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Nihil sub sole novi. L’intervista di Veltroni ad Occhetto: anticomunismo e revisionismo storico

di Salvatore Distefano*

Caro Direttore de “L’AntiDiplomatico”, alcuni giorni fa avete pubblicato l’intervista di Veltroni ad Occhetto apparsa su “Il Corriere della Sera”. Poiché, per i temi trattati, non si tratta certo di un’intervista di routine, mi permetto – sempre nell’ottica della per noi preziosa collaborazione con il giornale che dirigi - di inviarti un articolo che il professor Salvatore Distefano ha scritto per “Cumpanis” proprio in relazione ai temi che in quell’intervista sono stati sollevati, sia da Veltroni che da Occhetto. Sperando di aver fatto cosa gradita, ti invio i miei più cari saluti. Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis”

83ead7ef3cfcf3045ccfb7dfa623f0a8Nihil sub sole novi: così si potrebbe titolare l’intervista che Achille Occhetto ha rilasciato a Walter Veltroni e che è stata pubblicata dal Corriere della Sera domenica 19 luglio 2020. Anzi, a pensarci bene, qualcosa di nuovo c’è: l’aspirazione degli ex dirigenti del PCI, PDS, DS e infine PD di riscrivere la storia dell’Italia e del mondo, nonché quella del Partito comunista italiano, avendo come criterio ordinatore il “revisionismo storico” e un robusto anticomunismo (sic!). Infatti, Occhetto, continuamente imbeccato da Veltroni, racconta le sue eroiche gesta, senza farci mancare i tipici aspetti del suo repertorio come le lacrime e la voce incrinata, sposando pienamente la visione ideologica dell’occidente capitalistico, che fortunatamente ha vinto, a suo avviso, lo scontro con il comunismo sovietico, affermando i valori di libertà, democrazia, giustizia e compagnia cantando.

Cominciamo dal titolo. “La svolta del PCI fu dolore e speranza. Ma era mio dovere correre quel rischio”. Ma perché dovere? Il termine dovere richiama l’ambito morale e quello della necessità derivante da principi morali categorici. Ancora: il dovere può scaturire da un ente esterno che viene ipostatizzato e impone, proprio per la sua esistenza e la sua natura, determinate azioni. Nel primo caso, la nostra azione risulterà libera perché ciò che faremo dipenderà da noi; nel secondo caso, potremmo anche compiere un’azione corretta moralmente, ma perderemmo la nostra libertà dato che ciò che mettiamo in atto ci viene “imposto” dall’esterno.

Pertanto, se la svolta occhettiana ha come movente solo un principio morale può essere senz’altro nobile, ma sfugge ai criteri sui quali riposano le motivazioni fondative di una forza politica; infatti, oltre a quelle di natura etica, devono sussistere, tra l’altro, ragioni storiche, culturali, sociali, economiche, ideologiche, giuridiche, e via dicendo. Se, al contrario, il dovere di cui parla il Nostro si riferiva a moventi di altro genere sarebbe interessante che qualcuno ce li spiegasse.

Continua Occhetto: “[...], ci siamo trovati di fronte, all’inizio degli anni Novanta, ad uno spartiacque storico, culturale e anche di relazioni umane. [...] Al centro ci sono due eventi fondamentali: il crollo del Muro di Berlino e l’operazione Mani Pulite. Se noi avessimo avuto solo il primo evento, cioè il crollo del Muro, quel passaggio storico sarebbe stato guidato dalla politica, che lo avrebbe controllato pienamente. L’avvento del secondo elemento, Mani pulite, ha determinato una sovrapposizione che ha fatto sfuggire il controllo del processo alla politica, e tutto si è mosso in direzioni impreviste”. Ora, basta aver letto Hobsbawm e altri storici meno noti per capire che la caduta del Muro è propedeutica all’evento epocale che mette fine al Novecento, cioè la sconfitta dell’URSS e la sua conseguente scomparsa (1991). Dunque, la “svolta” annunciata a Bologna il 12 novembre del 1989 fu quantomeno affrettata – sarebbe stato giusto una riflessione più ponderata su tutta l’esperienza storica delle società socialiste e dei partiti comunisti, sulle conquiste e sugli errori, sull’avanzamento dell’emancipazione del genere umano e sui ritorni indietro, insomma seguendo l’insegnamento hegeliano secondo cui “il vero è l’intero” –, ma soprattutto non si capisce dalle parole dell’ex segretario se Mani pulite è la conseguenza, certo non meccanica né automatica (al bando qualsiasi automatismo), della fine dei blocchi e della politica di Yalta e di Potsdam (1945), oppure se viene letto ciò che successe all’inizio degli anni Novanta in Italia come passaggio storico autonomo della storia italiana. E questo sarebbe un errore grossolano che dimostrerebbe che non è stata capita fino in fondo la questione che riguardava l’Italia: dai blocchi contrapposti, rigidamente assoggettati alle due superpotenze non era possibile uscire né ad Est – e qui il duo Occhetto-Veltroni è bravo a spiegare ciò che è successo da quella parte – né ad Ovest – come del resto ammette l’Achille addolorato, senza però trarne le necessarie conseguenze. Mani pulite rappresentò il passaggio da una fase all’altra, su questo concordiamo con Occhetto, passaggio reso possibile dalla nuova situazione mondiale e dalla stessa geo-politica, una fase di assestamento che si esaurì abbastanza rapidamente e al tempo stesso drammaticamente (ricordiamo il 1992 e le uccisioni di Falcone e Borsellino), che portò alla discesa in campo di Berlusconi e alla creazione di nuovi partiti e movimenti, che hanno segnato la vita della Repubblica da quasi trent’anni (pensiamo a Forza Italia e alla Lega).

