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Lenin e il movimento operaio italiano

Analisi storica e prospettive attuali

di Alessandro Mustillo

4344552x 699x1024Prima di addentrarci nell’analisi del rapporto tra Lenin e il movimento operaio italiano c’è da chiedersi se oltre alla valenza storiografica di queste vicende, l’argomento sia utile a fornire ancora oggi insegnamenti validi per chi è impegnato nella ricostruzione del movimento comunista in Italia, in linea con l’obiettivo che l’Ordine Nuovo si è dato per questo speciale. Certo in un articolo di taglio storico il compito di attualizzare è quello più difficile e complesso, e per questa ragione alcuni aspetti propriamente cronologici saranno sacrificati a una lettura più argomentativa.

Oltre la retorica, e il rifugio nella comodità della tradizione, la risposta alla domanda iniziale, va ricercata immergendosi in un’analisi parallela delle posizioni di allora e del mutamento del contesto in termini economici, storici, politici tra la società di inizio ‘900 e quella del secondo decennio del XXI secolo.

Analizzare il rapporto tra Lenin e il movimento operaio italiano significa lambire la questione centrale e tutt’ora aperta, del fallimento della Rivoluzione in Occidente – ossia nei Paesi a capitalismo avanzato, al vertice della catena imperialista internazionale – in uno dei suoi potenziali avamposti. Lambire e non centrare, perché analizzare la questione da questo lato prospettico impone di concentrarsi sull’aspetto soggettivo e organizzativo e trascurare l’aspetto oggettivo degli elementi attraverso i quali le classi dominanti all’interno dei paesi imperialistici riescono a rendere le classi subalterne compartecipi agli interessi di esse.

L’attualità delle vicende in oggetto risiede – nel giudizio di chi scrive – negli aspetti di forte similitudine tra il contesto dell’inizio del ‘900 e la società di oggi.

Sebbene sussistano innumerevoli differenze, l’assenza di un campo socialista periodo che precede la Rivoluzione d’Ottobre e la nascita dell’URSS, rende il contesto economico politico attuale molto più simile all’inizio dello scorso secolo che non al secondo dopoguerra. Tuttavia nel dibattito e nella formazione stessa dei comunisti in Italia, quella parte della storia è la meno conosciuta: sappiamo molto della battaglia di Stalingrado, ma poco del biennio rosso. L’assoluta centralità dei fatti avvenuti a cavallo del secondo conflitto mondiale si spiegava nel secolo scorso con la ridefinizione degli equilibri globali che la seconda guerra mondiale aveva comportato. Il contesto è stato artificialmente protratto oltre, dopo il ’91 per giustificate la presenza dei comunisti nei governi di centrosinistra. La forzosità di tale operazione è stata dimostrata dai fatti. Oggi riscoprire quella storia e, soprattutto, il dibattito politico di allora, significa trovare spunti preziosi per affrontare la nostra fase e dare risposte alle esigenze attuali del movimento comunista in Italia e a livello internazionale.

Si cercherà quindi nell’indagine sul rapporto tra Lenin e il movimento operaio italiano di coniugare queste due esigenze, di carattere storico e di analisi tematica anche in chiave attuale.

 

1. «Fare come in Russia»

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre la classe operaia italiana guardava alla Russia “sovietista”, come si diceva allora, non meno di quanto la dirigenza bolscevica guardasse all’Italia e al Partito Socialista Italiano come potenziale avamposto della Rivoluzione in occidente.

Nella nostra letteratura si è sempre insistito giustamente sul ruolo della Germania come luogo naturale predestinato dello sviluppo rivoluzionario in Occidente. Ciò è senza coerente con il grado di sviluppo della classe operaia tedesca, in un’ottica per molti versi “lineare” della teoria marxista, salvo trascurare ciò che proprio a partire da questo evento sarà assai più chiaro[1]. È altrettanto noto, però, che l’organizzazione della classe operaia tedesca coincideva in larghissima parte con la fiducia e il prestigio della SPD e dei suoi dirigenti politici e sindacali, propugnatori di una visione riformista di sviluppo storico naturale in senso socialista, che al momento della scelta di campo del conflitto mondiale si erano schierati apertamente dalla parte della difesa dell’interesse nazionale. Il grado di sviluppo della classe operaia tedesca era quindi inversamente proporzionale alla predisposizione rivoluzionaria della sua dirigenza maggioritaria.

L’Italia invece disponeva di un Partito Socialista che non si era macchiato della compartecipazione alla guerra imperialistica, mantenendo – almeno in apparenza – una posizione internazionalista e coerente con i principi marxisti. Il PSI aveva partecipato alle conferenze di Zimmerwald e Kiental, professando la propria opposizione alla guerra. caso più unico che raro di fronte alla capitolazione dei grandi partiti della Seconda Internazionale, che avevano preso esplicitamente le parti delle proprie nazioni in conflitto.

La giovane classe operaia italiana, prodotto di un veloce e massiccio processo di industrializzazione concentrato in alcune aree specifiche del nord Italia, dimostrava di possedere un elevato grado di coscienza ed essere capace di sostenere con coerenza e determinazione lotte prolungate e in alcuni casi – l’esperienza dei consigli di fabbrica torinesi – un passaggio che contemplava l’autogesione delle fabbriche e che dimostrava la maturità della classe operaia a elevarsi a classe dirigente.

Ma prima di iniziare sul terreno degli scritti e delle posizioni politiche, il rapporto di Lenin con il movimento operaio italiano è prima di tutto la storia di un legame popolare. Il nome di Lenin, viene associato dalle masse italiane all’idea del rivoluzionario intransigente. «W Lenin!» «Fare come in Russia!» diventeranno la risposta istintiva della base socialista e dei lavoratori di fronte all’arrendevolezza della dirigenza socialista. Nel 1917 all’indomani della omposta da menscevichi e socialisti rivoluzionari, visitò l’Italia e con grande disappunto dei partecipanti venne accolta nel nord Italia – e in particolare a Torino – dal grido «Viva Lenin!».[2] Un fatto abbastanza singolare se si pensa che allora Lenin, per quando conosciuto nell’ambito del movimento socialista internazionale, non era ancora il rivoluzionario vincente dei mesi successivi alla Rivoluzione d’Ottobre.

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre il mito di Lenin si diffonde ancora di più. L’Avanti! stesso dedica alle cronache sovietiche e all’approfondimento delle posizioni russe numerosi articoli, fioriscono attività editoriali con la diffusione dei testi di Lenin, anche tra la gioventù. Dirigenti sindacali locali iniziano a essere soprannominati Lenin; molti operai chiamano i loro figli Lenin, addirittura venendo accusati di disfattismo e processati. Dalle prime manifestazioni dopo l’armistizio a tutto il biennio rosso Lenin è l’esempio che il proletariato italiano invoca per l’Italia.[3] Questo aspetto può apparire per certi versi enfatico, una mera suggestione, un aspetto meno significativo dell’analisi successiva, ma in realtà il suo peso non fu secondario. L’ampio sostegno popolare di cui godeva Lenin e la Russia sovietica ad esempio spinsero l’intero PSI – certo con qualche mugugno dei riformisti – a sostenere esplicitamente la Rivoluzione d’Ottobre, fatto anche questo non scontato nell’universo socialista dell’epoca. Lo stesso sostegno entusiastico che spinge il PSI ad aderire istintivamente alla Terza Internazionale al momento della sua costituzione. Il sostegno popolare e la sua pressione sul PSI stesso, contribuirà a innalzare l’aspettativa della direzione bolscevica sull’Italia. Se in Italia le rivolte operaie hanno segnato il biennio rosso ciò è stato possibile per le condizioni oggettive italiane del primo dopoguerra e anche grazie al legame ideale con il movimento rivoluzionario russo e europeo, che fu elemento trainante più della stessa dirigenza socialista.

Di quel legame popolare, passato poi nel secondo dopoguerra per il peso politico del PCI, sebbene oggi sbiadito dopo la vittoria della controrivoluzione in URSS, restano nel nostro Paese ancora tracce. Una tra tutte la statua di Lenin a Cavriago (RE), unica nell’Europa occidentale, di cui proprio in questi giorni si festeggia il cinquantenario dalla posa.

 

2. Il PSI: da «felice eccezione» a grande equivoco

Rileggendo oggi, dall’alto della conoscenza degli accadimenti successivi, il rapporto iniziale di Lenin con il PSI potrebbe apparire frutto di un parziale equivoco e fiducia malriposta.

«L’esempio del Partito socialista italiano avrà una grande influenza in tutto il mondo»[4] scriveva Lenin nell’ottobre del 1919 a Serrati per complimentarsi della vittoria delle tesi massimaliste al Congresso di Bologna del PSI, definita nella missiva una «brillante vittoria del comunismo». Meno di due anni dopo, nell’agosto del 1921 al III congresso dell’Internazionale Comunista la requisitoria dell’Esecutivo sarà spietata: «Se nella storia esiste l’esempio di un partito che ha perduto una grande occasione e quindi pregiudicato grandemente il movimento, questo esempio è precisamente l’italiano […] È una lezione per il partito italiano, ma anche una lezione per le nostre condizioni interne, per cui dobbiamo sempre pensare che non è tutto oro quello che luccica. Per la stessa ragione non è veramente un comunista chiunque porti questo nome»[5].

In mezzo a questi due passaggi così apparentemente contraddittori, si condensa tutto il dramma della grande occasione rivoluzionaria perduta in Italia. Un passaggio di non poca importanza nel quadro generale del mancato sviluppo della rivoluzione socialista nei Paesi europei. Ma la critica al PSI è anche il punto di approdo di un serio lavoro di studio e conoscenza di posizioni politiche che supera le facili suggestioni iniziali.[6] A partire dal 1920 Lenin decide di studiare con dovizia tutte le posizioni interne al PSI e al movimento operaio italiano. Dal II Congresso dell’Internazionale, dove professò il suo appoggio al documento dell’Ordine Nuovo[7], tra l’aprile e l’ottobre del 1920 Lenin, che leggeva e comprendeva poco l’italiano, si fece fare una raccolta di documenti tradotti appositamente per lui concernente il dibattito in corso tra i socialisti italiani.[8] È proprio in questo periodo che Lenin acquisisce piena conoscenza dell’equivoco massimalista.

Per capire tutti i passaggi intermedi è però necessario fare un passo indietro. Il primo conflitto mondiale piomba sulla socialdemocrazia europea acuendone tutte le contraddizioni: di fronte alla guerra la stragrande maggioranza dei partiti della Seconda Internazionale capitolano alla logica social-patriottica e appoggiano la propria borghesia nazionale nel conflitto.

