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ilcomunista

Inefficienze e difetti dell’economia sovietica

di Alexander Höbel

29062617 1863373277067169 7761528854794993664 nLa crisi e il crollo dell’URSS sono stati in buona misura la crisi e il crollo dell’economia sovietica. I successi di quest’ultima erano stati notevoli: anche dopo il “grande balzo” dell’industrializzazione staliniana (che portò l’URSS a diventare già nel 1937 la seconda potenza del mondo per produzione industriale)1, i progressi sono stati costanti, almeno fino agli anni ’602. L’economia sovietica era caratterizzata dal predominio dell’industria sull’agricoltura, e dal predominio dell’industria pesante, produttrice di macchine, su quella leggera, produttrice di beni di consumo. Questa “sproporzione” finì per costituire uno dei suoi maggiori problemi3.

L’attenzione degli studiosi peraltro si è focalizzata sul funzionamento interno del sistema pianificato, nel quale – a partire dagli anni ’60 – emergono sempre di più frammentazione e forze centrifughe, interessi settoriali e aziendali: insomma il “dipartimentalismo” e i “localismi”. Di fatto, esistevano “conflittualità tra organi e incompatibilità tra obiettivi e strumenti di piano”: i “ministeri della produzione”, intermediari tra i settori produttivi e l’organo di pianificazione (Gosplan), agivano come “gruppi di interesse”, inducendo il Gosplan ad “apportare correzioni, cioè tagli alle forniture richieste”; queste infatti erano sempre in eccesso rispetto alle esigenze di imprese e settori produttivi, che le gonfiavano in modo da premunirsi da “irregolarità delle consegne, strozzature e tagli delle forniture”. Dunque le informazioni dal basso verso l’alto, essenziali per una corretta pianificazione, erano falsate, oltre che “imprecise, saltuarie e insufficienti”; gli organismi pianificatori, che conoscevano queste tendenze, a loro volta imponevano piani di produzione eccessivi rispetto a risorse e capacità produttive denunciate; e questo induceva i ministeri a sviluppare una rete di forniture parallela, al di fuori del piano e spesso della legge, basata su scambi, favori, corruzione, ecc.4.

In sostanza, i “gruppi di interesse” agivano “contro gli interessi dello stesso piano generale”. Il discorso era analogo passando dai ministeri alle singole imprese: informazioni falsate per avere piani di produzione meno impegnativi, riserve nascoste, forniture extra-piano, costi gonfiati, ecc. Peraltro, “ogni realtà territoriale di una certa rilevanza” esprimeva “inevitabili spinte localistiche”. Ne derivava la “dispersione” e “l’indebolimento dei poteri di direzione”; “veniva ad indebolirsi fortemente lo stesso principio di responsabilità riguardo all’utilizzo economicamente e socialmente valido delle risorse”, e si moltiplicava la “appropriazione particolaristica delle risorse ‘pubbliche’”5. Come osserva Boffa, “quella che doveva essere l’economia più pianificata e controllata [...] per una parte considerevole e, comunque, crescente, sfuggiva a qualsiasi controllo [...]”6.

A tutto ciò si aggiungevano difetti legati alla produzione e alla produttività: il privilegiare la quantità (per realizzare gli obiettivi del piano) a danno della qualità dei prodotti, una manodopera in eccesso e sottoutilizzata (sintomo di una “disoccupazione occulta”), infine una resistenza all’innovazione tecnologica (per non vedere aumentati gli obiettivi del piano)7. E sullo sfondo, il “compromesso corporativo regressivo tra direzione di fabbrica e maestranze”, e quindi la scarsa produttività del lavoro. Si tratta di quel “contratto sociale brezneviano” o “compromesso sovietico”, che consisteva in un tacito accordo tra operai da un lato, e direttori d’impresa e ceto politico dall’altro, per cui a scarsi incentivi materiali corrispondeva una produttività del lavoro scarsa8. Peraltro, “gli incentivi materiali non sono stati accettati volentieri quando mettevano in questione [...] il modo di lavorare abituale”, che implicava “totale sicurezza dell’impiego”, “bassi ritmi di lavoro” ecc.9: aspetti in parte tendenzialmente socialisti, o prematuramente socialisti, rispetto alla necessità di sostenere la competizione col supercompetitivo e capitalistico Occidente.

Notevoli erano anche le rigidità e i limiti tecnici della pianificazione, dalla difficoltà di una efficiente allocazione delle risorse all’inadeguatezza tecnica del “metodo dei bilanci materiali” utilizzato dai ministeri per calcolare le relazioni inputs-outputs, dai limiti di calcolo dei costi di produzione fino al problema del raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta dei beni di consumo, e tra quest’ultima, i prezzi ed i salari. Inoltre, permanendo condizioni di scarsità e difficoltà nella distribuzione, e mancando meccanismi di adeguamento automatico tra domanda e offerta, si verificava spesso uno squilibrio tra massa salariale e offerta di beni di consumo, da cui i fenomeni delle file o degli scaffali vuoti, sintomi di una “inflazione repressa” che sarebbe divenuta “aperta e pericolosa se meccanismi di libero mercato venissero attivati”; come nei fatti è stato. Il problema, in definitiva, legato alla definizione “arbitraria” dei prezzi, consisteva in uno squilibrio tra beni prodotti, prezzi e salari10. Infine, tra i “problemi microeconomici”, c’era la mancanza di rigidi vincoli di bilancio per le imprese che, non temendo di fallire in quanto sostenute dallo Stato, non puntavano eccessivamente sulla redditività dei propri investimenti; dal che seguiva sia la resistenza all’innovazione tecnologica, sia lo spreco di risorse e beni11. Tutto ciò condusse ad una crisi di redditività degli investimenti dello Stato, che sarà fatale: il sistema cioè evitava crisi cicliche e fallimenti aziendali, ma “al costo di giungere assai più rapidamente e coerentemente alla propria fine”. In questo senso, come scrive Catone, “l’economia sovietica del periodo brezhneviano ha rimosso una razionalità capitalistica senza [...] aver costruito una nuova razionalità socialista”12.

 

Il fallimento dei tentativi di riforma

I problemi economici che abbiamo visto sono stati più volte oggetto di tentativi di riforma. I principali tentativi risalgono a Krusciov e alle riforme di Kosygin degli anni ’60. Le riforme kruscioviane riguardarono l’organizzazione dell’economia: in un quadro di decentramento, furono istituiti i sovnarchozy (centri di pianificazione regionali) e vari ministeri furono aboliti; si intendeva così superare un modello organizzativo verticale, attraverso organi di coordinamento che stimolassero anche le relazioni fra le imprese. Ne derivò però il rafforzarsi delle “tendenze campanilistiche”: il risultato fu quello di “sostituire lo ‘spirito di parrocchia’ dell’amministrazione locale alla ‘lieve tutela’ dei ministeri, e l’esperimento fu abbandonato ovunque”13. Secondo A. Nove, l’istituzione dei sovnarchozy produsse il moltiplicarsi di enti da cui dipendevano le forniture di materie prime e semilavorati per l’industria, il che complicava la realizzazione del piano: non c’era più un solo organo responsabile, cosicché alla fine non era responsabile alcuno; nelle repubbliche più grandi, vigeva una “pianificazione a doppio binario”14.