E che non era possibile, né a Est né a Ovest, uscire dai blocchi, lo confessa candidamente lo stesso Occhetto quando afferma: “[...] anche perché il sistema politico precedente al crollo del Muro era stato segnato irreversibilmente dalla Guerra Fredda che aveva favorito la centralità della Democrazia cristiana, scudo di una politica fondata sulla conventio ad excludendum, ma, non sottovalutiamolo, aveva segnato anche in modo evidente i rapporti a sinistra e tra le forze riformiste”.

Infatti, la conventio ad excludendum significò non solo la repressione violenta delle lotte operaie e popolari (Scelba), i tentativi golpisti (Tambroni, De Lorenzo, le stragi da Portella delle Ginestre agli anni Settanta e Ottanta), le manovre antidemocratiche dei servizi segreti e della P2, ma anche la presenza di una struttura politico-militare segreta – Gladio – pronta a intervenire in caso di vittoria dello schieramento comprendente il PCI. Peraltro, sulla base di quanto afferma lo stesso Occhetto – l’esistenza della conventio ad excludendum – non si capisce come lo stesso possa esaltare “la democrazia come valore universale” (tralascio doverosi riferimenti storici, ma intanto rimando agli scritti di Canfora sulla retorica democratica e sulla democrazia come ideologia), proprio chi in qualità di segretario del PCI (e prima di lui Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta) sperimentava in prima persona l’impossibilità di sbloccare il quadro politico italiano, tenuto sotto controllo dagli USA e dal suo braccio militare, la NATO, una gabbia nella quale l’Italia è rimasta chiusa per decenni. Ma evidentemente per Occhetto la NATO è sempre stata un’associazione benefica – dimentica tra l’altro la grande battaglia che il PCI condusse nel 1949 con i “partigiani della pace” per impedire che l’Italia vi aderisse – e attribuisce a Berlinguer il merito di aver, nel 1976, preso “quella coraggiosa posizione sulla Nato”, cioè che dichiarò al Corriere della Sera che si sentiva più sicuro dalla parte occidentale. E così uno degli errori più gravi della segreteria Berlinguer, in pratica l’accettazione del campo occidentale, viene presentato come una grande intuizione politica, che sarà seguita dal tentativo di attuare il compromesso storico, naufragato tragicamente nel 1978. Ma anche a questo proposito c’è il tentativo di sminuire il ruolo degli USA e, al tempo stesso, amplificare (demonizzandolo) quello dell’URSS. Sentiamo infatti cosa dice e perciò ridiamogli la parola: “Non c’è dubbio che agissero due soggetti esterni all’Italia che per motivi diversi ma con, appunto, desideri identici, vedevano di malocchio l’operazione messa in campo del compromesso storico di Berlinguer e il modo come Moro aveva aperto ad una fase politica nuova, quella della solidarietà nazionale. C’erano elementi di opposizione durissima da parte dell’URSS e, come si sa, da settori rilevanti degli Stati Uniti d’America”. Tanto per capirci: secondo Occhetto, l’URSS si opponeva in quanto Stato, nella sua totalità, mentre negli USA erano settori rilevanti. Si tratta di un capovolgimento della realtà ad uso e consumo delle tesi revisioniste sostenute dall’ex dirigente comunista, ma il meglio dell’intervista deve ancora venire e riguarda il 1956, anno definito dagli storici “periodizzante”. In quell’anno, infatti, si susseguirono eventi epocali che sconvolsero (anche se il mondo se ne accorgerà successivamente) gli assetti del mondo decisi a Yalta.

