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L’indecifrabile genealogia degli anni Settanta

di Alessandro Barile (Università “La Sapienza” di Roma)

Riflessioni a partire dal libro di Marco Morra, Fabrizio Carlino, Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano, La città del sole 2020

cd4009Anni di anniversari importanti questi. Ne ricordiamo di sfuggita alcuni, che hanno stimolato riflessioni e impegnato giornali e case editrici: la Rivoluzione russa e la nascita di Marx, di Lenin e di Engels; e poi ancora, più vicini a noi nel tempo e nello spazio, la nascita del Pci, il cinquantenario del Sessantotto, dell’Autunno caldo, i quarant’anni dal 1977 o dall’assassinio di Moro. Il Sessantotto aveva forse esaurito le parole e la carta nelle stagioni precedenti, e l’anniversario si è spento nella retorica di alcuni e nell’accanimento degli altri. Eppure, ragionare sui nostri anni Settanta sembra ancora utile, nonostante l’evidente sollievo con cui se ne parla, di qualcosa cioè di sepolto, da studiare sine ira et studio (sine ira per modo di dire). D’altronde, l’unica narrazione che resiste è quella dietrologica, che insiste a chiedersi: quale è il mistero degli “anni di piombo”? Trovando nel complotto la risposta che non riesce ad accettare nella cosa, e alimentando un mercato editoriale fondato sul retroscena. Un tentativo utile per ripensare gli anni Settanta è dato dal recente lavoro di Marco Morra e Fabrizio Carlino, due giovani ricercatori che hanno raccolto una selezione di interventi svolti ad un convegno del 2018 sui cinquant’anni dal ’68, organizzato presso l’Università di Napoli Federico II. Il libro (Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano), proprio perché espressione di più voci e sensibilità, si presta ad una lettura ragionata, sollevando una molteplicità di questioni che vanno ad incidere nel rapporto tra storia e politica, investendo la riflessione sull’ultimo grande ciclo di lotte di classe del nostro paese. Proprio questo incrocio di problemi, e di tensioni, rende difficile studiare gli anni Settanta senza implicare un inevitabile posizionamento. Il confine tra ricerca storica e valutazione politica slitta continuamente, si fa poroso, s’intrufola nei giudizi o sorprende lo storico nei suoi involontari lapsus. Dunque, una storia difficile.

