Print Friendly, PDF & Email

ilcomunista

Le contraddizioni delle soluzioni “keynesiane” al problema della disoccupazione e la sfida del “piano del lavoro”

di Riccardo Bellofiore

INTRODUZIONE a «Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione», a cura di Jacopo Foggi, Castelvecchi, Roma, 2019, pp. 17-27 [con saggi di Riccardo Bellofiore, Sergio Cesaratto, Guglielmo Forges Davanzati, Mathew Forstater, Claudio Gnesutta, Philip Harvey, Enrico Sergio Levrero, William Mitchell, Mario Seccareccia, Pavlina Tcherneva, Randall Wray et al.]

imageik09756grIl libro sui piani di lavoro garantito curato in modo esemplare da Jacopo Foggi per lo CSEPI è un volume importante, tanto per la qualità e la completezza di quello che contiene e che dice, quanto per quello che resta sullo sfondo e rimane ancora da articolare con più precisione e ricchezza, e magari da mettere meglio a fuoco. In queste poche righe di introduzione mi propongo di presentare al lettore, senza alcuna possibile pretesa di completezza, alcune considerazioni evidentemente soggettive, essendo io stesso parte attiva di questo dibattito in corso.

Il problema della disoccupazione in Italia è un problema che affonda le radici nel passato. Anche limitandoci al secondo dopoguerra, non solo esso non è stato mai risolto, ma alla sua risoluzione non hanno affatto contribuito né la apertura al commercio internazionale, né il miracolo economico, né gli abortiti tentativi di programmazione: semmai, l’emigrazione. La svolta degli anni ’80 prima peggiorò le cose, poi provvide una falsa soluzione nella sottoccupazione dovuta alla caduta della produttività e alla precarizzazione. Si può dubitare che sia mai davvero esistita da noi una fase keynesiana (molti guardano con nostalgia malriposta ai cosiddetti trent’anni gloriosi), e il keynesismo criminale stigmatizzato da de Cecco ne fu un povero sostituto. Il che lascia dubitare che sia possibile una soluzione keynesiana oggi, fondata sulla sola espansione della domanda effettiva, che rovesci l’austerità che ci accompagna da decenni. Si può dire che in varia forma la disoccupazione si sia tramandata tanto nello sviluppo quanto nella crisi, come anche che la crisi italiana sia di lunga durata, e risalga in realtà alle occasioni perse di metà anni ’60. È una crisi che ha aspetti strutturali, non solo congiunturali: e la stessa cosa si può dire della problematica della disoccupazione. La crisi recente, successiva alla nuova “grande crisi” esplosa nel 2007-2008 e aggravata dalle dinamiche interne all’area europea, va relativizzata come parte di questo quadro complessivo.

Il cuore del libro è costituito, di fatto, da una proposta di importazione chiavi in mano, ovviamente adattata al nostro paese, di una idea di origine anglosassone, l’insieme di programmi per un Job Guarantee, una volta denominata come proposta dello Stato come “occupatore di ultima istanza”, un’idea sostenuta con forza dalla corrente della cosiddetta Modern Money Theory. I “piani di lavoro garantito” vengono contrapposti con ragione, e qualche tentativo di mediazione, all’idea alternativa di un “reddito di esistenza”: è chiaro che mentre questa seconda politica di fatto accetta la precarizzazione e la disoccupazione permanente come un destino, cui mettere una pezza con sussidi prevalentemente monetari, i piani di lavoro garantito scommettono sulla compatibilità della piena occupazione permanente con la configurazione sociale capitalistica. I proponenti dell’Employer of Last Resort hanno scritto altrove che il punto è «ripensare il capitalismo»: i proponenti del basic income ritengono invece che il superamento del capitalismo si gioca essenzialmente su un piano distributivo.

