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Per una storia in costruzione

di Chiara De Cosmo

Un libro su Marx e il dibattito italiano degli anni Settanta sulla storia antica e il nesso tra ricerca filosofica, pratica militante e storiografia

IMG 0717 1536x560Nel 1974, presso l’Istituto Gramsci di Roma che all’epoca rappresentava una delle più importanti istituzioni culturali del Pci, un gruppo di studiosi di differenti provenienze disciplinari si riunì, sotto la direzione di Aldo Schiavone, per avviare il primo ciclo del Seminario di antichistica. Il suo scopo era quello di riflettere sui metodi e sui contenuti della storiografia del mondo antico. Fu l’inizio di una feconda stagione di dibattito in Italia, che riassumeva al contempo alcuni dei migliori risultati della discussione internazionale di teoria storica e sociologica e accoglieva l’eredità di alcuni studiosi socialisti italiani (in particolare Ettore Ciccotti e Giuseppe Salvioli), che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si erano proposti di riflettere sulla situazione di stagnazione della penisola a partire dallo studio e dalla riscoperta della struttura economica della Grecia e della Roma antiche. A uno sguardo retrospettivo, l’aspetto che forse oggi più colpisce di questa fase della storia culturale italiana è l’esigenza da cui nacque questa discussione, un’esigenza che era condivisa da tutti i suoi protagonisti: quella di unire la partecipazione appassionata alle vicende politiche, sociali e culturali del paese con la riflessione su questioni di teoria della storiografia, rifondandole a partire da una rinnovata interpretazione del lascito marxiano.

Uno dei meriti di Categorie marxiste e storiografia del mondo antico (Manifestolibri, 2022), in cui Sebastiano Taccola ricostruisce in maniera ricca e articolata le linee di questo dibattito, è quello di riuscire non solo a restituirne la vitalità, ma anche più in generale a individuarne i margini di connessione con le riflessioni marxiste più recenti.

Quando si provano a delineare i contorni di una discussione, che ebbe luogo in un preciso momento storico e che si nutriva di un lessico e di riferimenti molto specialistici, il rischio è quello di farne un’immagine lontana, priva di vita. Assieme al Seminario di Antichistica, la fondazione di riviste come Dialoghi di Archeologia (1967), promossa da Ranuccio Bianco Bandinelli, e Quaderni di storia (1975), diretta da Luciano Canfora erano espressione dell’eredità di un secolo di riflessioni sul metodo storiografico e di una profonda rielaborazione delle categorie del marxismo tradizionale che rispondeva a delle precise esigenze storiche: la volontà di intraprendere una strada autonoma rispetto alla politica culturale imposta dal Pci di Togliatti, l’esigenza di restituire energia alla riflessione teorica italiana dopo il ripiegamento su sé stessa subito durante il fascismo, ma soprattutto la convinzione condivisa che lo studio del mondo antico potesse illuminare vie inedite per affrontare le fratture sociali e politiche dell’Italia del tempo. Ma come si può disegnare una mappa di questa costellazione di pensatori senza dare l’idea di un tempo lontano, da scoprire e riporre nella polvere degli scaffali di una biblioteca?

In un senso più generale, è forse la considerazione che in un mondo «stregato e reificato» come il nostro, «il mondo della praxis del capitale», in cui gli oggetti diventano soggetti e viceversa, la riconquista di uno sguardo sui ritmi della riproduzione del capitale, sulla sua logica, ma anche sui tempi diversi che si intrecciano in esso è il primo passo per sottrarsi all’immagine che questo sia l’ultimo e l’unico orizzonte possibile della storia. Nel Novecento, filosofi come Benjamin, Adorno e Althusser, in direzioni diverse, ma mossi da una medesima esigenza di trasformazione, sottolineavano la necessità di riconsiderare i modelli teorici di narrazione della storia. La loro non era una presa di posizione astratta: se la scienza marxista non avesse preso in carico l’indagine del corso storico, dei suoi punti di vista plurali e delle sue tensioni strutturali, a egemonizzarne la visione, e a orientarne le tendenze, sarebbe stata inevitabilmente l’ideologia della storiografia borghese. Sulla scia di questi riferimenti, molti contributi recenti hanno riconsiderato diverse questioni di teoria storiografica da una prospettiva marxista: autori come Daniel Bensaïd, David Harvey, Massimiliano Tomba, Stavros Tombazos (solo per citare alcuni dei nomi più noti) si sono interrogati sulle dimensioni differenziali dei processi di accumulazione, sui modelli di transizione tra formazioni sociali eterogenee, fino ad affrontare le questioni dello sviluppo ineguale, dei diversi sviluppi della modernità ecc. È comune a tutti questi paradigmi il riconoscimento che i modi in cui si scrive la storia non sono mai neutrali: la teoria critica, senza riappropriarsi del suo fondo storico, è impoverita e incapace di immaginare delle alternative concrete a questo universo dominato dal capitale. Proprio su questo aspetto si appunta l’attenzione di Sebastiano Taccola, che negli intrecci e nell’autonomia di questo dibattito sull’antichistica degli anni Settanta ritrova lo sforzo di immaginare nuove categorie, di elaborare metodi inediti con i quali affrontare lo studio storico, a partire dal bisogno di restituire alla teoria la sua capacità di individuare i luoghi di militanza e di trasformazione possibile.