Il testo affronta il «lungo ’68 italiano» valutandone il rapporto con l’operaismo, giustamente identificato dagli autori, nell’introduzione, come una «costellazione di esperienze – politiche e intellettuali, individuali e collettive, di ricerca e di azione – molteplici, frammentate, spesso contaminate da elementi eterogenei, che produssero genealogie non lineari»1. Si tratta di una realtà spesso oscurata dal racconto postumo fattone da protagonisti e corifei. L’ultimo ventennio è stato infatti invaso da un racconto dell’operaismo come fatto politico e culturale compatto nelle sue idee fondamentali. Il lavoro, ad esempio, portato avanti dalla casa editrice Derive Approdi, con la collana “Biblioteca dell’operaismo”, non solo ha dato organicamente voce a riflessioni e testimonianze dei principali protagonisti dell’epoca, ma ne ha anche edificato una omogeneità di fondo difficile da ritrovare negli anni Sessanta. Anche la collocazione temporale del fenomeno può essere estesa o ridotta a piacimento, segno dell’intervento post-festum: dalla visione riduzionista di Tronti, che lo fa terminare con la conclusione dell’esperienza di «classe operaia» nel 1965 e con il suo (di Tronti) rientro nel Pci2; alla longue durée negriana3, che nella versione “post-operaista” giunge sino a Genova e oltre, fondendosi con quell’italian theory che ne costituisce l’ideale prosecuzione (almeno di alcuni suoi motivi teoretici e politici, a loro volta ibridatisi con altre derivazioni). Certo, è anche vero che, come rileva Irene Viparelli nel libro (riprendendo un passo dell’autobiografia negriana), «prima la classe operaia poi il capitale; […] questo è il nucleo epistemologico su cui si struttura l’intera esperienza dell’operaismo italiano»4. All’interno di questo «nucleo epistemologico» le differenze sono però tante, troppe per poterne costruire retrospettivamente un ruolo, filosofico o addirittura politico, unitario, che va da Panzieri e Libertini a Tronti, Asor Rosa, Cacciari, Negri, Bologna e compagnia cantando. Le successive esperienze politiche di ciascuno di questi e altri protagonisti testimoniano di una irriducibilità di fondo a una possibile sintesi credibile. Eppure, il fraintendimento di questo elemento ne ha scaturito un altro, più pericoloso: il lungo ’68, la radicalità e il radicamento dell’estrema sinistra negli anni Settanta, costituiscono il portato di un’ideologia politica (per l’appunto l’operaismo) in grado di sostenere “processi di soggettivazione” del nuovo proletariato che le trasformazioni economiche e sociali degli anni Sessanta andavano producendo. Anzi, come ammette lo stesso Tronti, «l’operaismo è stato, almeno in Italia, una premessa fondante del ’68»5, rafforzando la tesi di un nesso causale tra teoria politica e mobilitazione sociale. In tal senso il libro in questione si sforza di dileguare questa vulgata (che, come ogni vulgata, pure contiene elementi di verità6), stabilendo o ribadendo alcuni dati di fatto che occorre evidenziare. In primo luogo, come afferma Marco Grispigni nel suo intervento, «i movimenti sociali non nascono grazie a un pensiero critico ma indipendentemente da esso, come reazione o conseguenza di una trasformazione sociale ed economica in atto»7; secondo elemento, rilevato nel saggio di Michele Filippini, più che di operaismo bisognerebbe parlare di una «area di dissenso», all’interno della sinistra marxista, che dopo il ’56 corrode l’egemonia gramsciana-storicista che il Pci, e soprattutto Togliatti, aveva mantenuto fino ad allora sulle sorti dell’intero movimento operaio8. Quest’area di dissenso si presenta immediatamente come molteplice, spuria, frammentata e frammentaria: va da Fortini a Panzieri, da Solmi a Della Volpe, da Colletti a Tronti; e ancora, dalla sinistra socialista ad un certo dibattito sindacale, anche interno alla Cgil, fortemente eterodosso, fino all’antistoricismo presente nel Pci (ad esempio Geymonat e Luporini). Ciascuno portatore di proprie visioni del mondo, della politica, della scienza e del partito, ma tutti ancora nervosamente interni al marxismo. Costituiscono filoni di pensiero fortemente disponibili ad ibridarsi, ad usarsi a vicenda, a compenetrarsi anche inconsapevolmente: Tronti si serve apertamente dell’antistoricismo dellavolpiano pur rimanendone estraneo nelle posizioni teoretiche di fondo, per fare un esempio9. Come ricorda ancora Michele Filippini, allora, sorge il dubbio che il problema non è di cultura politica, ma di linea politica10. Ovvero, la cultura non è mai stata un problema per il comunismo italiano, in quanto costitutivamente disponibile ad integrarsi con altre derivazioni filosofiche, a modellarsi in funzione delle necessità politiche. Limite o virtù dello storicismo, il Pci si è sempre dimostrato luogo aperto e sicuro entro cui condurre le proprie battaglie culturali, avere un proprio profilo dissimile dai pensieri e dalle posizioni del gruppo dirigente, dalla linea politicoculturale predominante. Il Pci insomma non è mai stato il Pcf, ideologicamente più serrato e indisponibile all’eterodossia. Ovviamente il patto, più o meno implicito ma comunque chiaro a tutti, era che l’uomo di cultura, l’intellettuale, “vivificava” il partito finché si manteneva all’interno del proprio specialismo. La politica era roba d’altri, cioè del gruppo dirigente e del Segretario, supremo decisore della tattica politica. Niente di problematico per chi, tramite il partito, cercava e otteneva un ruolo pubblico, fonte di prestigio, di visibilità, e anche di potere11.