Il secondo importante tentativo riformistico fu la “riforma dell’impresa” di Kosygin (1965), i cui obiettivi erano il “miglioramento della pianificazione” e il “rafforzamento dello stimolo economico della produzione”: a tali fini, occorreva ridurre il numero degli “indici imperativi” pianificati centralmente, introdurre altri indici di produttività oltre a quelli quantitativi, lasciare parte degli utili all’impresa. Secondo R. di Leo, anche questa riforma ebbe un “esito fallimentare”: ponendo la questione di un “rapporto orizzontale tra le aziende”, ebbe “effetti di rimbalzo sul resto dell’ingranaggio [...] tali che il partito-stato tornò al centralismo verticale [...]”. D’altra parte, la riforma lasciava immutato il resto del sistema, e in particolare il meccanismo di formazione dei prezzi e la pianificazione elaborata “in grandezze fisiche” piuttosto che in termini finanziari. Anche per Catone, la riforma “aggrava i problemi dell’economia sovietica. Le imprese acquisiscono un potere monopolistico che prima non avevano, ma non migliorano la qualità della produzione”. Per Ellman e Kontorovich, le riforme del 1965 “danneggiarono l’organicità del sistema di comando, affrettandone la fine”15. In questo senso, il “riformismo comunista” sarebbe fallito non tanto perché “bloccato” ma proprio in quanto avrebbe effettivamente realizzato alcune innovazioni, rivelatesi però incompatibili col funzionamento del sistema.

 

La “doppia economia”

Veniamo ora al problema della “doppia economia”, ossia alla convivenza dell’economia ufficiale con l’“economia ombra” o “seconda economia”16. Questa, essenzialmente un circuito mercantile a fronte di un’economia pianificata, è stata generata dalle carenze di quest’ultima; ma era anche un’eredità della struttura sociale pre-rivoluzionaria. Giustamente il Manuale di economia politica apparso in URSS negli anni ’50 affermava che “la costruzione del socialismo” non può fondarsi “su due basi differenti” – ad esempio sull’“industria socialista più grande e più unificata” e “un’economia contadina di piccola produzione mercantile dispersa e arretrata” – “per un periodo relativamente lungo”. Mao commentava che in URSS “il periodo di coesistenza” era “durato troppo a lungo”17. Il Paese cioè si reggeva su due sistemi di proprietà potenzialmente antagonistici. L’esistenza delle “piccole aziende familiari”, ossia degli appezzamenti privati dei contadini colcosiani, e dei “mercati colcosiani”, provocava scompensi economici notevoli. Infatti, tempo di lavoro e produttività aumentavano nel piccolo appezzamento privato, diminuendo in quello collettivo o statale. Esisteva inoltre una “coesistenza antagonista del piano e del mercato”, per certi versi inevitabile nel periodo di transizione18. Scrive nel ’69 Sweezy:

I rapporti mercantili [...] sono inevitabili, per un lungo periodo di tempo, nel socialismo, ma costituiscono un pericolo permanente per il sistema e, se non contenuti e controllati, condurranno alla degenerazione e alla regressione.

[...] La contraddizione mercato-piano non è una contraddizione assoluta nel senso che le due forze non possano esistere affiancate; è una contraddizione nel senso che [...] sono in opposizione l’una all’altra e [...] costrette a una incessante lotta per il predominio. Il problema qui non è tanto quanto estensivamente si ricorra al mercato, ma fino a che punto si ricorre al mercato quale regolatore indipendente19.

In questo senso, la “rottura” avviene nella fase post-staliniana, con Krusciov e più ancora con Breznev. Si produce allora una crisi della pianificazione centralizzata: i processi di decentramento amministrativo e gestionale vi entrano in contrasto; ma soprattutto essa è ostacolata dai crescenti scambi economici di tipo privatistico tra imprese, ministeri ecc., ossia da un mercato di materie prime e mezzi di produzione, accanto a cui si sviluppa una sempre più ampia dinamica di mercato nel settore dei generi alimentari e di consumo. Emerge così una “economia ombra” che mette in crisi la pianificazione, e innesca una spirale di illegalità diffusa, connivenze e corruzione, che a sua volta fa sorgere “mafie” locali e nazionali20. Insomma, fenomeni disgregativi dell’economia pianificata si inseriscono nelle crepe di quest’ultima, contribuendo a tenerla in piedi nel breve periodo, ma in realtà “scavandole la fossa”21. A ciò si aggiunga, nelle zone periferiche dell’URSS (Asia centrale ecc.), un’“economia informale su vasta scala non controllata dallo Stato”, fondata su legami familiari ed etnici: “zone franche” in cui si sviluppavano rapporti di mercato, peraltro piuttosto primitivi, “economie familiari contadine” e “pratiche illegali”22.

Dunque il processo inizia negli anni ’60: è allora che “le aspettative della gente vennero percepite sempre più come legittime, e le iniziative economiche informali che nascevano per soddisfarle apparvero la soluzione di minor rischio”, per cui “le autorità [...] cominciarono a chiudere gli occhi sull’economia-ombra”. Inoltre l’ampio ricorso all’incentivazione materiale aumentò la “monetizzazione dell’economia domestica”, legittimando nuovi valori. La riforma del 1965 segnò “la pubblica accettazione della coesistenza tra l’organizzazione economica di tipo sovietico e l’impresa contadino-familiare, non più considerata compromesso transitorio a latere del socialismo realizzato, ma presenza operante dentro di esso”, mentre la Costituzione del ’77 riammetteva le “attività artigianali e commerciali private”23. Le “norme meno rigide sulle piccole attività economiche private [...] crearono nuove opportunità [...] di crearsi un reddito supplementare [...] grazie a un ‘secondo lavoro’ o [...] un’attività privata a tempo pieno”24. L’“inserimento di faccende personali nell’orario di lavoro, con l’impiego di valori di proprietà sociale per uso privato” contribuì al consolidarsi di “una seconda economia negli ‘interstizi’ di quella centralizzata”25.

“A metà degli anni ’70 non si poteva più parlare [...] della pianificazione come qualcosa di realmente funzionante”; gli scambi di semilavorati e materie prime avvenivano “sulla base ora di rapporti di forza fra settore e settore, e azienda e azienda, ora di meccanismi spontanei, e cioè sempre al di fuori di ogni idea di piano”. Le imprese svilupparono “una loro particolare economia parallela”, accumulando più risorse del necessario “per poterle poi scambiare vantaggiosamente”26. Del resto, la formazione di un mercato parallelo dei mezzi di produzione era conseguenza “inevitabile” dell’“introduzione del principio di redditività delle singole imprese”, specie in una situazione di “penuria relativa” come quella sovietica27. Alcuni lavori, specie nell’edilizia, erano appaltati a “squadre speciali” di lavoratori in sovrannumero, al di fuori del circuito ufficiale; “e dal momento che il materiale usato era sottratto alla sua legittima destinazione, esisteva necessariamente un giro vorticoso di furti [...] e di corruzione [...]”28. In generale, “l’economia-ombra era basata sulla corruzione e il ladrocinio o furto su larga scala della proprietà statale”, con “una cooperazione nascosta” tra la nascente ‘mafia’ e settori della nomenklatura, e il formarsi di una nuova “categoria di intermediari”; insomma, fu “un enorme parassitismo” “sul corpo dell’economia di Stato”29. Essa contribuì ad aggravarne i difetti dell’economia pianificata e a costituire una proto-borghesia para-criminale, poi tra i protagonisti della disgregazione dell’URSS.