L’Employer of Last Resort fu parte organica della riflessione di Hyman Minsky, cui ho dedicato numerosi scritti e che ho cercato di diffondere nell’area del pensiero critico in economia: scritti che paiono però essere sfuggiti agli autori italiani che contribuiscono validamente a questo volume. All’estero, ma ancor più da noi, Minsky è ridotto a parte della scuola postkeynesiana, e in particolare all’ipotesi della instabilità finanziaria. Avere un quadro complessivo della sua riflessione mostra la centralità della coppia socializzazione dell’investimento (molto radicalizzata rispetto a Keynes) – socializzazione dell’occupazione (con una forte ripresa di Roosevelt e del New Deal): una coppia che ovviamente si deve accompagnare a una socializzazione della finanza. Tener presente tutto il pensiero di Minsky – non dimenticando gli ultimi due splendidi capitoli di Keynes e l’instabilità del capitalismo (di cui ho curato la ristampa nel 2008 [Minsky, 2008]), che nessuno però legge – ci aiuta a capire come il suo discorso si configuri come una critica radicale al keynesismo realmente esistente. I giudizi di Minsky sull’era keynesiana di alti profitti-alti investimenti, come quelli di Joan Robinson in La seconda crisi della teoria economica, sono durissimi, e fanno il paio con quelli di Michał Kalecki e di Paul Sweezy: si tratta di una società fondata sullo spreco, sulla distruzione dell’ambiente naturale, sull’erosione degli squilibri sociali, e che impedisce una autentica lotta alla povertà.

È per questo che ha particolare rilievo la raccolta Combattere la povertà: lavori non assistenza [Minsky, 2014] (ma il titolo originale è più duro: Ending poverty. Jobs, not welfare), che ho curato in italiano con Laura Pennacchi, e che è passato un po’ sotto silenzio per la gran parte della scuola minskyana italiana, affezionata ai modellini ciclici di instabilità finanziaria o nel mercato del lavoro, magari poi colorati in salsa stiglitziana: diciamo che si è preoccupata più della forma matematica dei modelli che della sostanza sociale. Il discorso di Minsky è chiarissimo: il capitalismo “liberista” è destinato alla crisi finanziaria, ma il successivo capitalismo “keynesiano” non soltanto non elimina la povertà e produce una composizione della produzione perversa, ma è destinato a una nuova forma di crisi apertamente o nascostamente stagflazionistica. La via di uscita consiste in un intervento diretto statale sul terreno dell’occupazione, in un comando sulla composizione della produzione via controllo dei towering heights, in un consumo di natura sempre più “comune” in termini di valori d’uso sociali. I sussidi monetari sono pericolosi e nemici di questa politica che – del tutto esplicitamente – Minsky configura con i caratteri di un possibile socialismo.

Questa forte ispirazione è tradotta, ma è anche un po’ annacquata, nella sua proposta di Stato occupatore di ultima istanza: lo Stato assume tutti coloro che lo desiderano a un salario di base (relativamente) basso, tale da non essere competitivo con il settore privato, da collocare l’esercito industriale di riserva tra gli occupati e non tra i disoccupati, e dunque da sostenere insieme occupazione e domanda. Lo Stato, peraltro, provvederebbe a spendere nei bisogni sociali insoddisfatti, nell’infrastruttura fisica, ambientale, e culturale, e così via. Non una spesa aggiuntiva generica, ma una spesa mirata. Dove stanno i rischi e gli annacquamenti? Un po’ traspaiono in alcuni contributi, sia di critici simpatetici nella prima parte dell’antologia, sia di autori italiani. L’intervento ha natura ciclica, per cui il polmone provvisto dal piano di lavoro garantito si amplia nella crisi e si sgonfia nello sviluppo. Ma è possibile, e forse persino probabile, che invece (come altrove intuisce lo stesso Minsky) la necessità di un intervento dello Stato sia strutturale e crescente, non congiunturale e temporanea. Il salario basso di assunzione garantisce dal rischio inflazionistico, ma non si sa quanto da quello deflazionistico e dalla povertà. È immaginabile che i disoccupati da 20 assumere siano anche o soprattutto qualificati, e non a bassa qualificazione come, con ragione rispetto agli anni in cui scriveva e al contesto americano, pensava Minsky. E si potrebbe continuare.