In questo contesto Lenin vede nel 1915 il PSI come una «felice eccezione», seppur con un giudizio ancora provvisorio e bilanciato, non dando per definitivamente assodata la vittoria della linea internazionalista su quella social-patriottica. Testualmente Lenin afferma:

«Noi non idealizziamo affatto Il PSI, non garantiamo che esso resterà perfettamente fermo in caso di entrata in guerra dell’Italia […] Noi constatiamo il “fatto” indiscutibile che gli operai nella maggior parte dei paesi europei sono stati “ingannati dall’unità fittizia” degli opportunisti e dei rivoluzionari e che l’Italia è una felice eccezione, un paese dove, in questo momento, non c’è un simile inganno».

Non un giudizio assoluto dunque, ma la constatazione che nel contesto della socialdemocrazia europea il PSI si era comportato diversamente, anche in considerazione dell’avvenuta espulsione del gruppo di Bissolati avvenuta nel 1912.

È noto che i socialisti italiani terranno una posizione di neutralità rispetto alla guerra, che passerà alla storia con la formula coniata da Lazzari «né aderire, né sabotare». Si trattava di una sintesi tra la neutralità relativa propugnata dai riformisti in chiave difensivista e social-patriottica con le pressioni della sinistra del Partito, posizioni maggioritarie nella Direzione e nella Federazione Giovanile Socialista (FIGS). In sostanza i riformisti non avrebbero aderito e i massimalisti non avrebbero sabotato. La linea massimalista che uscì maggioritaria prevedeva di restare fedeli ai principi internazionalisti, opporsi al conflitto, ma non portare tale opposizione fino alle estreme conseguenze di una logica disfattista. «Spontaneamente ci traiamo in disparte – affermò Lazzari – lasciando che la borghesia faccia la sua guerra»[9]. Se la posizione assicurò sulla carta il mantenimento dei principi internazionalisti legò completamente le mani all’azione politica del PSI rendendo quel Partito incapace di trarre vantaggio dalla condizione della guerra per guidare un processo rivoluzionario.

La strategia del PSI divergeva in modo sostanziale da quella leninista, esemplificata dalla formula: trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, posizione che oltre a richiedere la difesa del principio di non compromissione del proletariato nella guerra e negli interessi capitalistici, richiedeva anche una parte attiva: dotarsi di una strategia e di un’azione conseguente per utilizzare la guerra e i suoi orrori, le sue contraddizioni, come punto di partenza per rovesciare l’ordine costituito. I socialisti italiani conoscevano la posizione di Lenin almeno dal 1914. Prova ne è la lettera – la prima in assoluto – che Lenin indirizzò a Serrati nel 1914 in cui chiedeva alle forze socialista «un’azione energica, positiva, immediata contro la guerra»[10]. La posizione fu poi confermata alla conferenza italo-svizzera a cui Lenin fece recapitare le proprie tesi[11] e successivamente a Zimmerwald dove furono esposte da Lenin stesso. La diversità tra queste due concezioni si comprenderà a mano a mano, come due strade che partendo apparentemente unite – la comune considerazione del carattere di classe della guerra e l’opposizione alla compartecipazione politica dei socialisti al conflitto – divergeranno rispetto al da farsi.

Ancora nell’aprile del 1917 il giudizio di Lenin sulla componente massimalista del Partito, e in particolare su Lazzari e Serrati è positivo. Nel suo articolo «I compiti del proletariato» Lenin divide l’universo socialista in tre tendenze: la prima social-sciovinista di cui si componevano le direzioni dei principali partiti socialisti definiti apertamente nostri nemici di classe; la seconda centrista che oscillava tra il primo e il secondo gruppo, la cui figura emblematica era Kautsky e per l’Italia Turati, Treves, Modigliani ecc ovvero l’insieme dei leaders riformisti. L’accusa rivolta a questi ultimi era in sostanza di rimanere nel guado, di non scegliere. La terza tendenza per Lenin era quella degli internazionalisti di fatto in rottura completa con i socialsciovinisti e il centro tra i quali figurava Liebknecht in Germania e per l’Italia «gli uomini che sono vicini a questa tendenza sono il segretario del Partito Costantino Lazzari e il diretto dell’Avanti, organo centrale del Partito, Serrati».[12] Pietro Secchia anni dopo- e a ragione – affermò che il rapporto di Lenin con Serrati dimostrava «che in quel momento Serrati rappresentasse in Italia il più valido e tenace difensore dei principi del socialismo internazionalista»[13]. È senza dubbio all’azione energica di Serrati dalle colonne dell’Avanti e dalla Direzione socialista che si deve il mantenimento della posizione di neutralità del Partito, posizione in realtà mai granitica[14].

I riformisti in più occasioni – spesso cruciali – dall’alto del controllo del Gruppo Parlamentare Socialista e soprattutto delle posizioni di direzione della Confederazione Generale del Lavoro (CGL), torsero apertamente in chiave socialpatriottica la loro posizione, assicurando nei fatti, un sostegno implicito alla borghesia italiana: sostegno che se mai giunse alla diretta compartecipazione nell’esecutivo nei fatti rappresentava una vera e propria quita colonna. I riformisti impedirono ogni azione risoluta del PSI che da una generica opposizione e da proclami alle masse, si risolvesse in azione organizzata contro la guerra. Turati sull’Avanti scrisse:

«Nessun partito socialista, nessun popolo ha inalberato la bandiera della rivolta al tempo della guerra. Sarebbe meglio chiedere un arruolamento volontario di socialisti italiani da aggregarsi all’armata austriaca o germanica, e si compirebbe un’opera molto meno antipatriottica di quello che sarebbe il proclamare la rivolta quando il paese è impegnato»[15].

Qualche tempo dopo dalle colonne di Critica Sociale giunse a sostenere che la guerra avrebbe potuto risparmiare centinaia di migliaia di vite e criticando chi affermava

«che patria e nazionalità e indipendenza sono interessi borghesi (mentre sono, a mille doppi di più, interessi del proletariato e dell’avvenire proletario)» e ancor di più «quando si arriva alla temerità, tutt’affatto retorica, s’intende, ma perciò più volgarmente demagogica, di lasciar balenare il possibile “sabotaggio” di una eventuale militarizzazione, ossia la guerra civile aggiunta alla guerra internazionale e una disfatta provocata e cumulata sull’altra; quando non si ha il coraggio di ripudiare recisamente armi e argomenti siffatti, si squalifica e si indebolisce la migliore delle tesi»[16].

La posizione dei riformisti era stata duramente criticata da Serrati che aveva giustamente contrapposto l’ottica di classe a quella della difesa nazionale[17] e della nascente sinistra socialista, in particolare di Bordiga che dalle colonne di Avanguardia, giornale della FIGS, stigmatizzava la posizione dei riformisti aderendo insieme alla maggioranza assoluta della federazione giovanile all’impostazione leninista della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria.

Ma è Lenin stesso che criticherà apertamente le posizioni di Turati, ponendole in parallelo con quelle di Kautsky. Nel gennaio 1917 il rivoluzionario russo stigmatizza il ricorso da parte di Turati in un discorso alla Camera dei Deputati alla questione dell’autodeterminazione delle nazioni per difendere la guerra imperialista.

«Turati si è tradito! La stampa italiana ha avuto ragione di impadronirsi di questo passo di Turati […] che c’entra qui il diritto di autodecisione delle nazioni quando tutti sanno che, nel programma dei marxisti, esso riguarda la difesa dei popoli oppressi? Che c’entra questo diritto nella guerra imperialistica, cioè nella guerra per la spartizione delle colonie, per l’oppressione dei paesi stranieri, nella guerra che i paesi oppressori e rapinatori combattono tra loro per sapere chi opprimerà un maggior numero di popoli stranieri?»[18]

Oltre la distanza temporale, la differenza dei contesti storici, la questione posta da Lenin e il confronto di posizioni qui espresso è di grandissima attualità, per almeno due questioni. La prima concerne l’atteggiamento rispetto alla questione nazionale da parte del movimento operaio di un paese imperialista (l’Italia era ed è tale). La seconda riguarda direttamente la strategia e l’azione dei comunisti dinnanzi a momenti di crisi generale.

Eliminiamo da subito la suggestione che il contesto della guerra si presenti qualitativamente diverso da quello di un periodo di pace, rendendo inapplicabili categorie utilizzate nell’uno e nell’altro. Guerra e pace d’altronde nella visione leninista non sono che un diverso modo di manifestarsi dello scontro inter-imperialistico «La guerra è la continuazione della politica di pace, e la pace è la continuazione della politica di guerra»[19]. Per questa ragione la lezione leninista può e deve essere applicata in ogni momento, evitando di parteggiare anche solo implicitamente per qualsiasi fazione della borghesia imperialista, a partire dalla propria borghesia nazionale. Sostegno che – Lenin stesso ricorda – i socialisti che scadono nel social-patriottismo possono dare opportunisticamente anche senza la compromissione esplicita dell’ingresso in un governo nazionale, mantenendo una posizione apparente di terzietà sotto il profilo organizzativo, ma sposandone le concezioni politiche e fornendo così un aiuto ancora maggiore alla borghesia.

Ancora oggi ambienti marxisti si concedono letture distorte dello scontro inter-imperialistico in atto utilizzando la questione dell’autodecisione delle nazioni e l’indipendenza nazionale come categorie valide in relazione a paesi imperialisti. La lettura dello scontro in atto all’interno dell’Unione Europea ad esempio, oppure le rispettive avventure imperialiste dei propri paesi e i conflitti con altre potenze concorrenti, finiscono per cedere il passo alla suggestione più o meno occulta dell’ottica nazionale, con ciò fornendo alla propria borghesia nazionale un sostegno implicito e disarmando invece i lavoratori delle categorie necessarie. Rifiutare queste categorie, rifiutare di accettare suggestioni patriottiche è invece indispensabile per marcare il campo dello scontro di classe in atto, presupposto necessario per combatterlo adeguatamente.

La seconda questione riguarda invece la strategia dei comunisti di fronte ad un quadro di crisi, ancorché provocato dalle vicende di scontro inter-imperialistico proiettato su scala internazionale.

Nel 1915 Lenin scrisse: «l’unica politica di rottura non a parole della “pace civile”, di riconoscimento della lotta di classe, è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia al fine di abbatterli».[20]

Approfittare dunque della crisi e della sconfitta, significa da una parte non parteggiare neppure implicitamente per la difesa di interessi nazionali che pongano in secondo piano la lotta di classe, dall’altra sapersi dotare di una propria strategia che consenta di approfittare della situazione per abbattere il dominio della borghesia. Su quest’ultimo punto nei fatti si consumerà la rottura con il massimalismo serratiano.