Note
1 Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, cit., vol. 1, p. 209.
2 Cfr. M. Dobb, Storia dell’economia sovietica, Editori Riuniti 1976; A. Nove, Storia economica dell’Unione Sovietica, Utet 1970.
3 E. Mandel, La natura sociale dell’economia sovietica, “Alternative”, 1996, n. 5-6, pp. 39-41.
4 Malle, Sistemi economici comparati, cit., pp. 136-139.
5 M. Ruzzene, Governo e pianificazione della produzione sociale, “Alternative”, 1996, n. 5-6, pp. 105-111.
6 Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., p. 86.
7 Ch. Bettelheim, La specificità del capitalismo in URSS, “Alternative”, 1996 n. 5-6, in Ch. Bettelheim, P.M. Sweezy, Il socialismo irrealizzato, Editori Riuniti 1992, p. 108; Malle, op. cit., pp. 146-149.
8Cfr. L.J. Cook, The Soviet Social Contract and Why It Failed. Welfare Policy and Workers’ Politics from Brezhnev to Yeltsin, Harvard University Press 1993; AA.VV., Il compromesso sovietico, Feltrinelli 1977.
9 W. Brus, citato in A. Natoli, Le radici di un’alienazione totale, “il bimestrale”, suppl. a “il manifesto”, 29 marzo 1989, p. 59.
10 Malle, op. cit., pp. 166-167, 172-178, 186; R. di Leo, Il modello di Stalin. Il rapporto politica-economia nel socialismo realizzato, Feltrinelli 1977, p. 63.
11Malle, op. cit., pp. 193-195; Aganbegjan, Il futuro dell’economia sovietica, cit., pp. 36-38, 49-50.
12 Giussani, La crisi dell’economia sovietica e le sue prospettive, in Giussani-Peregalli, Il declino dell’URSS…, cit., pp. 26-27; Catone, La transizione bloccata…, cit., p. 231.
13 N. Ruzavaeva, La politica economica dagli anni Sessanta alla prima metà degli anni Ottanta: contraddizioni e difficoltà dello sviluppo, in AA.VV., Problemi di storia russa e sovietica, Edizioni Progress 1991, pp. 204-205; M. Lavigne, The Economics of Transition. From Socialist Economy to Market Economy, Macmillan 1995, p. 6.
14 A. Nove, Stalinismo e antistalinismo nell’economia sovietica, Einaudi 1968, pp. 111-115, 120-122.
15 R. di Leo, L’economia sovietica tra crisi e riforme (1965-1982), Liguori 1983, pp. 17, 31-39, 50-51; Catone, op. cit., p. 165; G.M. Ellman, V. Kontorovich, Overview, in AA.VV., in AA.VV., The disintegration of the Soviet economic system, Routledge 1992, p. 14.
16Cfr. G. Grossman, The second Economy of the USSR, “Problems of Communism”, sept.-oct. 1977.
17 Cfr. Mao Tse-tung, Note di lettura sul “Manuale di economia politica dell’Unione Sovietica”, cit., pp. 53-54.
18 Mandel, La natura sociale dell’economia sovietica, cit., pp. 38-39 (corsivo mio).
19 P.M. Sweezy, Risposta a Charles Bettelheim [1969], in Sweezy-Bettelheim, Il socialismo irrealizzato, cit., pp. 29-30.
20 Cfr. di Leo, Il modello di Stalin…, cit., cap. 5 e Conclusioni; Boffa, Storia…, cit., vol. 4, pp. 373-374.
21 Bettelheim, La specificità del capitalismo in URSS, cit., p. 119.
22 M. Buttino, General Introduction, in AA.VV., In a Collapsing Empire. Underdevelopement, Ethnic Conflicts and Nationalisms in the Soviet Union (a cura di M. Buttino), Annali Feltrinelli 1992, pp. XVII-XVIII.
23 di Leo, Vecchi quadri e nuovi politici…, cit., pp. 49, 56-60; Il modello di Stalin…, cit., pp. 92, 137.
24 I. Szelenyi, Verso un capitalismo manageriale?, “Lettera internazionale”, 1996, n. 48, p. 22.
25 Cfr. A. Natoli, La fine del modello staliniano, “Marx 101”, febbraio 1991, p. 66; Le radici di un’alienazione totale, cit., p. 59.
26 A. Guerra, Il crollo dell’impero sovietico, Editori Riuniti 1996, pp. 177-179; Boffa, Dall’URSS alla Russia, cit., p. 86.
27 Mandel, La natura sociale dell’economia sovietica, cit., p. 43.
28 K.S. Karol, Un conflitto occulto, in AA.VV., Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri 1995, p. 269.
29 Lavigne, The Economics of Transition, cit., pp. 9-10; Peregalli, La parabola…, cit., pp. 73-76. Corsivi miei.