È indubbio che gli autori della MMT che intervengono nel volume hanno di molto migliorato e specificato il dettaglio tecnico della proposta. Ma il rischio che corrono è di collocarsi per lo più – proprio per il fine di mostrare che si tratta di una politica praticabile nel capitalismo – dal lato di una visione ciclica, non permanente, del ruolo dello Stato come occupatore stabile e di prima battuta, la cui quota dovrà essere crescente nel tempo. L’altra nota di cautela che avanzerei è questa. Rispetto a Minsky, gli autori che propongono politiche di Job Guarantee oggi, se riprendono l’ispirazione minskyana, lasciano da parte alcuni suoi timori e circospezioni. È dimostrabile che Minsky non vedesse come così scontato il fatto che persino uno Stato sovrano come gli Stati Uniti fosse a rischio di crisi del debito pubblico, o persino di fuga dalla propria valuta: la sua prospettiva era quella di una cooperazione internazionale, e probabilmente in una certa fase di coordinamento dei cambi in (mutevoli) fasce di oscillazione controllate dalle diverse banche centrali. Non direi che Minsky sarebbe stato tanto favorevole a quel passo indietro che è l’utopia (o la distopia) di tornare a un controllo meramente nazionale dell’economia, ammesso e non concesso che quella autonomia fosse reale. Inoltre, Minsky appare sensibile al tema di una attenta politica dell’imposizione fiscale per “giustificare” le politiche che favoriva.

Qui il punto non è meramente “tecnico”: sulla tecnica si può dare su molte cose più ragione agli autori MMT che a Minsky (e non si può non ringraziare quella corrente per aver combattuto, assieme a Lavoie, Toporowski, de Cecco o chi scrive, l’idea che la crisi globale od europea sia in ultima istanza una crisi da squilibri nelle partite correnti). Il punto è che il capitalismo non vede una scissione tra tecnica, società e politica: “economia” è a ben vedere l’insieme delle tre cose, su quel centro che sono i rapporti sociali di produzione.

Legate a quel che precede, sono due questioni che incrociano altri dibattiti. La prima ha a che vedere con la proposta alternativa di un basic income universale e senza condizioni, un “reddito di esistenza”. Più o meno tutti gli autori del volume, anche i contributi italiani della seconda parte, esprimono, come me, una filosofia diversa, che in un modo o nell’altro favorisce l’obiettivo della piena occupazione via intervento diretto dello Stato. Pure ed è questa la prima osservazione – quanto si è detto segnala quanto alcuni critici hanno obiettato. La Job Guarantee, come il basic income, potrebbe riprodurre l’incubo polanyiano del sistema di Speenhamland, che forniva sussidi in aggiunta al salario agganciati al prezzo del pane, per garantire un reddito minimo ai poveri indipendente dai loro guadagni. La registrazione delle conseguenze perverse di quel sistema era già in Marx: i poveri assistiti, o i poveri che lavorano, erano ridotti a mendicanti o a lavoratori sempre più poveri. Il basic income può cioè essere il grimaldello di un generale impoverimento, di un abbassamento dei salari, di uno smantellamento del welfare state. Certo, questo non è nelle intenzioni dei proponenti del Job Guarantee, come non lo è in quello dei proponenti del basic income: pure il rischio esiste, ed è insito nell’idea stessa di un “esercito industriale di riserva di occupati”. Per evitarlo, occorre perseguire una strategia di relativamente alti salari offerti dallo Stato; e, per quel che ho detto, anche di crescente e alta qualificazione dei lavoratori che lo stato domanda. Però a questo punto emerge, ovviamente, il problema kaleckiano della incompatibilità con il capitalismo di una piena occupazione permanente.

