzare dei fini extra-linguistici» (La regola del gioco, p. 4). Dietro questa definizione si nasconde proprio la logica del game: si gioca per vincere, ovvero per ottenere qualcosa che si trova al di là del gioco (fuori dalla finzione). L’idea che si possa comunicare per comunicare non è contemplata.

Questa logica diviene la base di un’intera antropologia, una vera e propria idea di felicità: «Tutto quello che facciamo lo facciamo per ottenere altro, e il piacere che ne traiamo è una proiezione del piacere che avremo, forse, se un giorno riusciremo davvero a ottenere quello che vogliamo. Ma il Game non può lasciarci vincere tutti» (The Game Unplugged, p. 27). In questa definizione – in cui sembrano risuonare le pagine del Leviatano sulla felicità – è proprio la dimensione del play a essere completamente esclusa. Si tratta di un quadro neo-hobbesiano, che descrive la condizione umana come una costante tensione verso altro, anzi, verso un Altro disponibile solo per alcuni.

Il libro di Ventura si presenta come un tentativo di far fronte in modo realistico a questo scenario così duro. Non ha senso guardare dall’altra parte: in un mondo ultracompetitivo, saper comunicare in modo efficace è letteralmente the name of the game, come dicono gli anglofoni, e chi non accetta che le cose stanno così rimarrà semplicemente indietro. Quello che Ventura chiama «l’immaginario giocoso della libertà d’espressione» appare semplicemente anacronistico (La regola del gioco, p. 172). Se non ci si adatta, il game è over.

L’analisi di Ventura ha il grande merito di esplicitare le conseguenze più crude dell’uso spericolato di una metafora apparentemente innocua, quella del game. A partire da Wittgenstein, questa metafora è stata riutilizzata da numerosi pensatori (tra i più recenti, Robert Brandom), che hanno spiegato la comunicazione e l’interazione umana a partire dal baseball e dagli scacchi, senza quasi mai sottolineare un aspetto tanto banale quanto fondamentale: che a scacchi e a baseball si gioca per vincere.

Qui però non parliamo di Wittgenstein, di scacchi o di baseball. Parliamo di videogiochi, e l’assunto fondamentale è che il modello del videogioco abbia radicalizzato questi aspetti della realtà, già presenti da sempre. Seguendo Baricco, il mondo è diventato come un videogioco, e quindi – seguendo Ventura – più competitivo che mai. O no?

 

Playfication

Alessandro Baricco scrive The Game avendo in mente i videogiochi della sua adolescenza: gli arcade, i cabinoni che si potevano trovare nelle sale giochi e in altri luoghi pubblici. Videogiochi assurdamente difficili – perché le partite dovevano durare poco, o il gestore non guadagnava – ed estremamente competitivi: a dominare l’immaginario di quegli anni è la classifica che campeggia sullo schermo prima e dopo ogni partita, una sequela di sigle di tre lettere seguite dal punteggio. In un episodio iconico della serie Seinfeld, George Costanza spende migliaia di dollari per salvare una cabina di Frogger dove campeggia ancora il suo high-score della giovinezza. Senza figli né proprietà, quel primato «è tutto ciò che gli è rimasto».

Quanto sono cambiati i videogiochi da allora? Dai giochi sperimentali indipendenti alle grandi produzioni open world, la competitività è diventata sempre più un aspetto tra altri, spesso una caratteristica solo di alcuni giochi. Giocando ai videogiochi si può passeggiare, comunicare, esplorare. Soprattutto, ci si può divertire giocando male, come accade sull’esilarante canale YouTube Let’s game it out.

Se nel mondo si registra un processo di gamification, paradossalmente è proprio il mercato dei videogiochi a mostrare un’alternativa. È in atto un vero e proprio processo di playfication, una messa tra parentesi di quell’aspetto così ingombrante, la competizione, che aveva definito l’esperienza videoludica nei suoi primi anni.

Anche la competizione, tuttavia, forse ha qualcos’altro da dire. I giochi competitivi sono tanti e bellissimi, ma l’esperienza videoludica non insegna solo a vincere: insegna anche e innanzitutto a saper perdere. Come scrive Jasper Juul nel suo bellissimo The Art of Failure, giocare ai videogiochi è un’esperienza significativa non tanto e non solo perché possiamo vincere, ma anche e soprattutto perché possiamo perdere. Perdere tanto, perdere malissimo, fare della sconfitta un’arte. Questo è il paradosso del libro di Ventura: usare come modello della comunicazione online proprio quell’attività in cui – contrariamente a quanto accade sui social – c’è sempre una seconda chance.

Torniamo all’inizio del libro: viene descritto il fatidico calcio di rigore con cui Roberto Baggio ha segnato la sconfitta dell’Italia ai Mondiali del ‘94. Nel modello di Ventura, Baggio diventa l’epitome del loser, di colui che ha perso il gioco: il suo è il game over più clamoroso e bruciante, ciò che a tutti i costi bisogna evitare.

Trent’anni dopo, stemperata (anche se non del tutto) la bruciante ferita agonistica, possiamo dirlo: Baggio non è diventato leggenda nonostante quel rigore sbagliato, ma per quel rigore sbagliato. Si potrebbe azzardare l’ipotesi che senza quel fatidico errore Baggio non sarebbe entrato nell’immaginario collettivo, perché proprio quell’errore lo ha trasformato in un personaggio tragico. Lo scenario in cui Baggio segna il rigore è forse un game migliore, ma è un play davvero noioso.

Il manuale di Ventura offre delle ottime misure di contenimento in uno scenario descritto accuratamente, ma giudicato inaggirabile. Eppure, già nel libro sono presenti diversi passaggi che potrebbero essere interpretati proprio in questo modo, ovvero come tentativi di sfuggire alla logica del game. Forse esiste un’alternativa al semplice adattamento, forse ci è possibile esercitare una forma più radicale di lotta politica contro la gamification. E forse questa alternativa ce la mostrano proprio i videogiochi: è il momento della playfication.

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