Comments

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Alexander Hobel
Tuesday, 08 October 2019 15:17
Non intendo intervenire nella polemica qui suscitata. Voglio però precisare che questo mio pezzo pubblicato dal sito "Il comunista" non è un articolo scritto ora, ma uno stralcio di una mia relazione al convegno sui Problemi della transizione al socialismo in Urss e pubblicata nel volume degli atti da la Città del Sole nel 2004. Questo spiega come mai i testi citati non siano recentissimi. In ogni caso il mio contributo intendeva mettere in luce i fattori del crollo, e dunque i problemi e gli aspetti critici più che i successi dell'economia sovietica, che non sarò certo io a negare, ci mancherebbe, ma non erano il focus del testo. sarebbe stato opportuno da parte dei compagni del "Comunista" precisare fonte e contesto da cui era tratto lo stralcio pubblicato, anche per evitare spiacevoli fraintendimenti. Il saggio integrale si può leggere qui: https://www.academia.edu/612485/Il_crollo_dell_Unione_Sovietica._Fattori_di_crisi_e_interpretazioni
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ab
Wednesday, 18 September 2019 12:29
Se Marx avesse avuto modo di conoscere l’Unione Sovietica penso che l’avrebbe apprezzata. Se non altro per il quasi totale disinteresse di un popolo, e di un partito, capaci di darsi tanto da fare per settant’anni in cambio di quasi niente.
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Eros Barone
Monday, 16 September 2019 00:13
Evocare, come fa l’autore dell’articolo qui discusso, la “sproporzione” tra industria produttrice di beni di produzione e industria produttrice di beni di consumo quale causa della crisi economica del sistema sovietico significa riproporre la visione gradualista e mercantilista di Bucharin, prescindendo del tutto dalla dinamica della lotta di classe che continua a svolgersi nella società socialista e che assume molteplici manifestazioni. Un aspetto fondamentale della lotta di classe – la lotta sul ‘terzo fronte’ di engelsiana memoria – è, per l’appunto, la lotta per l’egemonia della concezione comunista. E su questo terreno strategico il moderno revisionismo non ha mancato di esplicare la sua azione disgregante. Ciò si può constatare con particolare evidenza prendendo in considerazione la problematica inerente al “sistema dei bisogni”. E’ noto che esistono molti esempi che dimostrano come il “sistema dei bisogni” che caratterizza i paesi più avanzati sotto il profilo tecnologico ed economico rappresenti un modello per i paesi meno avanzati. Marx era ben consapevole di tale meccanismo mimetico e proprio per questo concepiva la realizzazione del comunismo come strettamente connessa ad un alto livello di sviluppo delle forze produttive e ad una prospettiva storico-mondiale, in quanto solo un siffatto sviluppo e una siffatta prospettiva sono in grado di garantire il soddisfacimento multilaterale, quindi non solo estensivo ma anche intensivo, dei bisogni materiali. Giovandosi della ‘terza rivoluzione’ tecnologica, microelettronica ed informatica, e di una sistema globale di produzione e di scambio, il capitalismo monopolistico è stato, ed è tuttora, in grado di produrre un’enorme offerta di merci, con cui esso plasma ed orienta i bisogni della popolazione. Naturalmente, il capitalismo monopolistico può fare questo non solo al prezzo di uno sviluppo unilaterale delle capacità umane, ma anche e soprattutto al prezzo di una crescente contaminazione della natura e dello sfruttamento spietato di vasti strati sociali e di interi popoli, ossia di quei soggetti che, pur producendo la ricchezza, sono esclusi dal suo godimento. Orbene, le società socialiste si basavano storicamente su un altro sistema di bisogni, ma persero la battaglia per l’egemonia poiché non riuscirono a depotenziare la seduzione di massa esercitata da un modello socio-economico, quale è quello instaurato dal capitalismo monopolistico, che riduce la ricchezza al godimento consumistico. Imboccando la strada della competizione economica fra i due sistemi, riassunta nella parola d’ordine “raggiungere e superare”, i paesi socialisti in cui, dopo la morte di Stalin, il moderno revisionismo era giunto a impadronirsi del potere politico di Stato, per un verso non poterono valorizzare in misura adeguata il modello socialista fondato su avanzate conquiste sociali e culturali, mentre per un altro verso, essendo impegnati prima nello sforzo dell’emulazione e poi nel raggiungimento dell’equilibrio militare a livello degli armamenti termonucleari, si trovarono a dover fronteggiare, oltre all’‘hard power’ dell’imperialismo, il ‘soft power’ di esso imperialismo a livello dei modelli produttivi orientati sui ‘consumi individuali di massa’. Ma, una volta imboccata quella strada, la conseguenza inevitabile era la rinuncia a costruire un’alternativa orientata da una concezione comunista del mondo, vale a dire dalla negazione determinata del modello capitalistico: quell’alternativa che il Partito socialista unificato della Germania democratica (SED) aveva riassunto nella parola d’ordine “superare senza raggiungere”. Fu così che, persa la battaglia per l’egemonia della classe operaia, si aprirono varchi sempre più ampi all’infiltrazione delle ideologie borghesi e ad una progressiva penetrazione e affermazione di moduli e modelli neopositivisti, chiaramente desunti dalle scienze dei paesi occidentali e quindi improntati ad una crescente parcellizzazione della conoscenza, laddove l’aspetto negativo non era costituito dall’interscambio, senza il quale la scienza non è possibile, ma dall’abbandono del punto di vista critico e, nel contempo, unificante rappresentato dalla teoria marxista, dapprima schematizzata, poi immiserita e infine sostituita dalla passiva ricezione delle interpretazioni borghesi associate a conoscenze, per altri versi, utili e necessarie, ma poste assai spesso sotto l'egemonia filosofica dell'irrazionalismo. Riproporre oggi il marxismo come teoria di portata complessiva, “totalitaria” nell’accezione gramsciana, significa pertanto non solo cogliere un aspetto sovrastrutturale che ha contribuito a determinare la sconfitta di un certo numero di esperienze di costruzione del socialismo, non solo individuare un ‘momento’ essenziale del moderno revisionismo che si esprime perfino in posizioni verbalmente o formalmente ad esso opposte, ma anche elaborare una concezione scientifica del mondo, quindi una concezione fondata sugli interessi universali della specie umana e sugli interessi collettivi della popolazione (non su quelli di alcuni individui), combattendo la tendenza a disintegrare la coscienza sociale in una miriade di scelte arbitrarie spacciate come manifestazioni di libertà. Se dunque il pluralismo, l'eclettismo e la confusione sono strategie funzionali alla difesa dell’egemonia di classe della borghesia, il marxismo non può che contrapporsi ad esse in nome di una concezione ‘totalitaria’ fondata sul carattere universale della razionalità scientifica. E’ il contrario di ciò che avviene oggi con l’ideologia borghese, la quale, dovendo negare e combattere contenuti essenziali della sua stessa tradizione, dà luogo a quella crisi di senso e di valori che si trascina, sempre più stancamente e sempre più sterilmente, a partire dalla ‘Nietzsche-Renaissance’ fino alle attuali correnti ‘postmoderne’.
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Mario Galati
Sunday, 15 September 2019 17:11
Da una tardiva rilettura vedo che ho scritto "necessità" invece di "capacità" nel principio del comunismo. Chiedo venia.
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Mario Galati
Sunday, 15 September 2019 13:54
Il socialismo in un paese solo non significa che il paese del socialismo non appartenga alla realtà mondiale, internazionale, come contraddizione entro una totalità. In tal senso ha ragione Claudio Della Volpe (non nel senso complottista, ovviamente), salvo che il ragionamento di Bordiga e Trotzki non si limitava a questo riconoscimento, ma negava il procedere dialettico e contraddittorio, non unilineare, della strada verso il socialismo, la quale non viene percorsa con avanzata uniforme e contemporanea dal proletariato mondiale, ma prevede tappe diverse e tortuose in segmenti diversi della realtà mondiale, anche a causa della legge dello sviluppo ineguale (in questa situazione, sarebbe lecito applicare alla posizione dell’URSS nel sistema mondiale il concetto di “contraddizione complementare asimmetrica”, suggerito da Eros Barone per la posizione della classe proletaria nel sistema capitalistico? Non si tratterebbe altro che della lotta di classe sul piano internazionale). L’Unione Sovietica è stata una di queste tappe, che era giusto e inevitabile percorrere (una lotta non si intraprende soltanto quando si è certi di vincere. E in ogni caso, sconfitta non significa fallimento: si lasciano sempre delle tracce e un’eredità nella realtà rinnovata e da rinnovare). Ma essa non era un’isola che doveva confrontarsi soltanto con l’ostilità politica e militare del mondo capitalistico e con la propaganda ideologica esplicita dell’avversario; era una realtà che doveva confrontarsi con l’insieme dei rapporti capitalistici dominanti il quadro mondiale (esterni. E con il retaggio capitalistico, e precapitalistico, interno), con la forza della produzione capitalistica e con l’influenza dei suoi valori, dai quali l’emancipazione è un processo lungo. La logica della merce e dei bisogni indotti influenzava ancora la società socialista. Basti pensare a come molti sovietici desiderassero beni di consumo superflui e simbolici come i jeans (anche se ciò conviveva con un’innegabile costruzione antropologica alternativa).
Tenendo conto di ciò, quando Alessandro Hobel considera l’inefficienza del sistema secondo parametri economici e capitalistici (il “raggiungere per superare” criticato da Eros Barone. Criticato giustamente se fosse fine a se stesso) dimostra di fare realisticamente i conti con il quadro del tempo e con la fase socialista, non comunista, in un paese circondato all’esterno e non uscito interamente al suo interno da una realtà capitalistica. Non mi sembra un cedimento revisionistico. Anzi, mi sembra che Hobel critichi la disgregazione della pianificazione e le spinte centrifughe che, alla lunga, hanno aperto le crepe che hanno condotto alla fine. Gli anni di Gorbaciov non vengono dal nulla. Non credo che possiamo periodizzare la storia sovietica nella semplice bipartizione prima e dopo Gorbaciov. La base materiale, anche di ceti e di classe, non solo la base ideologica (il revisionismo), che ha portato a Gorbaciov si è creata prima, come cerca di argomentare Hobel.
Non l’abbandono dei valori qualitativi comunistici (comunistici, non socialistici) per i valori quantitativi capitalistici avrebbe determinato la fine dell’URSS, ma l’inefficienza socialistica (la fase di transizione socialista non è ancora il comunismo e in essa la logica capitalistica non è ancora superata ed estinta. Con essa bisogna farci i conti). L’improduttività del lavoro (il lavoratore che poteva assentarsi impunemente, per es.) esprimeva sì lo scostamento dallo sfruttamento e dall’oppressione capitalistica, ma anche l’irresponsabilità sociale nei confronti del percorso socialista e della lotta/confronto della propria società socialista con il mondo capitalistico. La mancanza di incentivi materiali, per es., si discosta dal principio socialista (ancora borghese) “da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro” (che non è ancora, chiaramente, il principio comunista “da ciascuno secondo le proprie necessità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”). Lo slancio del periodo staliniano che aveva consentito di mettere da parte questi principi borghesi non c’era più. L’esaurimento dello slancio e dell’entusiasmo doveva essere compensato con meccanismi di sistema stabili per un certo periodo. Quando Kruscev dichiarava che ormai si era nella fase della costruzione del comunismo, oltre il socialismo, si dimostrava leggero e irresponsabile.
Al netto delle fonti utilizzate, dirette o indirette, recenti o datate e superate, su cui Paolo Selmi è sicuramente competente, mi sembra che Hobel individui la causa della caduta dell’URSS in un deficit di socialismo (sottolineo: di socialismo, non di comunismo), non in un suo eccesso. Ossia in un deficit di pianificazione, controllo e direzione centralizzata (che non vuol dire burocratica) dei processi economici. I settori e i meccanismi di mercato, che potrebbero essere presenti in un’economia socialista, sfuggirono, o furono sottratti, al controllo e alla direzione socialista, compromettendo il sistema. L’autonomia e la redditività d’impresa introdotta minarono la pianificazione e il controllo (e favorirono la crescita del mercato parallelo fuori controllo). Tutto ciò danneggiò l’efficienza (anche in senso capitalistico) del sistema e creò quei ceti che avrebbero depredato la ricchezza pubblica e affossato l’URSS.
Certo, ci sarebbero altri fattori da considerare, come la corsa agli armamenti cui l’URSS fu costretta e che la obbligò a deviare molte risorse in quel settore “improduttivo” per una economia socialista (mentre per un’economia capitalistica è fattore di crescita e di risposta alla sua crisi. Senza considerare il fatto che i paesi capitalistici disponevano del sovrappiù di risorse sottratte al mondo colonizzato).
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Eros Barone
Sunday, 15 September 2019 12:23
Mi scusi, Claudio Della Volpe: ma secondo Lei la lotta di classe è "un complotto"? Non aggiungo altro perché con simili categorie non è possibile discutere. Come afferma la nota massima, "contra negantes principia non est disputandum".
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Paolo Selmi
Sunday, 15 September 2019 11:32
Caro Claudio,
grazie invece per il tuo contributo alla discussione, che sta diventando sempre più interessante grazie proprio ai commenti di ognuno, più che ai copia-incolla del saggio, tesi a "dire cose vecchie con il vestito vecchio" (mi perdoni Francesco ma, se può costituire attenuante, tutte le volte che l'ho strimpellata l'ho sempre cantata giusta!): mi piacerebbe poi che si dichiarasse apertamente il motivo per cui il "comunista" ha speso energie e tempo per infierire sulle ossa (che quelle dopo trent'anni son rimaste) del cadavere dell'URSS. Un'idea ce l'avrei, a proposito, ma non è interessante ai fini di quanto ci stiamo dicendo.