Prima di passare a questa questione, una osservazione laterale, e poi una più sostanziale. L’osservazione laterale è questa. Bene fanno Foggi e Scorrano a ricordare e ampiamente citare un importante contributo recente di Giovanna Vertova di critica del basic income (esistono altre critiche importanti di tenore non lontano, come quella di Laura Pennacchi). Ma la questione tutto è meno che recente, e forte è stata la disattenzione degli economisti critici italiani. Giovanna Vertova, pressoché unica all’epoca, aprì una discussione sul manifesto nel 2006 – si noti, prima dello scoppio della crisi del 2007-2008 – mostrando le mille falle teoriche e pratiche di quella idea. A quella messa in discussione risposero molti dei fautori del reddito di esistenza, in primis Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli. Tra gli economisti critici, le uniche presenze nel dibattito furono però, a mia memoria, quelle di Halevi e mia, in sintonia con Vertova. Per il resto, intervennero contro il basic income in salsa postoperaista e negriana voci importanti (in un elenco molto incompleto, mi limito a ricordare Ferruccio Gambino, Massimiliano Tomba, Devi Sacchetto, Edoarda Masi: insomma, storici, filosofi, sociologi, comunisti libertari). Ma di economisti, a parte i citati, e di economisti delle culture qui rappresentate (ben vivi e vivaci anche allora), allora, nemmeno l’ombra. Forse li spiazzava una discussione che non stava nell’orizzonte noto Keynes-Sraffa, e che non vedeva nei trent’anni seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale una «Età dell’oro»: se non il comunismo realizzato, poco meno, come ha sostenuto esplicitamente chi ha fantasticato di un «modo statuale di produzione» allora tendenzialmente egemonico.

La questione più sostanziale è questa. La proposta di basic income era allora sostenuta sulla base, in sostanza, dell’idea che il nuovo capitalismo produceva di fatto ricchezza e (plus)valore. Si trattava di rivendicare di essere, come viventi, “produttivi”, e di distribuire valore e ricchezza secondo una diversa logica. Purtroppo a quest’ordine di idee si è accodato il peraltro più interessante Paul Mason nel suo Postcapitalismo [cfr. Bellofiore, 2017]. Era una tesi falsa, vista la nascosta instabilità e la costitutiva insostenibilità di quel nuovo capitalismo, che in sostanza non era altro che un paradossale keynesismo privatizzato e finanziario, destinato a una crisi prossima ventura che avrebbe fatto svanire la (perversa) sorgente di valore e ricchezza, come osservammo nel 2006 Halevi ed io, in qualche modo presentendo la turbolenza in arrivo. Pure, vi è evidentemente qualcosa di significativo nella proposta, specie se ci si allontana dalla riproposizione in salsa italiana e si va all’origine migliore, gli scritti di Philippe van Parijs, con cui ne discussi a Louvain-la-Neuve nel 1985, quando ero visiting professor in quella sede. Se ne rendono conto alcuni autori in questo volume che, pur centrando il discorso sull’asse di politiche per il pieno impiego, azzardano un qualche raccordo con l’ipotesi di reddito di esistenza.

Se è consentito un ricordo personale, una via del genere la provai io stesso, prima che il basic income divenisse una moda in una certa sinistra, in salsa puramente distributiva. Mi riferisco a uno scritto – Per una ripresa alternativa del welfare state [Bellofiore, 1993] – che, data la sede inconsueta per un saggio di tema economico, non lesse, immagino, nessuno – pubblicato dalla rivista del dissenso cattolico Bozze, diretta da Raniero La Valle. L’idea era di vedere in un’erogazione universale di un “reddito minimo garantito” per tutti, come chiamavo allora il basic income, (non, quindi, un salario minimo per i soli disoccupati), la contropartita di attività socialmente utili prestate dai beneficiari. Sussidiario rispetto al welfare, il reddito minimo garantito ne avrebbe ridotto la dimensione, ma doveva essere accompagnato a una generalizzata riduzione e riorganizzazione dell’orario di lavoro (di riduzione di orario, si badi, non ne parla più quasi nessuno, anche se è nel DNA della sinistra), e a un comando mirato sull’occupazione e sulla composizione della produzione via intervento diretto dello Stato nell’assunzione di lavoratori e nell’investimento. La filosofia sottostante era quella di una autentica flessibilità del lavoro e di una socializzazione del settore capitalistico, per opporsi alla vigente flessibilità del capitale (che produce precarizzazione e occupazione povera) ed alla privatizzazione dello Stato sociale. È una idea che ho ripreso ed aggiornato assieme a Giovanna Vertova in Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere [Bellofiore e Vertova, 2014].