Ma vi è forse qualcosa di più, una domanda posta all’attuale direzione della ricerca filosofica italiana, che pur fregiandosi del titolo di voler analizzare in senso politico il presente, sembra non essere più in grado – complici una divisione sempre più rigida delle discipline e l’incapacità di definizione del proprio ruolo all’interno delle maglie sempre più soffocanti e precarie del mondo accademico – di confrontarsi storicamente con i propri concetti. Così, termini come conflitto, classi, plebi vengono assunti come validi in ogni tempo e i referenti filosofici scelti vengono scorporati dalla propria temporalità specifica e divengono strumenti di analisi della contemporaneità senza essere in grado di coglierne le differenziazioni oggettive. Allora, rifacendosi alla spinta propulsiva di questa discussione, il libro di Sebastiano Taccola si sforza di ricordare come la scienza critica, aprendosi alla considerazione storica, si comporti come un processo di illuminazione generale della cornice in cui tutti i colori storici sono immersi, modificandoli e restituendo loro un peso specifico. Riconquistare il legame fra categorie filosofiche e movimento storico, che fu il perno di questo dibattito, non è un’esigenza astratta, slegata dalla volontà e dalle possibilità politiche di cambiare il nostro presente, ma anzi una delle pre-condizioni per rendere pensabile un’alternativa: il sapere che si ferma alla superficie del mondo contemporaneo senza vederne la genesi, senza capire le sue tendenze a riappropriarsi di forme di sfruttamento e di oppressione che appartenevano a temporalità diverse, non può che tradursi fatalmente in «astratto moralismo, volontarismo, soggettivismo o dover-essere».

Una convinzione di fondo animava i protagonisti di questo dibattito, che furono capaci di unire le loro più varie competenze disciplinari senza giustapporle, ma lasciando che i rispettivi metodi e strumenti dialogassero l’uno con l’altro (scenario che, nonostante tutta la professata centralità di termini come «interdisciplinarietà», sembra molto lontano da quello attuale): la storia non era qualcosa di statico, non si riduceva a una serie di eventi disposti cronologicamente l’uno accanto all’altro, ma era una dimensione tutta da costruire. Da un lato, l’interpretazione rigida e deterministica del materialismo storico aveva ridotto la teoria marxiana della storia a una successione lineare di modi di produzione. Dall’altro, una parte della riflessione storiografica tra fine Ottocento e inizio Novecento (nella voce di personaggi come Bücher e Meyer, Max Weber, e poi Polanyi e Finley), che l’autore ricostruisce nel primo capitolo del libro, pur avendo aperto la strada all’emancipazione della narrazione storica dagli schemi tradizionali e alla sua estensione ad ambiti di interesse come la società, le istituzioni, le forme produttive, aveva però finito per considerare queste ultime a partire da categorie, per così dire, a-storiche: concetti come scambio, ideologia, mercato diventavano spesso dei gusci in cui incapsulare via via le differenti manifestazioni della vita spirituale ed economica di tutte le società che erano esistite nella storia. Per gli autori del Seminario di Antichistica, invece, la lezione della critica marxiana spingeva in un’altra direzione: Marx era partito dall’analisi della società capitalistica, perché aveva riconosciuto come questa società fosse dominata da un’astrazione tale che tutti i fattori di riproduzione (i rapporti di lavoro, gli scambi, le forme ideologiche) si presentavano isolati l’uno dall’altro, ma uniti allo stesso tempo da una stretta mediazione reciproca. Era questa la chiave di volta per scrivere una storia delle società antiche, in grado di individuare le differenze specifiche, le sue leggi speciali di produzione, i concreti modi in cui esse erano costruite. Le categorie logiche di sviluppo del capitale costituivano una cassetta degli attrezzi che permetteva di analizzare, per differentiam, mondi in cui la riproduzione sociale non passava per la produzione di merci. Partire da questo arsenale concettuale permetteva di avvicinarsi alla materialità della storia sfuggendo a schemi cronologici a-prioristici e permettendo di scorgere, nelle varie epoche, gli intrecci fra tempi e spazi diversi: nelle società antiche a forme di piccola proprietà si affiancavano modelli latifondistici di sfruttamento della terra, ai rapporti fra schiavi e padroni si accostava una complessa stratificazione in differenti status sociali ecc. E se, come ricorda Marx nella Prefazione al primo libro del Capitale, una serie di miserie arcaiche ci affliggono insieme a quelle moderne, questo sguardo capace di leggere morfologicamente la storia e di indagarne la complessità era utile anche per interpretare le differenziazioni storicamente concrete interne alla società capitalistica.