Vorrei anzi tutto dipanare ogni dubbio, che se ti è venuto, significa che nella verve polemica mi sono espresso da cani, e mi scuso: delle contraddizioni in URSS non solo ho presente l'esistenza, ma non passa giorno che continui ad approfondirle; sto infatti chiudendo questo benedetto IV capitolo e, per dotare la traduzione di Syroezin di un minimo apparato analitico a supporto, sto traducendo in parallelo materiali, che aiutano anzi tutto me ad avere un quadro il più possibile preciso e rigoroso della allora posta in gioco.

Tornando al vandalo e al cadavere di prima, io sto cercando di ricostruire l'accaduto, partendo dall'esame dei resti e, restando in tema archeologico (che è stato per anni il lavoro di mio fratello prima che diventasse insegnante), del cosiddetto "corredo funebre". Un corredo ricchissimo: davvero, non passa giorno che qualcuno non passi allo scanner un libro pubblicato dal 1917 al 1991, di qualsiasi fatta, su qualsiasi argomento. Rubo il mestiere a mio fratello e, compiendo un lavoro rigoroso sulle fonti PRIMARIE, cerco concordanze, ripetizioni, analogie che mi consentano (tornando alle mie montagne) di mettere un paletto sulla roccia e cominciare a tirargli due colpi di martello, non troppo forte perché poi se non va bene, a tirarlo fuori si fa più fatica: saranno i successivi riscontri a permettermi di picchiare più forte su quel paletto e a consentirmi di agganciare il moschettone per appendermi e puntare più in alto.

Già il fatto che mi stia muovendo non dritto come un tram, ma come su un campo minato o sulla parete nord dell'Eiger, ti può far capire come sia conscio del problema. A scanso di equivoci, davvero, ho iniziato questa fatica dedicando il lavoro proprio a chi vide, in quei terribili anni della perestrojka, il mondo crollargli addosso, entrando immediatamente "in medias res" con la traduzione di un brano dell'epoca, che ben riassumeva il disorientamento di quadri nazionali che non ci stavano capendo più nulla (figurarsi quindi il popolo). Lo trovi nella prima parte già pubblicata, ma per comodità ti giro la puntata pubblicata qui su sinistrainrete:
https://sinistrainrete.info/teoria/13266-paolo-selmi-riportando-tutto-a-casa-osare-l-impossibile.html

Tutta la parte analitica del libro che sto traducendo va inoltre in tal senso, a parte il fatto stesso che anche Syroezin non faccia sconti o dispensi critiche al passato e all'esistente. Spesso, anzi, seguo le la sua traccia per approfondire quanto riportato da altri autori sull'argomento, nel bene e nel male.