I riferimenti principali di questo filo di ragionamento, oltre a un Minsky riveduto e corretto, sono un po’ diversi da quelli che vengono nominati in questo volume, ma vi si incastrano bene, aiutando a sciogliere limiti e ambiguità. C’è il Parguez fautore dei «buoni disavanzi» – disavanzi di stato voluti ex ante, pianificati, che si collocano per così dire naturalmente in una politica di lungo termine, e che sfociano nella produzione di uno stock di risorse tangibili e intangibili: non solo infrastrutture fisiche, non solo o tanto grandi opere, ma anche investimenti nella ricerca, nell’istruzione, nella salute, e così via. Una produzione di valori d’uso sociali che da principio non può che essere finanziata in disavanzo – sempre, nelle economie capitalistiche, e dunque monetarie, il reddito segue alla spesa, come il risparmio all’investimento, e ancora come le imposte alla spesa pubblica – ma che in realtà, al termine degli effetti che ha indotto, finisce comunque con l’autofinanziarsi. Un altro riferimento implicito era, evidentemente, l’«Esercito del lavoro» di Ernesto Rossi, l’idea poi ripresa da Paolo Sylos Labini, come ci viene ricordato ancora una volta recentemente nel loro Nuovi lineamenti di economia politica da Marcella Corsi e Alessandro Roncaglia [2017]. Nell’esercito del lavoro andrebbero arruolati tutti i cittadini per un determinato lasso di tempo, o a intervalli regolari per più brevi periodi. In questo caso si tratterebbe anche di spartire i lavori meno gradevoli. Ma la proposta, almeno nella ripresa che ne facemmo Halevi ed io quasi quindici anni fa, si estendeva a un vero e proprio Piano del lavoro che esplicitamente rimandava a quello della CGIL del 1949-50.

Sicuramente, in questa prospettiva come in quella dei piani di lavoro garantiti, una questione dirimente è quella della compatibilità con un orizzonte capitalistico. Non si tratta di una sterile discussione se si debbano accettare le compatibilità date: nella storia, qualsiasi cambiamento in senso progressivo del capitalismo (se volete, chiamatelo pure un risultato riformatore) ha avuto come condizione un rifiuto delle compatibilità del momento (se volete, chiamatelo pure un atteggiamento rivoluzionario). Il problema è evidentemente quello posto da Kalecki nel 1943. In una ottica, a me pare, tutta chiusa in un orizzonte strettamente economicistico e “tecnico”, gli autori di questo volume non vedono il vero punto del ragionamento dell’economista polacco. Che non è tanto o solo quello di un richiamo al ruolo dell’esercito industriale di riserva nel regolare il salario e la distribuzione, o nel disciplinare i lavoratori, o di segnalare un contrasto puramente politico al pieno impiego da parte dei capitalisti. La questione a me pare un’altra, e cioè che Kalecki coglie bene che condizione essenziale del capitalismo è il comando capitalistico sul lavoro (sull’uso della forza-lavoro, innanzi tutto, non sul suo prezzo) e sulla composizione della produzione (di qui la preferenza allo spreco o al militarismo, piuttosto che a una politica di investimenti pubblici). Come ho scritto prima, immaginarsi una possibile separazione di tecnico e politico, di economico e sociale, significa ragionare di una realtà che non è quella capitalistica (Marx lo avrebbe probabilmente definito proudhonismo).

Proporre una sfida su questi due punti – una piena occupazione vera, che favorisca un aumento del potere del lavoro; e una produzione di valori d’uso sociali, che metta in scacco il primato del valore (di scambio) – può avere soltanto successi limitati e temporanei, non generalizzati e permanenti. Non significa che non vada tentata, evidentemente: per condizionare le scelte capitalistiche; e perché successi limitati e temporanei sono pur sempre successi. Si tratta di attrezzarsi alla reazione del sistema, e di comprendere che la questione di una uscita dal capitalismo, di un cambiamento del modo di produzione, di un ripensamento di una pianificazione in senso proprio, non può essere data per chiusa dalla storia, se davvero si vuole una piena occupazione di lavoratori che oltre che godere di un diritto al lavoro esercitino anche un controllo sul proprio lavoro.