La linea politica dunque: è questa in realtà a non corrispondere più alle esigenze di un’Italia che andava cambiando repentinamente. Ovviamente la crescita economica del dopoguerra è un fatto che accomuna l’intero continente, almeno quello a trazione capitalista, tant’è che, ad esempio, la definizione degli anni successivi al 1945 come “trenta gloriosi” viene dalla scuola sociologica francese. Eppure, se la Francia, la Germania, l’Inghilterra recuperavano una ricchezza perduta, solamente l’Italia cambiava drasticamente il proprio paesaggio produttivo, sociale e quindi anche culturale, passando da paese agricolo a nazione pienamente industrializzata, finalmente collegata alle grandi economie del continente. La grande mutazione avveniva al prezzo ormai noto: migrazione di massa, inurbamento improvviso e incontrollato di milioni di ex famiglie contadine, moderazione salariale per tutti gli anni del boom e almeno fino alla metà dei Sessanta. L’economia italiana si rafforza ma, almeno fino al suo stabilizzarsi relativo del ’62-’63, è un’economia che produce soprattutto beni secondari e destinati all’export12. La domanda interna, pure in crescita, non segue i livelli di produttività. La prima cresce aritmeticamente, la seconda geometricamente. È anche in virtù di questi motivi che dalla seconda metà degli anni Cinquanta, e per tutti i primi Sessanta, si svilupperà un dibattito anche in seno alla Dc che la porterà a modificare radicalmente il proprio posizionamento politico-economico, passando dalla fase liberista di Einaudi e Pella, sostenuta da De Gasperi, a una fase più “sociale”, più attenta alla complessa trasformazione del paese, e che vedrà nei piani Vanoni e Sinigaglia, nel convegno di San Pellegrino e nel Congresso di Napoli tra il ’61 e il ’62, o ancora – sempre in area governativa – alla Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa, i vari segni di questo riposizionamento13. Riposizionamento personificato e guidato politicamente da Fanfani. Alla base si individua una politica di pianificazione che non solo il cosiddetto “neocapitalismo” sembrerebbe portare con sé, necessario corollario di uno sviluppo più controllato e razionale; ma una pianificazione finalmente fatta propria anche dalle strategie democristiane. Nel giro di pochi anni l’antico scontro tra le posizioni pianificatorie del Pci e quelle ultraliberiste dei partiti di governo viene meno, lasciando il partito comunista in mezzo a un guado e incapace di elaborare una strategia nuova, dato che la vecchia era stata in qualche modo integrata nelle ragioni dello sviluppo sostenuto del decennio ’55-’6514.

Insieme a questi motivi strutturali, che agiscono sulla proposta politica dei vari attori in gioco e la terremotano, il periodo in questione vede formarsi anche un nuovo proletariato sradicato, per lo più giovane e già genitore, che mandava i propri figli alla nuova scuola e università di massa. Gli elementi di disillusione e infine di rabbia si andavano accumulando, progressivamente: il ruolo del Pci nelle mobilitazioni dei primi anni Sessanta è ancora forte, si potrebbe dire predominante, ma non più esclusivo. I “giovani” scendono in piazza al fianco del partito, ma non più organizzati dal partito. Stesso discorso per gli intellettuali: votano Pci, firmano gli appelli alla pace o contro la repressione, ma sempre meno sono (e si sentono) organici. Questo scollamento è visibile, e viene segnalato in una parte del dibattito interno al partito, così come in alcuni studi del sindacato15. Ma non viene raccolto, in virtù di quell’idea di separazione tra lotta economica e tattica politica che il Pci aveva mutuato dalla critica dell’esperienza del socialismo prefascista e della sconfitta del biennio rosso. Anche in questo può essere ritrovata una possibile genealogia del lungo ’68 italiano: una composizione di classe diversa, meno vincolata alle logiche tradizionali del movimento operaio incorporate dal Pci, indisponibile alla moderazione vertenziale in virtù di un complesso orizzonte fatto di sradicamento e disillusione: sradicamento da una cultura originaria retriva ma insieme rassicurante; disilluso dalle retoriche della crescita e del benessere, a fronte di una condizione di inaccessibilità materiale alle promesse del consumismo montante. Su questo si innestava la progressiva scolarizzazione dei figli di questa nuova configurazione operaia, anch’essi destinati al disincanto di una condizione intellettuale declassata, alienati nella nuova e straniante condizione letterata-proletaria, in un paese che aveva sempre concesso al letterato, all’intellettuale umanista, il prestigio dello status.

