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In memoria di Maggie

di Diego Fusaro

Si è spenta in questi giorni Margaret Thatcher, la “lady di ferro”. È forte, in questo caso, la tentazione di recuperare la saggezza greca che dice che è “meglio non essere mai nati”, ma ce ne asterremo. A noi piace ricordarla soprattutto per una frase, che ha inciso profondamente sull’immaginario e che, per ciò stesso, tutti ricordano: “la società non esiste. Esistono gli individui”. Si tratta di un’asserzione a tutti gli effetti filosofica e, in quanto tale, degna di essere presa in considerazione seriamente e in modo spregiudicato, come se provenisse da Hobbes o da Kant. Non so se la “signora di ferro” ne fosse consapevole, ma con quella frase ha magnificamente condensato lo spirito del nostro tempo, che può con diritto essere identificato in quell’individualismo indecente che assume l’io individuale come prioritario sulla comunità, delegittimando quest’ultima come secondaria quando non addirittura come inesistente. In questo senso – avrebbe detto Hegel – per bocca della Thatcher ha parlato direttamente lo Spirito del tempo. In termini per alcuni versi convergenti, Heidegger diceva che noi siamo parlati dal linguaggio.

Né va dimenticato il fatto che, volens nolens, la signora di ferro, pronunciando la frase ricordata, si è riconnessa alla grande tradizione filosofica e, più precisamente, a quello che si configura a tutti gli effetti come il moderno individualismo programmatico. Coessenziali alla genesi del cosmo capitalistico, lo sradicamento comunitario, la destrutturazione di ogni società preesistente al nesso mercatistico e l’imposizione dell’individuo sovrano e astratto come solo soggetto possibile  costituiscono la cifra stessa della modernità.

La svolta cartesiana si regge, in fondo, esattamente su questa genesi di un soggetto astratto e formale, che non ha alcun rapporto con gli altri e con la comunità, secondo quello che Husserl, nelle sue Meditazioni cartesiane, chiamava “solipsismo trascendentale”. Hobbes approfondisce questo movimento mettendo a tema un soggetto che, rispetto a quello cartesiano, è programmaticamente anticomunitario: l’altro è sempre e solo un lupo da cui guardarsi (homo homini lupus). Locke, poi, codificherà il soggetto proprietario, l’homo oeconomicus, l’individuo che entra in relazione con gli altri al solo fine di incrementare i propri averi. Si potrebbero menzionare mille altri snodi importanti, ma non è questa la sede per farlo. Occorre, invece, sottolineare come tutti questi pensatori, lungo la china che porta alla signora di ferro, hanno in comune l’idea – lo ripeto – che la società sia un qualcosa di secondario (Hobbes, Locke, ecc.), quando non di inesistente (Cartesio, Thatcher).

Si pensa prima l’aggregato amorfo di individui egoisti in cerca del proprio profitto e poi si pensa la società come teatro agonale in cui le individualità competitive entrano in rapporto: in questa maniera, secondo il tipico dispositivo ideologico, si naturalizza la società di mercato, presentandola sub specie aeternitatis, come se esistesse da sempre e per sempre. La società, secondo una dinamica oggi giunta al suo sviluppo parossistico, viene sciolta in atomi sociali autonomi e reciprocamente ostili e ricomposta in maniera non sociale, nella forma dell’aggregato amorfo di individui concorrenziali isolati che entrano in rapporto al solo fine di arricchire il proprio io individuale, anche a scapito dell’altro. La selezione darwiniana spodesta la solidarietà comunitaria e, con essa, si impongono senza misura la privatizzazione e la liberalizzazione, le quali producono differenziali di ricchezza sempre più ignobili. De nobis fabula narratur.

Affrancato da ogni fondamento metafisico e teologico, l’individuo non può né decidere, né determinare alcunché nella cornice di un paesaggio sociale in cui l’unico soggetto libero sembra essere il mercato e l’uomo viene ridotto a mera pedina eterodiretta del processo di produzione e di consumo. Per questa via, il soggetto è robinsonianamente isolato nella solitudine propria del consumo e, insieme, con movimento simmetrico, è ingigantito dall’ideologia sempre più assordante ad atomo onnipotente, non più vincolato ai valori borghesi o alle comunità tradizionali. Su questo tema, si veda l’efficace libro di Zygmunt Bauman, L’etica in un mondo di consumatori (Laterza, 2010). È il modello archetipico di Robinson Crusoe – il grande mito che accompagna la modernità mercatistica –, l’individuo sovrano che instaura relazioni con gli altri al solo fine di potenziare e scolpire il proprio egoismo acquisitivo (a scapito del povero Venerdì di turno) naturalizzato dalle moderne antropologie  pessimiste.

In quella che, con la grammatica hegeliana, potrebbe a giusto titolo qualificarsi come la postmoderna “atomistica delle solitudini”, in cui l’umanità è prima frazionata in una moltitudine caleidoscopica di atomi individuali e, poi, riaggregata ad arte nelle forme alienate delle comunità funzionali al consumo (dalla folla anonima e solitaria dei centri commerciali a quella dei concerti e delle discoteche), l’individuo si riduce, avrebbe detto Lukács, a sintesi tragica di onnipotenza astratta e di impotenza concreta: astrattamente può tutto, in quanto atomo energetico di volontà di potenza non dipendente se non dal proprio libero volere, affrancato da ogni legge e da ogni autorità che non siano quelle del godimento promosso dal consumo; concretamente non può nulla, essendo, di fatto, ogni decisione rimandata alle leggi imperscrutabili dei mercati ipostatizzati e alla logica immanente del nomos dell’economia.

Nella figura della Thatcher questa dinamica di assolutizzazione dell’io empirico e di complementare disarticolazione della società ha raggiunto l’apice. Mai era stata formulata con tanta coerenza e chiarezza. Chiamare le cose con il loro nome è già un segno di grande onestà. Che quelle cose, onestamente chiamate con il loro nome, non siano naturali, giuste e intrasformabili – con buona pace della Thatcher –, è un’altra storia. Ma non si può nemmeno chiedere troppo al potere e alle sue dramatis personae.

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