Il 1956 si aprì con la celebrazione del XX congresso del PCUS, nel quale Nikita Kruscev attaccò Stalin e diede vita alla destalinizzazione, al disgelo, alla trasformazione dell’URSS; quell’anno continuò con l’aggressione, risoltasi in una sconfitta, dell’imperialismo anglo-francese all’Egitto di Nasser, paese non allineato che aveva avuto un ruolo importante nella conferenza di Bandung dell’anno prima. L’avvenimento più drammatico furono comunque i “fatti di Ungheria”, – che cominciarono sull’abbrivio delle proteste esplose in Polonia e che furono temporaneamente placate affidando il potere a Wladislaw Gomulka, – dove, dopo i pronunciamenti e le proteste degli intellettuali raccolti nel circolo Petöfi, scoppiò quella che allora i paesi socialisti e i partiti comunisti chiamarono una controrivoluzione a cui posero fine le truppe del patto di Varsavia, ma che col passare del tempo è stata definita rivoluzione visto che tutto ciò che via via si è sollevato contro i paesi dell’Est è diventato automaticamente progresso e rivoluzione (avremo modo in un’altra occasione di aprire una riflessione sul linguaggio). Il PCI, seppur con grande difficoltà al proprio interno e in modo differente da quanto fece il Psi, si schierò a favore dell’intervento sovietico, anche se all’VIII congresso, che si tenne subito dopo, ripensò la sua strategia di presa del potere formulando la famosa “Via italiana al socialismo”.

Ecco: per Occhetto e Veltroni l’anno chiave è proprio il ’56. E c’è da dire che, per certi versi, pongono una questione vera: quale strategia e quale tattica deve darsi un Partito comunista, e in generale uno schieramento delle sinistre, per conquistare il potere in un paese capitalistico che fa parte del blocco economico-culturale-militare statunitense, in un mondo spaccato e che avrebbe vissuto di lì a poco – tanto per citare alcuni fatti – la crisi dei missili a Cuba, della guerra del Vietnam, del movimento giovanile mondiale di contestazione del sistema capitalistico, delle guerre in Medio Oriente.

La loro risposta è scontata, ma seguiamo il filo del ragionamento. Domanda di Veltroni: “Facciamo un passo indietro. La grande occasione storica della sinistra italiana, quella perduta, non è stata l’invasione di Ungheria del 1956, quando il PCI si schierò dalla parte sbagliata?”. Risposta di Occhetto: “Sì. Secondo me il vero momento in cui si è persa l’occasione di superare la scissione di Livorno e di andare all’unificazione delle forze di sinistra in Italia non è stata la mancata adesione dei comunisti alle forche caudine dell’unità socialista proposta da Craxi, ma nel ’56 quando, in realtà per responsabilità nostra (capito? ndr), si ruppe con un Partito socialista che era l’anima di sinistra dell’Internazionale (di quale Internazionale? ndr). [...] Dicevamo che bisognava stare da una parte della barricata. Ma era quella sbagliata. [...], si compromise la prospettiva di una sinistra riformista e maggioritaria in Italia. Quanto sarebbe cambiato il corso della vita politica italiana se il PCIavesse avuto il coraggio di fare allora quel passo storico?”.