 

3. Il massimalismo al bivio: le «venerande barbe» e quei giovani infatuati

In queste due questioni può essere colto il centro della distanza della concezione leninista dall’azione del Partito Socialista Italiano: da una parte i riformisti pronti a soccorrere nell’ora del bisogno il governo italiano, dall’altra la maggioranza massimalista che pur riconoscendo a parole questa necessità non seppe agire in modo conseguente. Non bastava più – come scrisse Bordiga, allora esponente più autorevole dell’ala intransigente della sinistra del PSI – l’infelice formulazione del neutralismo ormai morto: o verso uno pseudo-socialismo nazionalista o verso la nuova Internazionale[21]. Da quest’ultima critica prenderà forma la distanza che porterà alla scissione di Livorno e al chiarimento del ruolo del massimalismo. La medesima questione sarà oggetto della rottura tra il centro e la sinistra di Zimmerwald a livello europeo.

Il PSI non seppe e non volle approfittare della situazione, e anzi nel momento cruciale la componente riformista riuscì a garantire un sostegno implicito al governo italiano. Ciò accadde con la battaglia di Caporetto quando il PSI evitò qualunque azione insurrezionali, e i suoi esponenti riformisti si prodigarono in interventi alla Camera applauditi dalle forze borghesi, in difesa della patria. Questo avvenne per tutto il periodo degli scioperi e delle manifestazioni operaie che la dirigenza riformista tentò di limitare in ogni modo, assicurandosi che la posizione “responsabile” del PSI prevalesse. Per ragioni di sintesi non si riproporrà qui una cronologia di questi eventi, preferendo andare al centro delle considerazioni politiche.

Lenin riteneva che la presenza dei riformisti e la composizione stessa del PSI impedissero al Partito di assumere un effettivo ruolo rivoluzionario. Senza la cacciata dei riformisti il PSI avrebbe vissuto la stessa sorte dell’Ungheria. È in questa fase che va dal 1919 al 1921 che si manifesterà la frattura tra Lenin e Serrati e il confronto/scontro di concezioni con la nascente frazione comunista.

Il Partito Socialista non ha nulla del concetto leninista di partito avanguardia rivoluzionaria di classe. È un insieme di correnti e gruppi più o meno organizzato, privo di strutture direttive omogenee e di una disciplina vincolante; un insieme di circoli territoriali che lavorano per lo più in modo a sé stante; un Gruppo parlamentare controllato da una tendenza opposta a quella dominante del Partito, che agisce in autonomia e conflitto con la direzione del Partito; un insieme di giornali, riviste; rete di controllo sindacale e di massa con organismi sindacali, camere del Lavoro cooperative, reti di soccorso operaio e anche livelli di amministrazioni locali. È senza dubbio un corpo vivo, immerso nella classe operaia, ma privo di univocità di direzione che alla prova dei fatti non si muoverà come un unico corpo ma come un insieme di correnti separate, ciascuna con una propria concezione e un’azione conseguente su quali siano i compiti del Partito. Il PSI di inizio ‘900 è una grande nebulosa, un brodo primordiale con tutto al suo interno. Se è possibile passare l’esempio eretico è un partito che assomiglia molto di più agli attuali partiti democratici – salvo il fatto di avere una reale base di massa e di classe, che quei partiti oggi non hanno – che non all’idea stessa che oggi abbiamo di partito, derivata proprio dall’applicazione della concezione leninista.

Come detto, ancora nel 1919 Lenin esprime sostegno a Serrati, sulla scelta del PSI di partecipare alle elezioni, ma lo ammonisce sulla necessità di rompere con i riformisti[22]. È un momento complesso quello che va delineando il profilo della Terza Internazionale e che vede l’incrocio di due polemiche: da una parte completare la rottura con i riformisti del «centro», dall’altra evitare l’estremismo della sinistra espresso in Italia dallo stesso Bordiga e dalle sue tesi astensionistiche. La critica di Lenin è nota, ed è contenuta nel testo di Estremismo malattia infantile del comunismo[23]. Proprio qui emerge l’inizio della differenziazione di posizioni. Se da un lato Lenin critica le tesi astensioniste di Bordiga «è indubbio che il compagno Bordiga e la sua frazione di «comunisti boicottisti» hanno torto quando sostengono la non partecipazione al parlamento», dall’altra Lenin inizia a incalzare Serrati direttore dell’ottimo periodico Comunismo – le parole sono importanti! – che continua a tollerare la presenza dei riformisti nel Partito, circostanza sulla quale Lenin da ragione a Bordiga appoggiando la sua critica interna a Turati. «Nel tollerare questo – scrive Lenin – il compagno Serrati e tutto il PSI commettono un errore, che minaccia di causare lo stesso danno e pericolo già prodotto in Ungheria, dove i signori Turati ungheresi hanno sabotato dall’interno il partito e il potere sovietico». Lenin pone proprio questo atteggiamento di tolleranza verso i riformisti come giustificativo fino a un certo punto del comunismo di sinistra concludendo che non è Turati ad essere incoerente, ma Serrati che tollera opportunisti nelle file del Partito e del gruppo parlamentare.

Ma un altro fronte di scontro è in realtà prettamente politico e si consumerà – e di questo inizialmente gli italiani ne hanno maggiore percezione di Lenin – proprio con il massimalismo, responsabile non solo di aver mantenuto i riformisti nelle proprie fila, ma nei fatti di non aver dotato il partito di una strategia rivoluzionaria in una fase che era rivoluzionaria, e nella quale il Partito fu largamente superato dall’azione delle masse. Non dobbiamo dimenticare infatti che mentre si sviluppa questa discussione strategia il movimento operaio è all’apice della sua forza, gli eventi si susseguono e si decidono davvero i destini della rivoluzione in Occidente.

La risposta di Serrati alla lettera di Lenin dell’ottobre del 1919 è il migliore manifesto dell’impotenza massimalista.

A Lenin che aveva manifestato fiducia nella capacità del PSI di dirigere il proletariato alla vittoria Serrati rispose «[..] io sono dell’avviso che ci occorre procedere in modo che la rivoluzione scoppi a suo tempo debito. Né colpi di mano, né soverchie lentezze, tale mi pare debba essere la nostra tattica. Noi dobbiamo attendere serenamente, aspettando, gli eventi che maturano per noi»[24].

Serrati nella sua lettera criticava anche la concezione dei consigli di fabbrica, che sarebbe stato sbagliato voler sostituire alle tradizionali istituzioni del movimento operaio sotto il controllo socialista. Una tale concezione dimostrava di tradire nei fatti l’insegnamento leninista riducendosi ad una professione marcata di attendismo, per cui la Rivoluzione è qualcosa che accade, che si presenta e non che si costruisce attraverso l’azione organizzata del partito, combinata con una fase che presenti condizioni oggettive favorevoli. Non dimentichiamoci che questa professione di attendismo viene fatta da Serrati all’indomani della vittoria socialista alle elezioni e con il movimento operaio all’apice della sua forza, in pieno “biennio rosso”. È qui che si consuma il vero dramma dell’impotenza del PSI di fronte a una condizione rivoluzionaria. È qui che la grande occasione sfuma.

Si ripeteva così in una fase rivoluzionaria l’impotenza manifestata nell’impedire l’ingresso dell’Italia in guerra nella quale era mancata, come rilevato da Spriano, qualsiasi «presa di posizione, che punti veramente un appello alle masse che dia loro l’indicazione di una battaglia decisiva da impegnare»[25]. Ancora una volta la logica del né né impediva un intervento diretto della direzione socialista. A nulla era servita la grande vittoria massimalista del congresso di Bologna, poiché ad essa non era seguito alcun reale cambio di passo strategico.

Lo scontro effettivo si consumerà al secondo congresso della Terza Internazionale, il vero congresso fondativo dell’Internazionale, e in particolare sull’approvazione delle condizioni di ammissioni. Nelle condizioni preparate da Lenin stesso[26] si legge al punto 7 che i partiti che vogliono far parte dell’Internazionale Comunista

«hanno l’obbligo di riconoscere la necessità di una rottura completa e definitiva con il riformismo e la politica del centro […] L’internazionale comunista esige assolutamente e in forma ultimativa che tale rottura sia realizzata entro il più breve tempo possibile. L’internazionale non può più tollerare che dei riformisti dichiarati come ad esempio Turati, Modigliani ecc. abbiano il diritto di considerarsi membri della III Internazionale. Se così fosse la III internazionale finirebbe per assomigliare in larga misura alla defunta II Internazionale»

in fase di approvazione Serrati aveva espresso le sue resistenze a questa formulazione che di fatto obbligava il partito italiano a espellere i riformisti.

È in questa sede inoltre che Lenin manifestò il suo consenso alle tesi del Gruppo dell’Ordine Nuovo con disappunto della maggioranza dei delegati presenti, Bordiga compreso, che aveva criticato la posizione dei torinesi sui consigli. Da questo momento l’Ordine Nuovo assumerà grande prestigio nella nascente frazione comunista, pur non disponendo di un radicamento pari a quello dei bordighiani e della FIGS, sostituito proprio dall’autorevolezza conquistata dall’esperienza dei consigli e dall’approvazione di Lenin. Il documento intitolato «Per un rinnovamento del Partito Socialsta Italiano» era una serrata critica alla linea del PSI che

«assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un’opinione sua da esprimere […] non lancia parole d’ordine che possano essere accolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l’azione rivoluzionaria». Il documento criticava il PSI per essere rimasto anche dopo il Congresso di Bologna «un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese […] esso non ha acquisito una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario»[27]

Ora, nel 1920 la frattura politica tra Lenin e Serrati è completa, sebbene vi era il convincimento che alla fine in Serrati avrebbe prevalso l’adesione alla linea dell’Internazionale. Per Lenin doveva apparire assolutamente inconcepibile la ragione per la quale Serrati che si dichiarava un comunista, a cui riconosceva il merito storico di aver mantenuto una saldezza di principi durante la guerra, che disponeva di una larga maggioranza nel Partito e di una gioventù compatta alle sue spalle che premeva per il rinnovamento, non rompesse con la minoranza riformista, di fronte all’evidenza del ruolo dei riformisti nel Partito. Del dramma, quello serratiano, che diviene anche dramma umano Paolo Spriano ne ha dato una lettura assolutamente originale dalle colonne dell’Unità.