È dentro queste logiche che trova spiegazione il ’68, dapprima come riflesso di una mobilitazione globale (ma ampiamente preparata in Italia almeno dal ’62, anno di più vasta mobilitazione operaia del dopoguerra16), poi sempre più innervato di contraddizioni tutte italiane. Il dibattito sulle difficoltà del marxismo “della tradizione” di misurarsi con la trasformazione sociale e culturale è noto17. Ma, come detto poc’anzi, il problema non si situa tanto in una problematica di matrice culturale o ideologica, come se il progressivo distacco tra Pci e movimenti possa essere spiegato attraverso le aporie dello storicismo, l’incomprensione della cultura di massa, l’attardarsi sui motivi del nazional-popolare, l’uso sconsiderato del gramscismo come categoria onnicomprensiva della realtà o, ancora, il malcelato disprezzo per le scienze sociali “descrittive”, in primo luogo la sociologia. Anche perché, e diremmo soprattutto, ciò che gli si va contrapponendo a sinistra è un composto di idee contraddittorie, grezze, teoreticamente incerte, che pongono più di un passo fuori dal marxismo pur ricercando in esso l’elemento di verifica18. Insomma, per quanto controverso e indebolito dagli eventi, il marxismo del Pci manteneva una solidità ben maggiore di qualsiasi altra suggestione teorica, costitutivamente disponibile ad essere piegato anche per istanze più radicali (come ogni torsione idealistica del marxismo – com’era in fondo la filo- sofia della prassi di matrice gramsciana – questa si prestava a legittimare le spinte soggettive e vitali del movimento operaio, anche in senso avanguardistico). D’altronde, come spiegare la fortuna che negli anni tra il ’67 e il decennio successivo riveste il Lukàcs più idealista e hegeliano, quello di Storia e coscienza di classe; oppure, per motivi simili, il Korsch di Marxismo e filosofia? Come spiegare queste liaison periclitanti tra neohegelismo (Marcuse, Adorno, Lukàcs eccetera), strutturalmente antihegeliane (Negri, ma anche Della Volpe e Colletti, e persino Panzieri), schmittiane (Tronti), e via sommando tutte le influenze politiche, filosofiche o ideologiche con un movimento che tesseva empiricamente una propria linea politico-culturale? Come detto, allora, il problema risiedeva nella linea politica del Pci, non nella discussione filosofica. Ed è da questa altezza che è possibile riconoscere la capacità dell’operaismo di attraversare gli anni Settanta e di farsi una delle molteplici espressioni di quel movimento, mai, bisogna aggiungere, in posizione dominante. Disponibilità ad adattarsi allo stato reale delle lotte di classe, elaborandone una sorta di Weltanschauung modellata sui punti alti dello scontro, giustificandone a ritroso l’urgenza e la necessità dello stesso19.

Ogni discussione sul ruolo dell’operaismo negli anni Settanta dovrebbe quindi prendere le mosse dalla sua non-autosufficienza, dalla sua relativa modestia teoretica che attinge a piene mani dal pensiero conservatore mitteleuropeo (da Nietzsche a Heidegger, da Schmitt a Gentile)20, dalla ridotta portata originale del consiliarismo di Panzieri e Libertini, e invece della grande capacità di elaborare un pensiero apertamente conflittuale in una società che entrava nella sua modernità industriale con contraddizioni irrisolte più profonde dei partner continentali. Una società politica che vedeva l’affievolirsi di quelle differenze radicali che avevano animato il dibattito negli anni del “centrismo”. Per di più, l’operaismo apparve come unico solido tentativo di «uscire dallo stalinismo da sinistra», non riducendosi ad accettare il piano neoriformista della fuoriuscita “da destra”, la sottomissione alla retorica della pianificazione e dell’ammodernamento del paese in chiave produttivista, compiendo finalmente quella “rivoluzione borghese” mancata nel Risorgimento e avviata nella Resistenza. È quanto tentano di fare gli interventi che si succedono in queste traiettorie operaiste. A cominciare dai curatori, che nell’introduzione colgono la «vocazione operativa» dell’operaismo, individuando così il suo principale punto di forza. Un elemento che agisce su quell’«estremismo» che viene segnalato come altro motivo predominante del lungo ’68 italiano. L’estremismo come conseguenza di una riunificazione tra lotta economica e lotta politica, laddove il Pci, come accennato, misurava la conflittualità sindacale sulle scelte tattiche della politica, imbavagliandone la spontaneità. La «direzione strategica» era già nell’autorganizzazione della classe nella fabbrica, dileguando l’idea di politica come mediazione, diradando l’idea stessa di un piano separato tra tattica e strategia.