Tutto chiaro dunque; e sarebbe stato molto più semplice se Occhetto, Veltroni e la lunga teoria dei carrieristi dentro e fuori il PCI lo avessero detto prima: la responsabilità della “democrazia bloccata”, della “conventio ad excludendum”, della mancata trasformazione democratica e socialista del Paese, e via dicendo, è da attribuirsi all’esistenza e alla forza di un Partito che si chiamava comunista e che, pur in modo contraddittorio, rappresentava oggettivamente un contrappeso al regime democristiano – sostenuto principalmente dagli USA e dalla Chiesa –, contribuendo significativamente alla difesa e alla conquiste delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari nonché all’attuazione di quella forma di democrazia istituita in Italia dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Peraltro, Occhetto e Veltroni fanno finta di non sapere che il Psi già nel 1955 al congresso di Torino, in maniera velata, aveva scelto la prospettiva dell’alleanza con le forze borghesi e il distacco dal PCI, dato che al suo interno era sempre esistita una linea e una corposa componente che soffriva (solo per usare un eufemismo) l’unità coi comunisti, come aveva dimostrato da ultimo, per non andare troppo indietro nel tempo, la scissione saragattiana di Palazzo Barberini (1947), voluta e pilotata dagli americani. Di più: Craxi rappresentava tout- court dentro il Psi la linea e gli interessi anticomunisti, com’è squadernato dalla sua segreteria e dai suoi governi conclusisi ingloriosamente con Mani pulite, e dalla sua politica di scontro frontale col PCI, indebolito dai tanti cavalli di Troia che c’erano al suo interno, dettata da visione ideologica, cultura, politica, interessi materiali e di classe, di natura antioperaia e popolare, e incarnava in Italia le forze conservatrici che seguivano l’orientamento, all’inizio degli anni Ottanta, del reagan-thatcherismo venuto avanti come reazione alla crisi mondiale e alle sconfitte dell’imperialismo negli anni Settanta. Non per caso, alla scomparsa del craxismo il continuatore “legittimo”, pur con le ovvie differenze, è stato Berlusconi e il berlusconismo, che ha repentinamente occupato lo spazio politico che in precedenza era stato dei socialisti, dei democristiani e di tutto quel coacervo di centro-destra (ferocemente anticomunista) che si era aggrumato in Italia a partire dalla Seconda guerra mondiale. Tra l’altro, basti vedere che cosa era diventato il Psi negli anni Ottanta per capire plasticamente tutto questo: un centro di potere e di affari che verso la fine della sua storia aveva poco da invidiare alla DC, ma soprattutto una forza pienamente interna al sistema capitalistico e che dunque non aveva alcuna prospettiva di cambiamento di tipo riformatore. Il vero obiettivo era quello di creare un blocco dominante a trazione socialista, nel senso del PSI, per sostituirsi al sistema di potere democristiano.

Ma all’inizio degli anni Novanta, è sempre Occhetto a riferirlo, quando il PSI stava per scomparire, travolto dalla fine del bipolarismo e dall’inchiesta di Mani pulite, il Nostro dice ai socialisti, dimostrando una grande lungimiranza politica (sic!) “dateci un segnale, venite con noi all’opposizione e costruiamo le condizioni per l’alternativa”. Certo, qualcuno di voi potrebbe pensare a una pièce teatrale, ma è tutto vero: mentre Craxi sta per andare (fuggire, scappare, scomparire...) ad Hammamet, Occhetto gli propone l’alternativa! Non per caso il segretario socialista gli disse: “Forse hai ragione”. Poi indicò attorno a sé con la matita e concluse: “Però questi che mi stanno intorno (la corte dei miracoli craxiana, ndr), se vado anche solo un giorno all’opposizione, mi fanno fuori”.

Avviamoci ora alla conclusione e torniamo alla Bolognina. Ma a questo punto non è più il caso di evidenziare come Occhetto giunse alla decisione di cambiare il nome al PCI, ma cosa si proponeva di fare, cioè a quale partito intendeva dare vita con tale storico cambiamento. Ecco di nuovo l’intervista al Corriere: “[...] Per me l’idea forte del nuovo progetto era che la nuova sinistra doveva essere il centro catalizzatore di una nuova democrazia militante (? ndr) nel Paese. Non qualcosa che poteva vivere da sola ma una forza punto di riferimento aggregante per le migliori culture democratiche (quali sono le peggiori culture democratiche? ndr): il mondo cattolico, l’azionismo, l’ambientalismo, la cultura femminista. Quindi democratico diventava centrale. [...]”. In pratica, una forza eclettica, un contenitore di pezzi, di parti da giustapporre, come se questo bastasse a fondare un partito, a dargli identità, strategia, tattica e organizzazione. Come se la democrazia, o qualsiasi altra cosa, bastasse invocarla col nome, anche se ribadiamo i nomi, le parole, sono importanti, come se il compito storico che un Partito e una classe devono assolvere, e che riposa sulla storia, potesse esaurirsi col nome che si dà alla “cosa”. Ma Occhetto può sempre dire, per lui a suo merito, per noi a suo demerito, che questo modello politico è stato poi seguito da altri: Veltroni per primo, ma anche chi sembrava molto più radicale.

Erano, però, come i cavalli a dondolo: rampanti, ma fermi.


*docente di filosofia e storia, Catania.

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