«Il Partito unito che Serrati sogna e rimpiange – scrive Spriano – è il Partito che amministra bene tanti importanti Comuni, che ha le sue belle cooperative, i suoi sindacati (senza le diavolerie dei Consigli) il suo gruppo parlamentare, la sua Critica Sociale, le sue venerande barbe. Egli diffida dei nuovi adepti impazienti, dei giovani turbolenti, delle masse disorganizzate che vengono alla ribalta»[28].

A Lenin che sollecitava il Partito italiano a dare seguito alle deliberazioni dell’Internazionale Serrati rispose opponendo la sua convinzione di una scarsa conoscenza della situazione italiana, della non pericolosità dei riformisti e della necessità dell’unità del Partito. Nella sua risposta Serrati rilevava come

«I più destri dei nostri che sentono profondamente l’amore per il Partito e l’organizzazione e che non hanno mai mosso un dito contro il Partito stesso – saranno con noi spinti dalla situazione quando sarà l’ora» al contrario «altri sono giunti a tale grado di autosuggestione da ritenersi quasi i predestinati alla opera di rinnovamento mondiale. Infatuazione pericolosa […] tale da far scambiare caratteristiche manifestazioni di indisciplina come prove di devozione e obbedienza»[29].

Lenin a sua volta replicherà sprezzante:

«Serrati teme la distruzione dei sindacati, delle cooperative, dei comuni, l’imperizia degli errori dei novizi, degli uomini nuovi. I comunisti temono invece che i riformisti sabotino la rivoluzione […] tutta la sostanza è che Serrati spinge a destra mentre nelle condizioni attuali dell’Italia, bisogna spingere a sinistra»[30].

Per Lenin l’obiettivo imminente era fare la Rivoluzione, con gli uomini adatti a farla, per poi eventualmente recuperare una parte dei riformisti in un secondo momento, quando questi avessero riconosciuto il proprio errore e saranno utili alla costituzione dello stato socialista.

La storia successiva è assai nota. Il PSI giungerà al congresso di Livorno con tre mozioni, quella dei comunisti unitari di Serrati, otterrà la maggioranza senza tuttavia applicare le condizioni dell’Internazionale e procedere all’espulsione dei riformisti. Nascerà il Partito Comunista d’Italia, dalla frazione comunista guidata da Bordiga – che nel frattempo rinunciò alla pregiudiziale astensionista – il gruppo dell’Ordine Nuovo e la FIGS.«Prenda Turati il cadavere del fu Partito Socialista e ne faccia sgabello per la sua ambizione senile» scrisse l’Ordine Nuovo del 19 gennaio.[31]

Dirà Lenin al III congresso dell’Internazionale, indirizzandosi a Serrati:

«Voi disponevate di 98.000 voti, ma avete preferito restare con i 14.000 riformisti piuttosto che andare con i 58.000 comunisti […] e questa è la migliore dimostrazione del fatto che la politica di Serrati è stata una disgrazia per l’Italia»[32]

Anni dopo Serrati, al momento della fusione del gruppo dei terzini con il PCd’I ammise con rammarico il grande errore:

«Anche nel corso delle nostre polemiche e delle nostre lotte più aspre, io mi sentivo spiritualmente più vicino a voi che a molti elementi del mio vecchio partito. Nessuno saprà mai quante sofferenze provocarono in me quelle contraddizioni. Credevo di avere ragione, e invece commettevo un grave errore, il più grave della mia vita».

 

4. La conquista della maggioranza dei lavoratori

La scissione di Livorno si configura come un dramma necessario. Entrambe le parole hanno un peso e non si annullano a vicenda: necessario perché di fronte agli eventi la rottura con i massimalisti era divenuta inevitabile. Dramma perché si produsse una rottura interna alla “sinistra” del movimento socialista in un contesto che già stava velocemente evolvendo in senso inverso. Dramma perché risultava di difficile comprensione dati i rapporti di forza, come mai una maggioranza terzinternazionalista avesse finito per accettare la rottura con la sua sinistra per non realizzarla con una minoranza assoluta alla sua destra.

Intanto da una stagione potenzialmente rivoluzionaria si passava rapidamente all’avanzata della reazione organizzata sotto forma del fascismo. «Fummo senza volerlo un aspetto della dissoluzione generale della società italiana» scriverà Gramsci in un articolo denso di riflessioni di grande profondità nel 1924.

«La scissione di Livorno avrebbe dovuto avvenire almeno un anno prima perché i comunisti avessero avuto il tempo di dare alla classe operaia l’organizzazione propria del periodo rivoluzionario nel quale vive».

Il PCd’I si trovò così sempre per utilizzare le parole di Gramsci ad agire

«nel fuoco della guerra civile, cementando le nostre sezioni col sangue dei più devoti militanti; dovemmo trasformare, nell’atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della più atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere»[33].

D’altronde il programma dell’Ordine Nuovo al tempo approvato da Lenin aveva precisato chiaramente che la fase che l’Italia stava attraversando era la fase che precedeva o la conquista del potere politico o una tremenda reazione. Nella storia vale per certi versi la regola calcistica secondo cui a gol mancato segue spesso un gol subito. La vicenda italiana ne è stata un esempio lampante, con il fascismo.

Il fatto che la rottura profonda si produsse con i massimalisti spinse ad estremizzare le tendenze settarie presenti nel gruppo dirigente del PCdI che Lenin aveva già condannato in Bordiga e che finirono per trasporsi nel nuovo partito. Il dramma della scissione è anche il dramma della critica alle posizioni dei riformisti ma della battaglia politica diretta contro i massimalisti, quindi come accade sempre in questi casi con “i più vicini”, quelli tendenzialmente da recuperare alle proprie posizioni. La critica di Bordiga nei confronti dei massimalisti era tale: «Se Lenin mollasse la presa – scrisse Bordiga – ci saremmo noi a riagguantarla».

La posizione di Lenin in questo momento è assai divergente da quella bordighiana e si sviluppa parallelamente alla riflessione gramsciana, su cui ancora una volta si crea una sintonia reale tra i due. L’esito finale della lotta interna al PSI aveva trasformato quella che sulla carta avrebbe dovuto essere l’espulsione di una minoranza riformista in un periodo rivoluzionario in una scissione di una minoranza comunista all’inizio di una fase reazionaria. Si trattava allora di mantenere ferme le posizioni politiche irrinunciabili dell’Internazionale, ma di procedere al contempo al recupero della maggioranza dei lavoratori che nei fatti, non aveva seguito i comunisti. Qui esiste un punto centrale e ancora attualissimo della riflessione di Lenin – e in parallelo di Gramsci – sui compiti del Partito Comunista e sul rapporto tra partito e classe. La conquista della maggioranza del proletariato diventa allora il compito principale nei Paesi occidentali[34]. Aprendo la riflessione del III congresso dell’Internazionale Lenin spiega:

«i partiti comunisti non hanno ancora conquistato in nessun luogo la maggioranza della classe operaia; non solo al modo di dirigere organizzato, ma neppure ai principi del comunismo. Questa è la base di tutto. Indebolire questo fondamento dell’unica tattica sensata è delittuosa leggerezza»[35]

La conquista della maggioranza non deve essere intesa in modo formale – precisa Lenin – come intendono i democratici, ma una conquista reale sul campo.

«I nostri partiti – nella stragrande maggioranza dei paesi- sono ancora lontani, molto lontani dall’essere quello che dovrebbero essere, dei veri partiti comunisti, delle vere avanguardie della classe effettivamente rivoluzionaria, dell’unica classe rivoluzionaria; dell’essere cioè, dei partiti i cui membri partecipano tutti alla vita quotidiana delle masse. Ma noi conosciamo questo difetto […] e lo correggeremo».

In questo senso viene concepita la tattica del fronte unico con l’obiettivo esplicito di recuperare all’influenza comunista la parte maggioritaria della classe operaia. Il III congresso dell’Internazionale Comunista approva queste tesi per l’Italia con 19 voti a favore e il voto contrario della delegazione italiana, francese e spagnola.

«Il comunismo italiano diventerà in Italia un’attiva forza di massa se il Partito Comunista lotterà senza tregua contro la politica opportunistica di Serrati e avrà, nello stesso tempo, uno stretto legame con le masse proletarie nei sindacati, durante gli scioperi, nella lotta contro il movimento controrivoluzionario dei fascisti, se esso unificherà le azioni di massa della classe operaia e trasformerà le esplosioni spontanee in combattimenti accuratamente preparati…»[36].

Ed è Lenin stesso, ancora una volta a dare indicazioni e giudizi preziosi al movimento italiano. Da una parte – afferma – Serrati è colpevole «per la questione italiana e non per la tattica in generale», ossia per la mancata espulsione dei riformisti, che pone il PSI serratiano al di fuori della linea dell’Internazionale. Dall’altra avverte i comunisti italiani:

«un consiglio assai serio e un’esigenza: finché non avrete saputo tenacemente, pazientemente, abilmente convincere e attirare la maggioranza degli operai serratiani, non fate i gradassi…»

Nel discorso di Lenin sulla difesa della nuova tattica la polemica è tutta con la delegazione italiana ed in particolare con Terracini. «Il nostro primo passo – dice Lenin – è stato la creazione di un vero partito comunista per sapere con chi abbiamo a che fare e in chi possiamo avere piena fiducia […] il nostro primo problema è creare un partito veramente rivoluzionario, ma questa non è che una scuola preparatoria […] Abbiamo già detto al II Congresso che i centristi sono nostri nemici. Ma si deve andare avanti. Il secondo passo, dopo esserci costituiti in Partito, consiste nell’imparare a preparare la Rivoluzione. In molti paesi non abbiamo neppure imparato a prendere la direzione».[37]

Lenin non ha remore a definire il cambio di tattica dell’Internazionale un passo indietro, dimostrando tra l’altro che questa formulazione appartiene alle possibilità di azione tattica dei comunisti, ben sapendo che una tale ritirata può servire a preparare e organizzare le forze verso una nuova offensiva, specialmente in un contesto mutato.