Quello che invece non ci fu, e che sembra frainteso anche nel testo curato da Morra e Carlino, è il “ritorno al leninismo” come categoria alla quale si andavano richiamando le varie formazioni della nuova sinistra. Ovviamente, formalmente, erano anni in cui tutti si proclamavano leninisti. Dal Pci all’operaismo, da Potere operaio e Lotta continua. Lenin è il riferimento indiscusso: da solo, insieme a Stalin, accanto a Mao in funzione stalinista o antistalinista, a seconda delle sensibilità. Il comunismo non poteva emanciparsi da Marx e da Lenin, pena la definitiva perdita di orientamento, in una fase in cui già erano venuti meno il mito dell’Ottobre e il ruolo dell’Urss. Ma se il Lenin che viene difeso dal Pci è sempre quello dell’Estremismo, che uso di Lenin viene fatto dai gruppi degli anni Settanta? Appare chiaro che, almeno per ciò che riguarda l’ormai postoperaismo, Lenin serve a dispiegare una teoria dell’organizzazione che vada oltre la fabbrica (quindi oltre Panzieri e il consiliarismo) senza ricadere nel comunismo “ufficiale” (quindi oltre Tronti)21. Che vada oltre il momento dell’immediata lotta economica per farsi teoria e pratica dell’insurrezione. È quindi il Lenin del Che fare? ad essere selezionato à la carte, scindendolo artificiosamente tanto dal bolscevismo quanto dalla sua ideologia, dal suo posizionamento politico-filosofico, dalla sua cultura quanto dai motivi della sua battaglia politica. Un Lenin che viene colto nella sua disponibilità ad ibridarsi e a rischiare, celando il fatto che questa disponibilità a ibridarsi avveniva unicamente sul piano di una dilatata téchne rivoluzionaria, non nello statuto politico del pensiero leninista22. Scindere Lenin dal bolscevismo, da Engels, dalla dialettica hegeliana, dal materialismo dialettico, dalle sue radici populiste e finanche blanquiste, lambiccando con ritagli di pensiero sfruttati per l’azione politica contingente poteva avere una funzione tattica di copertura della propria proposta politica, presentandosi in linea con il massimo riferimento rivoluzionario, ma distorceva oltremodo il leninismo come categoria politica. Detto altrimenti: si spogliava Lenin dell’orizzonte strategico, presentando alcuni passaggi tattici come sostanziali e non contingenti, legati a un dato momento della lotta, a una data necessità della situazione politica23. Lo stesso procedimento perverso che veniva imputato al Pci, selezionando di Lenin ciò che faceva comodo e diluendo ciò che appariva ormai indigesto, sfruttando il Lenin “statista” e “misurato” nascondendone l’anima narodniki, populista, putschista. Ma il leninismo è tale proprio perché è sia rischio che calcolo, sia misura che azzardo, dentro una visione strategica del marxismo ossessivamente ortodossa e che non può essere taciuta da chi si è dato mandato costitutivo di «sputare su Hegel»24. La recente ri-pubblicazione dei Quaderni filosofici leniniani curati da Roberto Fineschi, in tal senso, potrebbe favorire un’opera di aggiornamento riguardo alle prospettive leniniste dell’operaismo degli anni Settanta. Il Che fare? ultra-soggettivista e a rischio idealismo può essere compreso solo dentro un’ottica più generale del percorso leniniano, che preveda, prima, Che cosa sono gli “amici del popolo” (1894), e, dopo, Materiali- smo ed Empiriocriticismo (1909) e i Quaderni (1895-1917), la sua lotta agli otzovisti, ai deliri del Proletkult e quindi, sì, la sua lotta all’estremismo quando questo prenda il sopravvento sulla strategia politica.