Così, a partire da queste premesse, Taccola racconta come i protagonisti del dibattito del 1974 si fossero messi all’opera per costruire, per via teorica, un nuovo concetto di storia, con un prisma di punti di vista differenti, ma che si arricchivano l’uno nell’altro. Autori come Lorenzo Calabi e Aldo Schiavone avevano esplorato il metodo marxiano, anche a partire dalla pubblicazione italiana delle cosiddette Formen (la sezione dei Grundrisse dedicata all’indagine dei modi di produzione non capitalistici, edita da Editori Riuniti per la prima volta nel 1964 con una prefazione dello storico Eric Hobsbawn), alla ricerca delle possibilità e dei modelli che esso offriva per delimitare una storia del capitale; Mario Mazza aveva riflettuto sul fenomeno della schiavitù, cercando di mostrare come esso non fosse una caratteristica indifferenziata del mondo antico, ma si declinasse in forme differenti di sfruttamento e con maniere diverse, rispetto a quella capitalistica, di estrazione del pluslavoro; l’archeologo Andrea Carandini aveva sottolineato l’importanza dello studio dei mezzi di lavoro, perché in questi strumenti, che attraversano come un basso continuo l’intera storia degli esseri umani, si sedimentano gli strati dei rapporti variegati istituiti da essi con la natura e la produzione; negli stessi anni, poi, Diego Lanza e Mario Vegetti si erano focalizzati sul ruolo e la configurazione dell’ideologia nel mondo antico, notando come essa contribuisse alla perpetuazione delle strutture istituzionali esistenti in modo più netto rispetto alle condizioni economiche intese in senso stretto. Un prisma di strade possibili, dunque, si apriva attraverso questa densa stagione di discussione, per estendere il significato del lavoro storiografico: il metodo, la società, le istituzioni, gli oggetti erano tutti punti di partenza da cui muovere per restituire alla ricerca storica la ricchezza dei suoi orientamenti e per illuminare, attraverso di essa, le fratture e le contraddizioni del presente.

Tutti i protagonisti di questa discussione avevano, come fa notare a più riprese l’autore, un altro elemento in comune: essi interpretavano lo studio del mondo antico nei termini di una teoria militante. Innanzitutto, perché queste nuove categorie potevano aiutare a comprendere la complessità della situazione economica e politica italiana, che soffriva di un profondo divario fra nord e sud del paese, che affiancava una tendenza crescente all’industrializzazione al persistere di strutture di produzione agraria più arcaiche e che includeva, dunque, una pluralità di soggetti e di bisogni che procedevano in direzioni differenti (e si ponevano, quindi, in ideale connessione, anche con le riflessioni di Gramsci prima, e di De Martino in questi stessi anni sulla cultura delle classi subalterne). Ma anche perché, nel legame fra concetti marxiani e modelli storiografici questi autori scorgevano la possibilità di elaborare una teoria rivoluzionaria, che nell’affinare gli strumenti per guardare al passato, riuscisse anche a immaginare, in senso concreto, la discontinuità e la rottura all’interno dei rapporti sociali presenti. Così anche discussioni all’apparenza molto specialistiche e astratte, come quella fra Badaloni e Della Volpe sulla questione della contraddizione, o quella fra Luporini e Sereni sul modo di intendere la categoria di formazione sociale – confronti che rappresentano, come fa notare Taccola, uno degli orizzonti di riferimento del Seminario di antichistica –, assumevano una forte carica trasformativa, si coloravano di un’intensa energia politica.

Ed è forse questo l’elemento che spinge con più passione a riprendere in mano questo dibattito, in un contesto come il nostro dove la riflessione teorica sembra essere diventata il regno delle astrazioni, di concetti e linguaggi inaccessibili, mentre la storia viene percepita come una pura collezione di fatti e di documenti, che si limitano a informarci su cose accadute nel passato. In un bel passaggio di un testo difficile Adorno diceva che in questa società dominata dal capitale il compito della filosofia si avvicina sempre di più a quello della storiografia, mentre quest’ultima non può più essere pensata senza il suo legame con il momento teorico. I protagonisti di questo dibattito ci possono allora aiutare a riprendere seriamente di nuovo in mano la verità di questa affermazione.


*Chiara De Cosmo si è laureata presso l’Università di Pisa ed è attualmente dottoranda in Filosofia alla Scuola di Alti Studi, Fondazione Collegio San Carlo di Modena.

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