È nel III Congresso inoltre che Lenin saluta per la prima volta la costituzione degli Arditi del Popolo

«A Roma ha avuto luogo un comizio per organizzare la lotta contro il fascismo, al quale hanno partecipato 50 mila operai, rappresentanti di tutti i partiti: comunisti, socialisti, ed anche repubblicani. Vi sono andati 5 mila combattenti in uniforme militare e non un solo fascista si è azzardato a farsi vedere per le strade […] Lazzari ha lodato la nostra risoluzione sulla tattica. È un grande successo del nostro congresso. Se Lazzari l’accetta, migliaia di operai, che seguono Lazzari verranno certamente a noi e i loro capi non potranno allontanarli facendo loro paura. Bisogna retrocedere per meglio saltare …»[38]

La vicenda degli Arditi del Popolo sarà invece emblematica del settarismo del PCd’I bordighiano che di fronte alla reazione fascista avanzata respingerà quel tentativo spontaneo di resistenza, per trincerarsi dietro un’illusoria costituzione di propri gruppi di difesa, contribuendo così a isolare i comunisti. I socialisti si proclameranno estranei al movimento e lo stesso farà il PCd’I con una circolare che sconfesserà l’azione istintiva di sostegno di molti comunisti, tra cui Gramsci. Nel 1921 sull’Ordine Nuovo in un articolo non firmato Gramsci scrive: «Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del Popolo? Tutt’altro: essi aspirano all’armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia»[39] Sul punto la requisitoria dell’Internazionale sarà davvero spietata:

«Dove erano in quel momento i comunisti? Erano occupati ad esaminare con la lente di ingrandimento il movimento per decidere se era sufficientemente marxista e conforme al programma? […] il PCI doveva penetrare subito energicamente il movimento degli Arditi, fare schierare attorno a sé gli operai e in tal modo convertire in simpatizzanti gli elementi piccolo borghesi, denunciare gli avventurieri ed eliminarli dai posti di direzione, porre elementi di fiducia alla testa del movimenti. Il Partito Comunista è il cervello e il cuore della classe operaia e per il Partito, non c’è movimento a cui partecipano masse di operai troppo basso e troppo impuro».[40]

A cogliere in pieno la necessità della nuova tattica è Gramsci il quale rileva come l’atteggiamento del bordighiani «porti alla passività e alla inazione e consista in ultima analisi semplicemente nel trarre dagli avvenimenti ormai svoltisi, senza l’intervento del Partito nel suo complesso, degli insegnamenti di solo carattere pedagogico»[41]

Al contrario il Fronte Unico, lungi da essere un cedimento sui principi, è uno strumento per legarsi in modo organico alle masse, promuovendo azioni comuni dalle quale condurre anche – e proseguendo con vera forza e seguito – la lotta ideologica contro le posizioni arretrate. Il Fronte Unico è quindi un terreno di incontro/scontro in cui dialetticamente questi elementi si compenetrano e non si escludono a vicenda. I rappresentanti socialdemocratici dice Lenin in uno dei suoi ultimi scritti: «sperano per mezzo della giusta tattica del fronte unico di persuadere gli operai della giustezza della tattica riformista e della erroneità della tattica rivoluzionaria. Noi abbiamo bisogno del fronte unico perché speriamo di persuadere gli operai del contrario»[42]. La consapevolezza della presenza di uno scontro di concezioni, e del tentativo dei socialisti di utilizzare il fronte unico a proprio vantaggio, non è per Lenin il motivo per interrompere una strategia giusta, ma una via obbligata, una palestra per gli stessi comunisti che devono imparare a far valere e vincere le proprie posizioni. Ritorna qui la complessità del ragionamento leninista per i Paesi dell’Europa occidentale largamente presente nell’Estremismo: non è sottraendosi a un terreno di contraddizione come quello parlamentare, o quello sindacale e oggi quello del fronte unico, che i comunisti otterranno la loro vittoria, ma avendo la capacità politica di vincere queste sfide mantenendo saldezza nei propri principi finali.

Lenin in proposito attaccando Serrati e le sue concezioni arretrate, ricorderà ai comunisti italiani di «non staccarsi dalle masse, non perdere la pazienza dinnanzi al difficile lavoro di denuncia delle truffe di Serrati, dinnanzi ai semplici operai; non soccombere alla tentazione troppo facile e ancor più pericolosa: quando Serrati dice «a», dire «meno a» […]»[43] Similmente ai comunisti tedeschi Lenin aveva ricordato la giusta misura della polemica da tenere nei confronti dei «centristi», affermando chiaramente che «Esagerare la lotta contro il centrismo significa salvare il centrismo, consolidare la sua posizione, la sua influenza sugli operai»[44] evitare il limite oltre il quale questa critica «si trasforma in uno sport».

L’insieme di queste posizioni è di grandissima attualità oggi. Lo è innanzitutto perché concepire in un momento di riflusso del movimento operaio e quindi paragonabile – con tutte le enormi differenze – a quello attuale, che è sotto molti aspetti di gran lunga peggiore. In Lenin la questione della costituzione del Partito come reparto di avanguardia della classe, è costantemente accompagnata dalla questione di mantenere un legame organico del partito con la classe, di evitare ogni forma di settarismo e isolamento. Un partito che una volta affermati i principi irrinunciabili non si chiuda nella continua riaffermazione di questi, ma proprio in virtù di quei principi, si proietti in un largo lavoro di massa anche attraverso compromessi, tatticismi sempre rivedibili sulla base delle necessità della fase storica. Se il Partito leninista è un partito rigido e inflessibile nei suoi principi, è flessibile nella tattica: la rigidità trasmessa sulla tattica diventa ingessatura e condanna all’irrilevanza, in questo risiede la critica al settarismo di Lenin.

Ma sarebbe un errore vederne un tratto caratteristico solo di una fase, questa riflessione è sempre presente in Lenin. Quando al II congresso rispondendo a Serrati che opponeva le peculiarità nazionali della questione italiana disse «Liberatevi di Turati, poi se necessario alleatevi con lui».[45] già in questa affermazione era ben evidente, e dalla posizione di maggiore vantaggio di una espulsione dei riformisti, la necessità di preservare le due diverse esigenze: da una parte la costituzione di un nucleo separato dei comunisti, dall’altra quella di non perdere- anche attraverso la mediazione dell’alleanza con i riformisti, che erano a capo delle strutture sindacali – l’influenza e la capacità di influenza e successivamente direzione di massa.

È qui che risulta chiara anche la lettura particolare della maggiore complessità del processo rivoluzionario in occidente e la tattica del fronte unico diviene la dimostrazione della non pedissequa del fatto che i bolscevichi non intendevano imporre un modello di processo rivoluzionario che non tenesse conto delle specificità nazionali. «Noi non abbiamo mai preteso – dice Lenin – che Serrati copiasse in Italia la rivoluzione russa. Sarebbe sciocco pretenderlo. Siamo abbastanza intelligenti e flessibili per evitare una sciocchezza simile. Ma Serrati ha dimostrato che la sua politica in Italia era sbagliata»[46] Nella polemica tra Lenin e Serrati si coglierà un accenno della questione sempre presente delle particolarità nazionali, utilizzata non per posare una strategia rivoluzionaria sulle condizioni e il contesto nazionale, ma per negare quella strategia. Elementi che abbiamo visto nella successiva e progressiva elaborazione delle vie nazionali al socialismo, e nell’autonomia rispetto alla possibilità della compartecipazione alla gestione del potere capitalistico nei governi di coalizione borghesi della sinistra europea degli ultimi decenni.

La tesi leninista dimostra che una strategia di fronte unico che ha l’obiettivo di stabilire legami effettivi di massa tra i comunisti e i lavoratori è cosa ben diversa dalle alleanze borghesi e dalla compartecipazione dei comunisti alla gestione del potere capitalistico: la prima è una forma di alleanza di classe, che serve ai comunisti per far avanzare in concreto la capacità di mobilitazione e direzione delle masse popolari, la seconda è una forma di tradimento dei principi che pone i comunisti alla coda degli interessi borghesi, portandoli a tradire il proprio compito storico.

Confondere l’una con l’altra, in entrambi i casi è cadere in errori opposti: opportunismo e settarismo. E soprattutto non vedere che l’alleanza tattica con forze di classe, è un modo per proiettare su un’altra scala la battaglia irrinunciabile sui principi, e non un modo per abbandonare quella lotta che prosegue parallelamente e indipendentemente dalla realizzazione del programma comune di lotta che esaurisce le contingenze immediate. Ma prosegue nel vivo, in un terreno più largo e “di massa”.

Una questione da valutare in modo scientifico e sulla base delle caratteristiche storiche, politiche e di classe delle forze in campo. Su questo il contesto dell’inizio del ‘900 è assai diverso da quello di oggi. Quando avviene la scissione di Livorno, il PSI è un partito di massa con un fortissimo radicamento di classe. Sebbene la socialdemocrazia abbia fallito nella sua missione storica, e al momento della possibile presa del potere, il suo lavoro storico costituiva comunque un patrimonio di partenza per i comunisti che oggi si è perso del tutto. Correttamente Togliatti riconobbe all’indomani della morte di Serrati l’importanza del lavoro dei capi della prima generazione avevano condotto senza il quale «noi non avremmo avuto in Italia un movimento operaio che, sviluppandosi, doveva raggiungere una forza rivoluzionaria prorompente; non avremmo avuto un partito che, nel corso di trent’anni fu unanimemente riconosciuto da tutta la classe operaia italiana come il suo unico partito […]» La socialdemocrazia aveva contribuito a realizzare il primo compito politico che Marx e Engels avevano scritto nel Manifesto: la costituzione del proletariato in classe e in partito politico. In questo senso allearsi con Turati, la cui influenza sulla classe operaia era ancora radicata, aveva senso.

Nei paesi a capitalismo avanzato che avevano conosciuto nel secolo scorso un forte movimento operaio la maggioranza di questo lavoro si è perso con l’ondata della controrivoluzione in URSS. In Italia possiamo dire che si sia quasi completamente perduto. Oggi non esistono partiti di massa su base riformista, come il PSI del secolo scorso, e le categorie dell’adesione politica delle masse sono completamente mutate. La socialdemocrazia che a inizio ‘900 affermava nel suo programma l’obiettivo storico della conquista del socialismo, sebbene nelle forme evoluzionistiche e riformiste e poi tradito nei fatti, non esiste più nel contesto italiano. La classe operaia non ha un partito di riferimento, ma è frammentata e polverizzata e priva di una stessa concezione di sé. Il compito odierno dei comunisti, organizzare la parte più cosciente della classe operaia, si lega alla necessità stessa di ricostruire la coscienza di classe e quell’insieme di elementi organizzativi che i partiti socialisti tradizionali avevano garantito ad inizio ‘900, ovviamente in forme che tengano conto dei mutamenti avvenuti. In questo l’arretratezza della fase consegna ai comunisti un compito ancora più gravoso di quello che affrontarono nel primo dopoguerra, al momento della nascita dei partiti.