Sia chiaro, quanto riportato da Alexander rappresenta il copione classico, il canovaccio su cui si costruisce, teatralizzandola ciascuno a suo piacimento, la tragedia sovietica, ovviamente a uso e consumo di chi si accontenti di andare a teatro per liquidare la questione, magari nella convinzione che tale gesto produca un insperato effetto catartico.

Tornare per me sul luogo del delitto significa non tanto negare l'economia ombra, o la burocratizzazione della res economica, vivendo in un Paese dove colossi come Alitalia, Finmeccanica e Atlantia viaggiano agevolmente sulla seconda lunghezza d'onda oppure, ogni tanto, per tornare al primo punto, ti capita di leggere cose del genere: "Nel 2016, l’economia non osservata (sommerso economico e attività illegali) vale circa 210 miliardi di euro, pari al 12,4% del Pil. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, quello connesso alle attività illegali (incluso l’indotto) a circa 18 miliardi." (https://www.istat.it/it/archivio/222223)

Tornare per me sul luogo del delitto significa, anzi tutto, capire cosa è successo. A trentacinque anni di distanza dall'inizio della fine, dalla cosiddetta "ristrutturazione", il quadro appare sempre più chiaramente: NONOSTANTE i problemi evidenziati, il sistema funzionava, anzi, la macchina girava a tal punto da ASSORBIRE "inefficienze" e contraddizioni. Ovviamente, nessuno può pensare di continuare ad andare avanti trascinandosi dietro un fardello che diventa sempre più pesante. Il problema è che, chi si trovò al potere a metà degli anni Ottanta, usò la lotta alla corruzione per introdurre l'economia di mercato, ovvero, la possibilità di accumulazione capitalistica, facendo così saltare tutto. Il problema non era di chi faceva il secondo lavoro prendendo uno stipendio da statale e poi arrotondando (o raddoppiando) in nero. L'Italia sarebbe fallita non so quante volte. Il problema fu, per esempio, che un'economia come quella sovietica a metà degli anni Settanta vide crescere il suo deficit e, a differenza di tutti gli altri Paesi capitalistici più o meno grandi (da USA e RPC al nostro belpaese), non era attrezzata per gestire una situazione di bilancio in deficit: anche lì, non bisogna dare la colpa allo shock petrolifero o, meglio, solo a quella. La colpa, come ormai sta emergendo man mano che i criminali al potere allora ci stanno anagraficamente salutando tutti, è di chi, a un certo punto, ha detto il classico "ma chi ce lo fa fare quando un "collega" allo stesso posto mio ma dall'altra parte del mondo non si accontenta di ziguli e dacia ma va in giro col ferrari, ha la barca da venti metri e quattro ville di proprietà e venti di rappresentanza".

Pensiero legittimo, per l'amor del cielo, "ljudi kak ljudi", avrebbe detto Woland, Caianiello docet. Il problema è che in URSS non solo non avevano una Costituzione dotata di anticorpi (non dico robusti come la nostra, nata da vent'anni di fascismo, anticorpi e basta, bastò un colpo di penna per cancellare l'URSS nonostante un referendum qualche mese prima avesse visto la maggioranza dei cittadini esprimersi per il suo mantenimento), ma neanche un sistema giudiziario con la necessaria autonomia per eseguire inchieste per suo conto. Problema peraltro comune a RPC e ad altri sistemi analoghi: la pulizia non va condotta "dall'alto", ma deve seguire altri tipi di canale, anche una semplice denuncia anonima di un cittadino deve poter far partire un'indagine.

Vengo, infine, ad alcune tue domande, che meriterebbero ciascuna approfondimenti e ricerche decisamente più corpose di queste quattro righe. Socialismo in un solo Paese coi capitalisti intorno i cui operai girano con la Fiat Ritmo mentre tu sei lì che sogni di avere una Ziguli fatta da loro quindici anni prima (fiat 124) e di cui han fuso gli stampi da tempo. E' possibile? A parte il fatto che la Ritmo era una bella macchina, proprio bella nel senso del termine, si. Dipende tutto dalla ideologia dominante, nel senso non tanto di quale pensiero si insegna a scuola, ma quanto tale ideologia sia patrimonio realmente condiviso fra la popolazione. Il fatto stesso che a un burocrate di primo livello negli anni Settanta (qualcuno si ricorda di un certo Evgenij Primakov? Oggi sono emerse cose interessanti a riguardo...), a un Aganbegjan citato pure (guarda un po') in questo articolo, venisse la tentazione, e qualcosa ben più concreto della tentazione, del "ma chi me lo fa fare? molliamo tutto e spartiamoci quanto fatto finora", significa che qualcosa A MONTE già non funzionava. Fra Primakov, Aganbegjan e Thomas Sankara, con la sua Renault 5 d'ordinanza, c'era un abisso: ovviamente a favore del secondo. E' vero, per un Aganbegjan c'era anche un Bajbakov, restato fino all'ultimo al posto di comando a sclerare per fare non solo il suo dovere, ma anche quello di Aganbegjan che già pensava a come piazzare il figlio. A proposito, il mandare tutto a catafascio limitandosi a pararsi il didietro con lo stretto necessario da contratto, si chiama da noi "sciopero bianco", nel resto del mondo "italian strike" (ital'janskij zabastok in russo): si vede che qualcosa ne sappiamo anche noi, di questi meccanismi.

Tensione morale, quindi, con cui non si fa uscire fuori il pane dal forno ma con cui, se per ottemperare agli obbiettivi di piano di produzione del pane occorre far fronte con un'azione stra-ordinaria, la si compie /prima/ e /poi/ si fa un mazzo così a chi ha previsto quantità, tempi, persone, in modo errato, di modo che il lavoro stra-ordinario di quel giorno resti solo per quel giorno e non diventi l'ordinario. Nikolaj era così, e non era il solo. Tensione morale con cui posso andare avanti ancora per 5 anni con una Ziguli, in attesa che entri in produzione un nuovo modello, nella convinzione che tale modello non vada a ingrassare le tasche di un dirigente per barca a Portofino, ville ovunque e piste serali in allegra compagnia, oltre che i suoi conti off-shore, mentre i suoi operai vengono sfrattati perché la fabbrica è stata delocalizzata in Turchia o in Serbia e con la disoccupazione non riescono a pagare le rate del mutuo, (mentre la mia casa è gratuita, peraltro...). Nonostante la bastardaggine dell'ultima generazione di dirigenti PCUS, i "ristrutturatori" che già da anni sognavano di fare quel che poi misero in pratica, e di quei cinque anni in cui smantellarono quanto costruito fino ad allora, il popolo sovietico nel 1991, lo ripeto, fra i carri armati e le code per il pane, si era espresso per continuare. "Against all odds", direbbe un anglofono, o un fan di Phil Collins. Nel 1993 ci vollero di nuovo i carri armati. Ancora nel 2000, se volevo fare incazzare gli ospiti del centro di prima accoglienza dove servivo come obbiettore, bastava che dicessi il nome "gorbaciov".

Devo ringraziare loro, se ho iniziato seriamente a occuparmi dell'argomento ed è vent'anni ormai che vado avanti. Ci riaggiorniamo.