La conclusione è che non può essere rintracciata una diretta corrispondenza tra le sistemazioni “critiche” degli anni Sessanta – prima fra tutte l’operaismo – e la mobilitazione politica successiva, scovando nella forza teoretica dell’operaismo la ragione, o una delle ragioni, del lungo ’68. E però, va pur detto che la capacità a modellarsi in funzione delle contingenze politiche è una delle ragioni di forza che hanno reso l’operaismo protagonista di quella stagione, e rimane un’indicazione utile nel riflettere il complesso rapporto tra ideologia e politica. Non è la coerenza interna a una data strutturazione teoretica a spiegarne la forza, come pure insisteva il Pci nella sua esegesi dei limiti e delle aporie del “pensiero critico”, deridendone la portata scientifica25. Piuttosto, sembra il sottomettersi alle ragioni della lotta, tentando di edificarne una giustificazione, a premiare chi si posiziona in tal senso. È in qualche modo la ragione che porta Rossana Rossanda a difendere il marxismo riguardo alle presunte carenze scientifiche rilevate da Umberto Eco in un celebre dibattito del 1963, parole che funzionano, in questo caso, come significativa chiusura al discorso:

«Rischieremo di sentir sempre obiettare da qualche comunista, al rimprovero “Non conoscevi scientificamente la società in cui operavi” “Si dà però il fatto che l’ho trasformata”. E questo, a sua volta, che altro significa se non che una certa sintesi marxista, rivoluzionaria, per approssimativa che sia [corsivo nostro], ha un valore conoscitivo, in realtà, più importante, più profondo che un metodo “scientifico” che tenti di prescinderne?»26


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Note
1 MORRA — CARLINO 2020, p. 33.
2 Cfr. su questo FILIPPINI 2011.
3 NEGRI 2017.
4 MORRA — CARLINO 2020, p. 109.
5 TRONTI 2009, p. 21.
6 Cfr. TURCHETTO 2001.
7 MORRA — CARLINO 2020, pp. 134-135.
8 Ivi, pp. 89-95.
9 Cfr. ALCARO 1977.
10 MORRA — CARLINO, p. 95.
11 Per tutto il discorso cfr. ASOR ROSA 1975, pp. 1584-1664; ALATRI 1980, pp. 7-60; AJELLO 1979.
12 Cfr. GRAZIANI 1972, pp. 13-96.
13 Cfr. RAGUSA 2003, pp. 106122.
14 Cfr. BATTILOSSI 1996, pp. 771-811; cfr. anche BARCA 1968.
15 Cfr. ROSSANDA 1962 e 1964. Cfr. anche TURONE 1992, pp. 178 ss.
16 Cfr. RAGUSA 2004, p. 86.
17 Per una ricostruzione del dibattito filosofico vedi CASSANO 1973. Vedi anche, per ciò che riguarda il rapporto tra Pci, sindacato e movimenti, CHINELLO 1996.
18 Per una esaustiva interpretazione del “marxismo critico” da parte del Pci, vedi ISTITUTO GRAMSCI 1972.
19 Su questo vedi la complessiva ricostruzione critica (in particolare dell’esperienza di Lotta continua) in BOBBIO 1988.
20 Vedi REHMANN 2009, e soprattutto la Prefazione di Stefano G. Azzarà, pp. 517.
21 Cfr. l’intervento di Marco Rampazzo Bazzan, in MORRA – CARLINO 2020, pp. 151-169.
22 Il riferimento obbligatorio per la comprensione del pensiero politico di Lenin
è l’Introduzione di Vittorio Strada a LENIN 1979, pp. VII-XCI.
23 Cfr. NEGRI 2004.
24 Il riferimento è ovviamente a LONZI 1970.
25 Vedi il già citato ISTITUTO GRAMSCI 1972.
26 ROSSANDA 1963, ora in C. CRAPIS — G. CRAPIS 2016, p. 106.

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