Tutto ciò è parte delle difficoltà su cui si basa la ricostruzione comunista post 1989-91 che in larga parte, lungi dal ricostituirsi sulla base di una vittoria e in una fase di avanzamento – anche apparente – del movimento operaio, si ricostituisce sul terreno di una serie di sconfitte di portata storica. Ne deriva anche l’assenza di quell’autorevolezza che, presente in Lenin e nel partito bolscevico, fu elemento essenziale della costituzione della III Internazionale. Nel punto più aspro della polemica di Lenin con Serrati, la risposta del direttore dell’Avanti! al rivoluzionario russo parte dalla costatazione di «quanto sia difficile e penoso per un modesto compagno, quale io sono e quali erano gran parte dei delegati a quel congresso – il porsi in discussione con voi. Difficile perché voi avete attorno tutta la potente suggestione che promana dall’uomo che ha voluto, che ha fatto la rivoluzione proletaria e la difende, con forza e con sagacia, contro un mondo di nemici».[47] L’assenza di un riferimento internazionale, di un “modello” autorevole e vincente sebbene questo concetto non sia riducibile a fotocopiatura di modelli, è un punto aperto nelle vicende anche internazionali del movimento comunista, su cui si scontrano anche i tentativi più avanzati di ricomposizione unitaria avanzati in questi anni. Ciò ovviamente non significa negare l’esistenza di esperienze più avanzate, ma riconoscere il dato obiettivo dell’assenza di un fattore propulsivo in grado di disporre della necessaria autorevolezza per portare questi primi passi su un piano organizzativo unitario superiore.

Prendere atto delle profonde differenze storiche della nostra fase, non deve però far perdere di vista alcuni elementi essenziali: la costituzione del Partito Comunista è una necessità storica, ma il compito dei comunisti non si esaurisce nel costituirsi in Partito. Il lavoro dei comunisti deve essere orientato a portare la maggioranza dei lavoratori sulle posizioni della minoranza rivoluzionaria organizzata in Partito. La stessa costruzione del Partito diverrebbe inutile se ad essa non corrispondesse una capacità reale di lavoro nelle masse. Molto indicative sono sul punto le considerazioni di Lenin ai comunisti inglesi, svolte parallelamente a quelle rivolte agli italiani e tedeschi.

Premesso che il Partito Comunista organizza una minoranza della classe operaia, quella più cosciente e determinata, «se la minoranza – dice Lenin – non sa dirigere le masse, legarsi strettamente ad esse, vuol dire che essa non è un partito e in generale non vale niente, anche se si darà il nome di partito o di comitato nazionale dei comitati dei delegati di fabbrica»[48] Non basta chiamarsi Partito per essere realmente tale.[49]

Quano al concetto di “massa”, da porre in relazione con il Partito, per Lenin non si tratta di qualcosa di storicamente fisso, ma di un elemento che muta quantitativamente nel tempo. In un frangente iniziale poche migliaia di operai rivoluzionari possono essere considerati una massa. In una fase successiva – quella che presuppone la conquista del potere – il concetto di massa si trasforma in quello di maggioranza, la cui adesione al processo rivoluzionario è indispensabile per il suo trionfo. Con la trasformazione storica del concetto di massa, muta anche implicitamente il “tipo” di massa da conquistare. In una fase di arretratezza come questa, quindi la conquista delle masse deve necessariamente intendersi come una sorta di accumulazione originaria. Un processo di tale genere nell’Italia di oggi non può essere attuato per scissione – non esistendo nulla da scindere in termini di massa – ma necessariamente per aggregazione di forze omogenee attorno ad una linea comune, e capacità di queste forze di estendere attraverso una tattica di fronte unico di classe, la propria influenza. Fronte unico che non potrà attuarsi nelle forme dell’inizio del secolo scorso data l’assenza di un soggetto paragonabile al PSI di allora, e la completa compromissione borghese della socialdemocrazia tradizionale e la sua inversione di composizione di classe, ma dovrà mirare a rivolgersi ai rivoli della polverizzazione politico-sindacale del movimento comunista italiano attuale, cper trovare elementi di rivendicazioni comuni su cui costruire un terreno di ricomposizione di classe.

Bisognerà analizzare concretamente le organzzazioni sindacali, individuarne i referenti politici, e su questo piano avanzare di volta in volta tattiche in grado di unire rivendicazioni specifiche e generali, conentendo ai comunisti un rapporto diretto con la massa dei lavoratori, garantendogli una piena agibilità politica innanzi al più vasto numero di lavoratori, che solo attraverso la condivisione reale delle lotte è possibile davvero conquistare. Una volta organizzata la presenza dei comunisti attraverso la loro costituzione in Partito, non è corretto continuare a più limitarsi alla riaffermazione di principi di indipendenza dalle forze borghesi – che nessuno pone in discussione – ma procedere alla seconda fase, quella della conquista delle masse, sfruttando ogni occasione, ogni lotta parziale, in cui siano presenti segmenti di classe.

Il decennio di avvenimenti e posizioni politiche che videro Lenin interagire e rapportarsi con il movimento operaio italiano contengono alcuni punti fermi di grande valenza e attualità. Evitare di cadere nel tradimento opportunista in ogni sua forma, compresa la deviazione social-patriottica che distrusse la Seconda Internazionale. Non ridursi a professioni di massimalismo, ma pianificare una propria azione organizzata coerente con gli obiettivi dati, perché la rivoluzione si costruisce non si attende. Ricordare che la costituzione dei comunisti in partito politico indipendente è premessa ma non esaurisce il compito storico dei comunisti, tanto più in una fase arretrata come la nostra; che parallelamente alla lotta all’opportunismo è necessario evitare di cadere in atteggiamenti settari, recidendo nei fatti il legame organico indispensabile alla necessaria conquista delle masse. E per fare questo – Lenin insegna – è possibile anche fare tatticamente qualche passo indietro in un contesto di unità/dialettica con organizzazioni politiche e sindacali che professano concezioni più arretrate, ma la cui vittoria deve essere dimostrata sul campo e non chiamandosi fuori dagli eventi, e compiacendosi per una propria presunta – quanto spesso inesistente – purezza. I comunisti non devono mai tirasri indietro da occasioni di confronto con le masse popolari, anche se parziali e arretrate avendo come obiettivo quello di porsi alla testa delle lotte e scalzare eventualmente elementi di direzione arretrati. Solo così si potrà fare un passo avanti. Mai il rifiuto di scendere nel terreno della contesa, di “sporcarsi le mani” porterà consensi, convertendosi invece in una eccezionale teoria della passività ammantata di apparente purezza.

La portata innovativa della tattica del III congresso dell’Internazionale poté essere applicata in Italia solo con la vittoria delle tesi di Gramsci su Bordiga, con il Congresso di Lione. Troppo tardi all’epoca perché riuscisse a misurarsi sul campo, di fronte all’avanzata ormai inarrestata del fascismo. Tardi avvenne la nascita del PCdI, tardi l’applicazione della nuova tattica.

La storia di queste vicende insegna che anche il tempo è importante, e – come abbiamo scritto nel nostro editoriale – non si accomoda alla nostra arretratezza. Oggi abbiamo di fronte la prospettiva di una crisi sociale enorme. Le ultime stime parlando di un crollo del PIL italiano a -15%, il più grande calo nella storia repubblicana. Una fase di questo genere non può che essere – similmente a quanto fu un secolo fa – quella che precede una grande avanzata in senso progressivo, oppure un ulteriore contraccolpo della reazione. Non commettiamo lo stesso errore, di fronte alla crisi imminente che aprirà spazi importanti in termini di lotta e prospettiva se saremo capaci di fare la nostra parte, con una tattica adeguata alla fase attuale.