Un caro saluto e buona domenica.
Paolo
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AB
Sunday, 15 September 2019 11:05
Difficile trattenersi dall'osservare che "anticomunista" sia in primo luogo il continuare, oltre ogni evidenza e dignità di pensiero, a spacciare il capitalismo russo "sovietico" per socialismo.
Non è possibile sviluppare qui un confronto su questo aspetto ma spero che soprattutto i più giovani vogliano leffere anche Bordiga e analoghi rivoluzionari prima di acquisire un orientamento proprio su queste questioni.
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CLAUDIO DELLA VOLPE
Sunday, 15 September 2019 08:55
Scusate se entro in questo discorso e certamente sarò impreciso, ma devo dire che non mi convincono pienamente né la visione di Selmi che non vede in atto contraddizioni nell'URSS o così capisco io o almeno non ne parla e né quella di Barone che sostanzialmente ne fa un problema (scusate se riassumo) di complotto capitalistico mondiale; Secondo me ci sono altri fatti con cui fare i conti; classicamente ci sono due visioni sul fallimento URSS; da una parte la visione di Bordiga, la rivoluzione sconfitta che non è la vera rivoluzione, che vede il riformarsi del capitalismo dentro l'URSS (come di fatto poi testimonia la descrizione dell'articolo) e dall'altra la visione di Trotsky, lo sviluppo della burocrazia; ora mi sembra che il convitato di pietra sia che dopo tutto il socialismo in un solo paese non può durare; che le domande della fine della sua vita di Lenin sulla capacità dell'URSS con la sua piccolissima produzione di resistere fino alla rivoluzione mondiale abbiano avuto risposta negativa; l'URSS ha fatto in 70 anni quello che i paesi capitalistici classici hanno fatto in secoli ma ha dovuto cedere alle tendenze del mercato mondiale che durava; i complotti non crescono da soli, ma occorre riconoscere le forze all'opera; certo la sconfitta definitiva dell'URSS è stata la sconfitta del movimento dei lavoratori nel mondo, non a caso l'attacco della globalizzazione è venuto DOPO, ma la questione base non è secondo me nell'URSS ma nell'esterno dell'URSS: perché nei paesi a capitalismo avanzato il movimento dei lavoratori non è riuscito a dare una botta importante, si è tenuto su un piano socialdemocratico? Non sono negativo comunque le contraddizioni ambientali attuali sono impossibili da gestire per il capitalismo; solo una società socialista può affrontarle, però mi pare che non ci sia ancora una sintesi fra tutte le cose e le visioni, dobbiamo fare quel che diceva Marx: l'analisi della situazione concreta; per finire su questo, sulle questioni ambientali l'URSS era partita bene e produsse un genio come Vernadsky e una serie di decreti importanti, ma di fatto anche drammi enormi come il Caspio; c'è ancora molto da capire e lavorare.
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Eros Barone
Saturday, 14 September 2019 21:36
Questo articolo di taglio anticomunista, pubblicato su un sito che antifrasticamente si denomina "il comunista", merita pienamente la stroncatura che, sul piano metodologico e indirettamente contenutistico, Paolo Selmi gli riserva. Sul piano direttamente contenutistico e indirettamente metodologico, mi permetto invece di riproporre, prendendo spunto dalla giusta critica qui avanzata, alcune osservazioni ulteriori. La differenza tra il ricorso al concetto di 'fallimento' (giacché questo è il reale significato della endiadi "inefficienze e difetti") e l'uso del concetto di 'sconfitta' nell'analisi del crollo di un certo numero di paesi socialisti durante l'ultimo decennio del secolo scorso consiste in ciò che con il primo concetto si resta all'interno della problematica borghese-revisionista del pragmatismo, mentre con il secondo concetto si entra nella problematica marxista-leninista della lotta di classe (problematica di cui nell'articolo in questione non vi è alcuna traccia). Il nodo teoricamente e praticamente cruciale, preliminare ad ogni seria analisi di questo tema, è infatti quello del revisionismo (= abbandono dei princìpi del socialismo scientifico + cedimento politico e ideologico all'avversario di classe). Pongo allora questa semplice domanda: perché dagli anni '50 del secolo scorso in poi l'URSS cessò di essere all'avanguardia del socialismo nel mondo? La risposta corretta, dal punto di vista del
marxismo-leninismo, è la seguente: perché i revisionisti moderni presero il potere nel partito, nello Stato e nella società. Ciò detto, resta inteso che le sconfitte possono essere fruttuose come le vittorie, se si sanno ricavare gli insegnamenti che esse contengono. Siccome la presa del potere da parte dei revisionisti non è avvenuta di colpo, ma è stata l'esito di un lungo processo bidirezionale di lotte di classe ideologiche, politiche ed economiche, processo che si è sviluppato all'interno del partito e da qui si è esteso allo Stato e alla società (e viceversa), si tratta di comprendere innanzitutto, come disse giustamente Stalin, che le fortezze si conquistano dall'interno e in quale modo ciò sia avvenuto. L'URSS si è sviluppata per quasi trent'anni in un contesto internazionale ostile. La borghesia imperialista, fallita l'aggressione diretta dei primi anni contro la repubblica dei soviet, preparò nel corso degli anni successivi la rivincita. A questo scopo si servì del nazifascismo, scatenando l'aggressione del 1941. Solo l'abilità di Stalin e del gruppo dirigente sovietico, unita all'azione dei comunisti nei paesi imperialisti, riuscì ad impedire che la borghesia imperialista arrivasse compatta all'aggressione. Nel periodo tra le due guerre mondiali la costruzione di un sistema industriale tecnologicamente avanzato in un paese arretrato si configurò come una necessità assoluta, a cui si dovette far fronte con il massimo del centralismo e con misure amministrative sia nel governo che nella società. Va da sé che senza un tale sistema l'URSS non avrebbe vinto il nazifascismo. Si pone allora il problema se tale metodo fosse ancora necessario nel periodo successivo, quando le condizioni erano cambiate grazie alla vittoria sul nazifascismo, alla rottura dell'accerchiamento imperialista e alla conclusione vittoriosa della guerra di liberazione nazionale in Cina e in altri paesi coloniali. Stalin si rese conto di questo complesso di problemi alla fine della sua vita (si veda il suo importante libro sui "Problemi economici della costruzione del socialismo in URSS"). Sennonché alla morte di Stalin il gruppo revisionista di Krusciov si impadronì con un colpo di Stato del potere politico, quindi molto prima della 'perestrojka' di Gorbaciov che si può definire come la fase finale, apertamente liquidazionista e capitolazionista, del moderno revisionismo. A partire da quel momento la società sovietica entrò in un lungo periodo di stagnazione. Ci vollero tuttavia più di quarant'anni per 'far fallire', ossia destrutturare e decostruire, ciò che era stato costruito e realizzato durante gli anni '20, '30 e '40: il socialismo sovietico. Da quando i revisionisti moderni ebbero il predominio nella direzione dell'URSS ogni riforma economica proposta o realizzata fu orientata programmaticamente a reintrodurre e rafforzare rapporti mercantili di tipo capitalistico nel triangolo 'imprese-lavoratori-popolazione'. Il sistema dei prezzi servì allo stesso scopo. Non per nulla gli USA furono assunti come modello di successo economico e tecnologico dalla nuova borghesia sovietica. La parola d'ordine che venne lanciata, nel quadro della competizione economica fra i due sistemi promossa dai revisionisti moderni ed elogiata dall'autore dell'articolo, fu perciò quella di "raggiungere e superare" gli USA. Questo accadeva nonostante che la capacità di sviluppo economico (e anche tecnologico) della società socialista si fosse dimostrata di fatto superiore a quella della società capitalistica statunitense. All'interno del campo socialista non mancarono posizioni diverse e implicitamente critiche, una delle quali - riassunta dal gruppo dirigente della RDT nella parola d'ordine: "superare senza raggiungere" - merita di essere rammentata per il rigore dialettico e la coerenza marxista. La conseguenza del predominio acquisito dal revisionismo moderno nell'URSS e in un certo numero di paesi socialisti fu dunque, oltre al progressivo dissolvimento del socialismo realizzato, che richiese, comunque, quattro decenni per essere portato a termine, il venir meno dell'URSS e del campo socialista come fattore fondamentale del movimento di classe anticapitalistico e della lotta di liberazione nazionale antimperialista. Prescindere da questa periodizzazione e non tener conto delle argomentazioni che la sostengono significa pertanto seguire un indirizzo completamente errato e del tutto subalterno all'ideologia borghese nelle ricerche concernenti il periodo e le società di transizione dal capitalismo al comunismo.
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Paolo Selmi
Saturday, 14 September 2019 17:59
Caro Alessandro,

Scrivere un pezzo citando lavori di cui il più recente ha oltre vent'anni, senza fonti primarie, letteralmente buttando nel mucchio affermazioni come se fossero analisi, senza chiedersi neppure quanto possano essere fondate o quanto possano avere REALMENTE inciso sui processi economici che hanno condotto alla catastrofe degli ultimi 5 anni di "ristrutturazione" (tale è il significato di perestrojka), su cui peraltro glissi amabilmente, non è da te, e da come ti conoscevo. Mi dispiace.

Nikolaj Konstantinovič Bajbakov... se questo nome non ti dice nulla, leggi pure qui:
https://www.sinistrainrete.info/teoria/15336-ivan-mikhajlovic-syroezin-pianificabilita-pianificazione-piano-4.html
Dopo aver iniziato come narkom e aver passato l'intero secondo conflitto mondiale a far quadrare i conti dell'industria petrolifera e della creazione di una "seconda Baku" per coprire le necessità di approvvigionamento dell'industria bellica e della ricostruzione (quisquilie...) il resto della sua esistenza come cittadino sovietico lo passò in un posticino che si chiamava Gosplan. Ho tradotto una decine di pagine dalla sua autobiografia proprio perché mi sembravano un'ottima sintesi del CONTRARIO di quanto affermato nei pezzi similari al tuo che ogni tanto escono sulla rete: forse forse, qualcosina del suo Paese lo sapeva in più, rispetto a studi che arrivano anche a mezzo secolo fa, di Boffa, di Catone e di Mao "Tse-tung" (se mi posso permettere un piccolo consiglio, con Zedong fai sicuramente più bella figura).

Quando scrivi “A metà degli anni ’70 non si poteva più parlare [...] della pianificazione come qualcosa di realmente funzionante", non ti accontentare di citare qualcuno che lo ha scritto più di vent'anni fa. Provalo. Chi nel Gosplan ci lavorava, quel personaggio semisconosciuto di cui sopra e di cui d'ora in avanti è giusto che apprenda l'esistenza, scriveva:
"La decima pjatiletka (1976-80) vide una crescita del reddito nazionale del 21%, della produzione industriale del 24%, di quella agricola del 9%, con un ulteriore incremento degli investimenti del 21% e della produttività del lavoro del 18%.

L’undicesima pjatiletka (1981-85) conobbe questi risultati: +16,5% di reddito nazionale, +20% di produzione industriale, +11% di produzione agricola, +16% di produttività del lavoro e +17% di investimenti."

E prosegue...
"Durante la mia attività lavorativa al Gosplan, dal 1965 al 1985, le dimensioni dello sviluppo economico sovietico furono le seguenti: reddito nazionale aumentato di 3,8 volte, produzione industriale di 4,3 volte, produzione agricola di 1,8 volte, investimenti di 4,1 volte, fondi produttivi di base di 6,8 volte, redditi reali di 2,6 volte, commercio estero di 4,7 volte e, prodotti di consumo, di quasi 3 volte."

E va avanti ancora, il nostro Nikolaj, non ti tolgo il piacere della lettura. Oppure, vale l'idea che per parlare di URSS è giusto non coinvolgere i diretti interessati, non allora che erano tutti brutti, sporchi, cattivi, mangiavano bambini e diffondevano solo veline di regime, ma anche oggi: oggi che, paradossalmente, nessuno guadagna un soldo nel dire il contrario di quanto affermi, anzi.

Oppure devo pensare che tu li ritenga tutti dei poveracci, non all'altezza delle tue ricerche: in tal caso mi faccio da parte anch'io. Di fatto, l'unica fonte russa che citi è del 1991, anno in cui dovresti chiederti, da storico di professione quale sei, chi fosse a capo delle edizioni Progress in lingue straniere e che cosa facesse tradurre, fra un carro armato a Mosca e una coda per il pane nel negozio a fianco, mentre era in corso la formalizzazione della spartizione fra oligarchi.

Oggi abbiamo tutto, Alessandro: in pdf, in djvu, senza dover andare come capitò a me nel 2004 alla Gosudarstvennaja Biblioteka di S. Pietroburgo a fotocopiare centinaia e centinaia di pagine su come funzionava un kolchoz: riviste, pubblicazioni universitarie, monografie, un'intera biblioteca a disposizione di tutti, basta andare su yandex.ru e aggiungere al tema djvu; esce il mondo praticamente ogni giorno, a opera di militanti, di professori in pensione, di semplice gente comune orgogliosa del proprio passato, quel popolo che nella tua analisi non hai coinvolto neppure per una riga, quel popolo che ancora oggi grida a gran voce: "Я помню, я горжусь!" (almeno la fatica di cercartelo su google translator te la lascio, chissà se da cosa possa nascere cosa...), quel popolo che, ultima statistica risalente a 10 MESI FA, per il 66% non solo è ancora a favore dell'URSS, ma - guarda un po'! - la tendenza è anche in aumento (https://www.gazeta.ru/social/2018/12/19/12100009.shtml).

Nessuno, a scanso di equivoci, parla di paradisi in terra, o nasconde i problemi sotto il tappeto come si faceva in gran parte allora, salvo poi denunciarli in sedi "a tiratura limitata", come nel testo che sto traducendo, ospitato anche qui, e che trovi qui liberamente e gratuitamente disponibile, già impaginato e pronto per la stampa: https://www.academia.edu/38614456/La_semina_e_il_raccolto._Ricerche_analisi_e_traduzione_integrale_di_Pianificabilit%C3%A0_pianificazione_piano_di_Ivan_Michajlovi%C4%8D_Syroe%C5%BEin_I_parte

Tuttavia, da qui a buttare acqua sporca, bambino, bacinella, genitori e dar fuoco alla casa, ne corre. N'est-ce pas?

Stammi bene.
Paolo Selmi
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