Note
[1] Proprio Lenin già nel 1921 nella relazione al III congresso dell’Internazionale ammetterà «la conclusione definitiva che traggo è la seguente: la rivoluzione internazionale, che noi prevedevamo si sviluppa, ma questo movimento progressivo non è lineare come ci attendevamo» in Lenin Opere in VI Volumi.
[2] Si veda ad esempio il racconto di Mario Montagnana, al tempo esponente del PSI torinese e poi dirigente del futuro PCdI che nelle sue memorie Ricordi di un operaio torinese, Edizioni Rinascita, 1952, scrive: «Smirnov e Golsenberg vennero accolti al grido quasi unanime di “Viva Lenin!”, che si rinnovava, lanciato da mille e mille bocche, ogni qualvolta essi accennavano alla necessità di continuare la guerra. “Viva Lenin! Viva Lenin! Viva Lenin!”. I due poveri menscevichi erano desolati. Livido l’uno e rosso di rabbia l’altro, non sapevano più che dire né a quale santo raccomandarsi». Sul punto anche P. Spriano, «Storia del Partito Comunista Italiano» vol. I
[3] Per una lettura interessante delle manifestazioni popolari di legame con la figura di Lenin consiglio il testo di F. Loreto «Profondo Rosso, La Rivoluzione Russa e il movimento operaio socialista in Italia» in storieinmovimento.org
[4] Lettera di Lenin a Serrati, in Avanti! (edizione romana) 5 dicembre 1919
[5] P. SPRIANO «Storia del Partito Comunista Italiano». Riportata anche in V.GENTILI Volevamo Tutto.
[6] Oggi siamo abituati alla comunicazione in tempo reale e forse tendiamo implicitamente a dimenticare il contesto dell’epoca, le profonde differenze tecnologiche e gli ostacoli di natura politica. Molte delle comunicazioni veniva intercettate e sottoposte a censura negli anni della guerra. Le traduzioni degli articoli si scontravano ben più di oggi con le difficoltà a reperire buoni traduttori con il rischio di comprendere solo parzialmente le posizioni reali. Anche i contatti diretti erano assai complessi e le cronache dei viaggi dei rivoluzionari in tutto il continente sono spesso vere e proprie avventure. Lo stesso Lenin nella lettera a Lazzari e Serrati dell’agosto del 1919 precisava: «Sappiamo assai poco del vostro movimento; non abbiamo nessun documento. Tuttavia, quel poco che sappiamo ci dimostra che voi e noi siamo contro l’Internazionale gialla di Berna che inganna le masse, e per l’Internazionale comunista». E nella successiva missiva dell’ottobre dello stesso anno indirizzata a Serrati esordiva ricordando che «le notizie che noi riceviamo dall’Italia sono molto scarse e ci pervengono solo per mezzo di giornali stranieri non comunisti». Anche la divergenza tra la data di redazione e il giorno di pubblicazione delle lettere sull’Avanti dice molto sulle difficoltà di comunicazione dell’epoca.
[7] si tratta del documento «Per un rinnovamento del Partito Socialista Italiano»
[8] La circostanza è raccontata da P. SPRIANO in «Lenin e la scissione di Livorno» pubblicato sull’Unità del 10 gennaio 1971. L’articolo riporta lo studio condotto da storici sovietici che aveva portato alla luce questo particolare. Lenin chiese e ottenne delle traduzioni specifiche di articoli si Serrati, posizioni di Turati, articoli del Soviet (giornale che faceva capo a Bordiga) e di Gramsci
[9] Avanti! 24 maggio 1915
[10]La lettera sarà pubblicata solo nel 1923 da Serrati, che allora non vi diede risposta. L’episodio è raccontato in F.Fabbri L’azione politica di G. M Serrati nel periodo della neutralità pubblicato in Il PSI e la Grande Guerra , Rivista storica del socialismo a cura di L. Cortesi.
[11] l’episodio è tratto da il PSI e la Grande Guerra pag. 101
[12] LENIN «I compiti del proletariato», 1915, in Lenin Opere scelte in VI Volumi, Editori Riuniti
[13] P.SECCHIA, Ricerche e ricordi su Giacinto Menotti Serrati
[14] Così giustamente anche P. Togliatti in Serrati op. cit, per il quale «senza il Serrati il partito socialista non avrebbe avuto lo stesso atteggiamento durante la guerra, in quanto sarebbe passato rapidamente dal neutralismo di Lazzari al difensivismo e socialpatriottismo di Turati»
[15] L’Avanti edizione del 29 gennaio 1915
[16] Critica Sociale edizione n. 2/1915
[17] tra le molte citazioni possibili, articolo non firmato ma di Serrati «La guerra e le classi sociali», in Avanti 23 ottobre 1914 «Una sola è la guerra che ci potrà far uscire dalla neutralità, ed è quella che in qualcuno dei grandi Paesi oggi straziati dall’orrendo conflitto capitalistico, volessero i proletari ingaggiare sollevando la rossa bandiera delle loro rivendicazioni contro gli sfruttatori del loro lavoro e contro gli autori della loro carneficina. E ancora quando con una feroce postilla di redazione attaccò l’articolo «proletariato, patria e guerra di difesa» di Zibordi, esponente riformista, «Le idee espresse in quello e nel precedente articolo dal compago Zibordi non sono le nostre […] i proletari guardano alla patria di domani che sarà la patria socialista, la patria del proletariato redento. Essi non sono nemici di una patria…sono nemici di tutte le patrie borghesi. Rifiutano di dimenticare la loro classe per difendere la patria che non è loro. Rifiutano di farsi assassini dei propri compagni di lavoro» in Avanti 1 gennaio 1915.
[18] Lenin, Pacifismo borghese e pacifismo socialista in Opere in VI volumi op. cit.
[19] LENIN, Pacifismo Borghese e pacifismo socialista in Opere in VI volumi cit.
[20] LENIN, sul movimento operaio italiano, p. 98
[21] A. BORDIGA, Il fatto compiuto in Avanti 24 maggio 1915
[22] «Particolarmente la vostra decisione sulla partecipazione alle elezioni del Parlamento borghese mi sembra molto giusta. Spero che essa contribuisca a comporre i dissensi che sono sorti oggi, a questo proposito, fra i comunisti tedeschi. Non dubito che gli opportunisti aperti o mascherati -ed essi sono molti nel gruppo parlamentare socialista italiano!- tenteranno di annullare le decisioni del Congresso di Bologna. La lotta contro queste tendenze non è ancora finita, ma la vittoria di Bologna vi renderà più facili alle vittorie». Lettera di Lenin a Serrati e Lazzari 1919
[23] i passi riportati sono tratti da Lenin Opere in VI volumi.
[24] Lettera di SERRATI a Lenin, in L. Cortesi, Le origini del PCI, studi e interventi sulla storia del comunismo in Italia. p 191
[25] P. SPRIANO, introduzione a Lenin Sul Movimento Operaio Italiano
[26] Le condizioni originarie erano 19 a cui Lenin aggiunse una 20esima, e furono portate a 21 a seguito del dibattito su proposta di Bordiga
[27] il testo è contenuto nell’antologia A. GRAMSCI Scritti Politici, volume I recentemente edita da PGreco.
[28] P. SPRIANO Lenin e la scissione di Livorno in l’Unità 19 gennaio 1971
[29] il testo è riportato nell’articolo di P. Spriano sull’Unità
[30] LENIN A proposito della lotta in seno al PSI in Lenin Opere in Vi Volumi.
[31] P. SPRIANO «Storia del Partito Comunista Italiano»
[32] LENIN III congresso dell’Internazionale Comunista in Lenin, Opere in VI volumi.
[33] A.GRAMSCI Contro il pessimismo, L’Ordine Nuovo 15 marzo 1924 ora in Gramsci Scritti Politici vol. II
[34] La questione della conquista della maggioranza diviene cruciale in Lenin. Tra tutte le numerose dichiarazioni, al III congresso dell’Internazionale in replica a Terracini riportato in P. SPRIANO, Storia del Partito Comunista Italiano p. 158; LENIN Lettera ai comunisti tedeschi in op cit.
[35] LENIN Osservazioni sui progetti delle Tesi sulla tattica per l III Congresso dell’Internazionale Comunista, in Lenin Opere in VI volumi.
[36] LENIN, Lettera ai comunisti tedeschi, in op cit.
[37] LENIN Discorso in difesa della tattica dell’Internazionale Comunista, in op cit
[38] ibidem
[39] A GRAMSCI Gli «Arditi del Popolo» L’Ordine Nuovo 15 agosto 1921 in Gramsci, Scritti Politici vol. II
[40] P. SPRIANO Storia del Partito Comunista Italiano
[41] A. GRAMSCI, I significati e i risultati del III congresso del PCd’I in Gramsci, Scritti Politici vol. II
[42] LENIN Abbiamo pagato troppo caro in Lenin Opere in VI Volumi
[44] LENIN lettera ai comunisti tedeschi, in op cit
[45] l’episodio è ricordato anche da P. SPRIANO in «Storia del Partito Comunista Italiano»
[46] LENIN opere in VI volumi
[47] G. SERRATI Risposta di un comunista unitario al compagno Lenin in Avanti! 16 dicembre 1920
[48] LENIN. Discorso sulla funzione del Partito Comunista in Lenin Opere in VI Volumi
[49] Viceversa dice Lenin nel testo citato, si può essere partito se si agisce come tali anche senza chiamarsi formalmente partito. Interessante la posizione leninista nel quadro del movimento operaio inglese e dell’arretratezza di quella condizione, e della sfiducia nei confronti della parola partito.

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Eros Barone
Wednesday, 06 May 2020 09:32
Intervengo in margine ai commenti per denunciare un malcostume che per la verità, pur essendo esemplificato dagli autori di questi articoli del giornale telematico "L'Ordine Nuovo", è comune a diversi altri autori che pubblicano i loro contributi nel sito di "Sinistra in Rete". Si tratta dell’abitudine a non rispondere ai commenti di quei frequentatori del sito che avanzano osservazioni critiche non peregrine, non infondate e seriamente argomentate, in merito al contenuto o all’impostazione di questo o quell’articolo. A quanto pare, ciò accade in quanto la scelta aprioristica di questi autori è, innanzitutto, quella di recitare la parte del convitato di pietra, affermando per un verso una loro presunta superiorità nei confronti delle "vili genti meccaniche" postopinanti ed obbiettanti, e per un altro verso sgravandosi così del compito oneroso di una impegnativa interazione dialettica. Un grande critico letterario e polemista di razza, Luigi Russo, autore di classici commenti come quelli ai "Promessi Sposi" del Manzoni e ai "Malavoglia" del Verga, ha elaborato a tale riguardo una categoria, quella di "secentismo trascendentale", che scolpisce in modo perfetto questo atteggiamento di sprezzante distanziazione prossemica e il conseguente comportamento omissivo od elusivo. Eppure, chi si rivolge ad una ‘agorà’ telematica come quella di “Sinistra in Rete” dovrebbe sapere che non può parlare ‘ad’ ascoltatori passivi e più o meno ricettivi, ma deve parlare ‘con’ persone che spesso rivelano nei loro commenti un livello politico-intellettuale e
stilistico-letterario superiore a quello di non pochi autori degli articoli di carattere, per così dire, istituzionale. Pertanto, trovo davvero poco invidiabile la contraddizione performativa in cui si sono cacciati codesti 'convitati di pietra': se continueranno con il loro mutismo non faranno che confermare la presente accusa; se invece accetteranno il confronto, il loro ritardo dimostrerà il carattere politicamente e intellettualmente opaco della loro scelta iniziale di sottrarsi a quello che ho definito come il “compito oneroso di una impegnativa interazione dialettica”. E' chiaro, infine, che questo richiamo alla necessità del confronto e al suo valore propulsivo implica il riconoscimento, almeno in linea di principio, delle seguenti condizioni: a) l'importanza oggettiva del tema proposto o del problema trattato, b) l'importanza politico-ideologica di una discussione seria sul tema proposto o sul problema trattato, c) il carattere non autoreferenziale degli estensori degli articoli, c) il carattere non autoreferenziale degli autori dei commenti. Deve essere però altrettanto chiaro che l'alternativa alla mossa antisocratica è l'atteggiamento reverenziale di sottomissione ad una imperscrutabile e inoppugnabile 'auctoritas' che si esprime nella pia esortazione del sommo poeta: "State contenti, umana gente, al quia; / ché se possuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria" ("Purgatorio", c. III, vv. 37-39).
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Eros Barone
Monday, 04 May 2020 21:43
Concordo in gran parte con le penetranti osservazioni critiche espresse da Mario Galati e mi permetto di aggiungerne altre, quale omaggio alla fertilità euristica dell'articolo di Alessandro Mustillo. Il dato su cui riflettere è il seguente: i partiti comunisti rappresentano oggi, nella più estensiva delle ipotesi, una quota di consenso elettorale inferiore o pari al 3%. Questo significa che gli italiani non comunisti o addirittura ostili al comunismo sono più del (o pari al) 97%. Che l'Italia non sia mai stata incline verso il 'comunismo' e la 'sinistra' si sa da parecchio tempo, di là dagli stambureggiamenti mistificatori sul "più grande partito comunista dell'Occidente", che era grande numericamente proprio perché non era comunista né politicamente né ideologicamente. Fin dalle elezioni del 18 aprile 1948, a soli tre anni dalla caduta di Mussolini, le forze clerico-fasciste, rinnovata espressione del vecchio blocco sociale che aveva sostenuto il fascismo, ripresero saldamente in mano, con il concorso determinante degli USA e del Vaticano, le redini del comando, dopo che il 2 giugno 1946 il referendum su monarchia o repubblica era finito con una vittoria di stretta misura della seconda sulla prima (54,3% contro 45,7%). Insomma, il patrimonio politico-elettorale conquistato con la Resistenza non era poco, ma neanche molto (grosso modo, un terzo del paese). Facciamo allora un confronto tra due situazioni storiche: dopo il "biennio rosso" (1919-1920), nelle elezioni politiche del 1921 socialisti e comunisti raccolsero insieme il 29,3% (il PCd'I, appena costituitosi, ottenne il 4,6%); il 18 aprile del 1948, dopo vent'anni di fascismo, cinque anni di guerra, due anni di resistenza armata, PCI e PSIUP, uniti nel Fronte Democratico Popolare, raccolgono il 30,98%: è quasi la stessa percentuale. La situazione attuale, dopo la scomparsa della sinistra di ispirazione (più o meno vagamente) marxista dal parlamento nel 2008, è il prodotto della fine di questa parabola storica. Sennonché, oggi più che mai, è vitalmente necessario, se si intende compiere anche un solo passo nella direzione giusta, individuare con chiarezza ideologica e rigore scientifico le cause oggettive e, soprattutto, le ragioni soggettive per cui in Italia il movimento comunista ha cessato da molto tempo di essere un soggetto storico ed è divenuto una forza ultraminoritaria del tutto irrilevante. Certo, il socialismo è storicamente attuale, ma questo non significa che esso sia politicamente attuale e nel nostro paese è ancor meno politicamente attuale che in qualsiasi altro paese capitalistico avanzato. Questa è, per l'appunto, la contraddizione in apparenza più paradossale: che nel momento in cui si ripresentano con una evidenza irrefutabile le ragioni e financo le basi oggettive per la trasformazione dei rapporti di produzione in senso socialista, le forze soggettive della trasformazione non sono mai state così deboli e immature come in Italia e in Europa.
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Mario Galati
Monday, 04 May 2020 18:44
Ovviamente, parlo di settarismo e dogmatismo rispetto alla scena mondiale. Una piccola parte del movimento che si esclude da un'esperienza di grandi proporzioni e si prepara a fare da sola; una ricostruzione storica di tipo filologico sull'esperienza passata e una sottovalutazione della sedimentazione di quella storia nel mondo attuale, del presente come storia.
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Mario Galati
Monday, 04 May 2020 18:37
L'articolo offre una buona ricostruzione del contesto in cui nacque il partito comunista in Italia, dei pregi di questo partito, dei suoi limiti e dei suoi errori. Non si può non concordare anche sulla conclusione della necessità attuale di una forza comunista e sulle considerazioni generali (astratte) di tattica e strategia.
Tuttavia, ritengo che l'autore ritragga queste conclusioni anche da alcune premesse errate e che, per questo motivo, rischino di essere conclusioni astratte e, poiché non aderenti alla situazione reale, errate esse stesse.
Primo errore:
Alessandro Mustillo scrive: "L’attualità delle vicende in oggetto risiede – nel giudizio di chi scrive – negli aspetti di forte similitudine tra il contesto dell’inizio del ‘900 e la società di oggi". In seguito attenuerá questa affermazione dicendo che ciò è, ma con le dovute enormi differenze. In realtà, l'unica analogia tra le due situazioni, passata e odierna, è la sconfitta del movimento operaio all'interno del capitalismo sviluppato, mentre il contesto in cui ciò avviene è completamente diverso. Si può essere sconfitti, ma vivi, oppure annichiliti e praticamente inoffensivi. Nel secolo scorso, per sconfiggere il movimento operaio la borghesia ha dovuto ricorrere alla coercizione fascista e ha dovuto continuare ad esercitare la violenza diffusa per mantenere il potere e impedire la riorganizzazione del movimento dei lavoratori. Oggi la camicia di forza visibile del fascismo non è stata ancora necessaria in quei termini, anche se la borghesia sta cercando di premunirsi in tale direzione per l'avvenire.
Secondo errore:
Le cause di questa sconfitta sono individuate nel crollo dell'URSS e dei paesi del socialismo reale dell'est europeo ("la controrivoluzione in URSS"). Ma prima di questo certamente fondamentale fattore, prima del 1989-1991, l'erosione e la disgregazione dei partiti comunisti e delle organizzazioni dei lavoratori era già in corso, e non solamente per i limiti soggettivi di questi partiti ed organizzazioni, bensì per una cosa spesso trascurata che si chiama "decentramento produttivo", superamento della concentrazione di fabbrica e revisione dell'organizzazione fordista. Una controffensiva economico-politica del capitale volta alla polverizzazione della classe lavoratrice nei luoghi di lavoro. Il tutto, ovviamente, nel contesto dello sviluppo del capitalismo dei consumi.
La "caduta del muro di Berlino", verità parziale, è lo stereotipo della propaganda borghese che occulta tutto il resto e permette alla borghesia di rimanere all'offensiva con uno slogan che ha un messaggio sottinteso: il crollo-fallimento, non la semplice sconfitta, di un modello; tutta la realtà della lotta di classe non sarebbe altro che l'adesione ideale ad un modello, sperimentato e crollato il quale chiude ogni percorso in quel senso.
Terzo errore.
Mustillo scrive: "L’assenza di un riferimento internazionale, di un “modello” autorevole e vincente sebbene questo concetto non sia riducibile a fotocopiatura di modelli, è un punto aperto nelle vicende anche internazionali del movimento comunista, su cui si scontrano anche i tentativi più avanzati di ricomposizione unitaria avanzati in questi anni".
Questa affermazione è strettamente connessa al secondo errore da me segnalato. Secondo questa visione, la fine dell'esperienza sovietica avrebbe lasciato il deserto e noi non avremmo alcun riferimento internazionale cui guardare. Questo ci indebolisce, rispetto al passato.
Mi sembra che questa visione, oltre a non riconoscere gli enormi cambiamenti avvenuti nel mondo, irreversibili e in via di ulteriore sviluppo, esiti di una vicenda e di una storia ancora in corso (altro che fallita!), sia ristretta e occidentocentrica. Che cos'è la Cina, per limitarci al caso emblematico e più importante? È il regno della restaurazione capitalistica? Noi non facciamo neppure lo sforzo di capire queste esperienze. Con presunzione escludiamo che l'esperienza storica di un partito comunista imponente in un paese ex coloniale di un miliardo e mezzo di persone abbia qualcosa da dirci e possa rappresentare un riferimento, non come modello da imitare pedissequamente, ma almeno come termine di esperienza e come parte di un campo di forze mondiale. Abbiamo la presunzione di pensare alla ricostruzione di un partito e di un movimento con le sole nostre forze, ignorando ciò che c'è nel mondo. Non è che qui si annida in forma ancora più aggravata l'errore che si attribuisce alle cosiddette "vie nazionali al socialismo"? Ossia, il mancato coordinamento in un campo internazionale e mondiale, in quel caso tarato da opportunismo e nel nostro caso tarato da dogmatismo e settarismo?
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Eros Barone
Saturday, 02 May 2020 23:26
Il ‘turning point’ da cui dipendeva il mutamento della situazione preinsurrezionale in situazione apertamente rivoluzionaria si colloca nel settembre 1920, quando la direzione del PSI (di cui, e questo va sottolineato, facevano parte, oltre a tutti i dirigenti massimalisti, anche gli ordinovisti Terracini e Tasca) rinunciò alla lotta rivoluzionaria e, di fronte alla provocazione dei riformisti che si dichiaravano pronti a cedere la direzione della Confederazione Generale del Lavoro ai massimalisti se questi intendevano fare la rivoluzione, non seppe rispondere se non investendo della decisione il Consiglio Nazionale della Confederazione. Si dovette perciò assistere alla farsa grottesca per cui, come ha ben detto Paolo Spriano (“Storia del partito comunista italiano”, vol. 1), “la rivoluzione fu messa ai voti”, e a decidere furono i burocrati del sindacato, i funzionari del partito e i deputati socialisti della Camera del Regno d’Italia. Chiaramente evasive, per non dir peggio, saranno le spiegazioni che daranno i ‘sinistri’ sulla rinuncia a svolgere la funzione rivoluzionaria che si erano attribuita. Dirà, ad esempio, Terracini al III Congresso dell’Internazionale comunista nel 1921: “Quando i compagni che dirigevano la C.G.L. dettero le dimissioni, la direzione del partito non aveva né con chi sostituirli, né la possibilità di sostituirli”, dimenticando che proprio lui era uno di quelli che dovevano sostituire la direzione collaborazionista del sindacato. La verità è che nessuno dei dirigenti politici, ivi compresi quelli che formeranno il nucleo centrale del futuro partito comunista, volle e seppe porsi alla direzione di un’insurrezione che aveva in sé anche diversi elementi di una ‘possibile’ sconfitta, ma che apriva la possibilità di sottrarre le masse alla direzione riformista che, invece, le portava ad una ‘sicura’ disfatta. Le conseguenze saranno pagate dal futuro P.C.d’I che farà la scissione ‘a sinistra’ in quanto la maggioranza del proletariato rimarrà con il PSI, e il nuovo partito rivoluzionario sarà un partito minoritario di ristrette avanguardie operaie, laddove questo sbocco ha la sua origine e la sua fonte nella rinuncia del settembre 1920 a scatenare una lotta rivoluzionaria diretta alla conquista del potere politico di Stato. Giustamente Lenin domanderà ai dirigenti della Sezione italiana dell’Internazionale: “Durante l’occupazione delle fabbriche si è forse rivelato un solo comunista?”. Per quanto riguarda il gruppo dell’“Ordine Nuovo”, esso con Gramsci aveva elaborato solo la prima parte di una politica di massa, definibile con la formula “dalle masse”, mentre il gruppo del “Soviet” con Bordiga poneva l’accento sulla seconda parte, definibile con la formula “alle masse”. L’unione – giacché di unione si trattò, non di unità – poteva portare anche ad una sintesi, ma il rifluire dell’offensiva operaia a Torino e i limiti essenzialmente ‘torinesi’ dell’esperienza politica di Gramsci e del suo gruppo determinarono la subordinazione di quest’ultimo alla direzione politica e ideologica di Bordiga, il quale peraltro intendeva escludere dal costituendo partito comunista gli incerti ed i comunisti dell’ultima ora, categorie nelle quali rientravano, secondo Bordiga e il suo gruppo, i 'torinesi'. Il succo del discorso sul rapporto tra Lenin e il movimento operaio sta forse in questo scambio di battute. Lazzari, un vecchio massimalista, aveva detto riferendosi all’occupazione delle fabbriche nel “biennio rosso” (1919-1920): “Le masse credevano di impressionare la borghesia con un atto di forza”. Lenin rispose: “Occupare le fabbriche, issare la bandiera rossa sulle ciminiere, mettere le guardie rosse sulle porte d’ingresso è il principio dell’insurrezione e non un semplice atto di forza”.
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