È qui che, in conclusione, si rivela significativo il riferimento al Piano del lavoro della CGIL 1949-50. Il mio consiglio al lettore è quello di affiancare a questo libro, utile per orientarsi nella realtà di oggi, un vecchio volume che dovrà procurarsi in biblioteca (non esiste solo internet). Mi riferisco a Il Piano del lavoro della CGIL, che raccoglie gli atti di un bel convegno organizzato dalla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Modena, il 9-10 maggio 1975, ed edito da Feltrinelli nel 1978 (quanta acqua era passata sotto i ponti in quei tre anni!) [AA.VV., 1978]. È da leggere tutto: relazioni, interventi nel dibattito, comunicazioni. Scrive Fernando Vianello nella premessa che «[c]hiunque voglia prendere sul serio questa parola d’ordine [del pieno impiego], non degradandola a vuota formula di propaganda, ma considerandola come un concreto – ancorché ambiziosissimo – obiettivo di politica economica, si troverà inevitabilmente a proporre qualcosa di non molto diverso da un nuovo Piano del lavoro. È chiaro, infatti, che l’occupazione non può essere aumentata in misura paragonabile alla necessità senza un deciso intervento pubblico, specificamente diretto alla creazione di posti di lavoro. La consapevolezza che la situazione richiede rimedi eccezionali comincia del resto a farsi strada. Com’è testimoniato da una proposta così poco convenzionale come quella [di Ernesto Rossi, che Vianello in nota qualifica come assai più radicale], rimessa in onore da Paolo Sylos Labini, di costituire un “esercito del lavoro”» [ibid., p. 5].

L’ispirazione era quella di creare immediatamente posti di lavoro, allargare il mercato interno, rimuovere strozzature e rafforzare la matrice intersettoriale dei settori, creando nuova e migliore capacità produttiva, più autonoma dal contesto internazionale (esigenze valide anche oggi: ma, si sveglino i sognatori, praticabili ai nostri giorni su scala europea, non più del singolo stato-nazione). Era – e questo è cruciale – non una proposta “tecnica”, era anche essenzialmente e simultaneamente un invito alla lotta sociale, politica, e culturale più in generale. Una ispirazione, possiamo aggiungere, che si può definire a un tempo – strano ossimoro – “keynesiana” e “produttivistica”: d’altra parte, nessuno degli economisti che gravitarono attorno al Piano del lavoro (Breglia, Fuà, Pesenti, Steve, ma anche Caffè, Napoleoni, Sylos Labini, ed altri ancora) era keynesiano tout court, perché forte era una ispirazione strutturale, l’influenza di Marx e Schumpeter, il ricordo del New Deal, la sintonia con la prima “economia dello sviluppo”. Qui basti osservare che le ragioni della sconfitta del Piano del lavoro non stavano soltanto nella scelta politica di una accelerata integrazione al mercato internazionale che fece dell’Italia una economia “aperta” e “dualistica”. Stavano anche, se non soprattutto, nella sconfitta sindacale e politica degli anni immediatamente precedenti.

Va anche riconosciuto che allora – a differenza di oggi, verrebbe da dire – acuta era la coscienza della difficoltà costituita dalla incerta compatibilità con il capitalismo di politiche di pieno impiego. Basta andare a leggersi alcune citazioni contenute nel volume sul Piano del lavoro. Ad esempio quella di Giorgio Fuà: «[I]l dubbio generale che si affaccia è insomma questo: forse che dobbiamo rassegnarci all’idea che l’ordine economico-sociale esistente preclude, per il modo stesso in cui è organizzato, un serio perseguimento di fini sociali? Io non vi invito affatto ad arrendervi completamente a questo dubbio. Ma badate: se uno volesse abbandonarsi a questo dubbio, ridursi a questa posizione negativa, sia chiaro che la sua posizione non potrebbe valere in alcun modo come una critica particolare al piano CGIL, ma avrebbe invece il significato generale, incontrovertibile, della pronuncia di una richiesta di condanna capitale a carico della struttura economico-sociale esistente» [ibid., p. 99]. O quella di Sergio Steve, secondo cui l’onere della prova non ricadeva sulla CGIL ma su «coloro che vogliono e pensano che sia opportuno non mutare la struttura economica e sociale del nostro Paese» [ibid., p. 91].

Mi colloco, ahimé, tra gli scettici, e reputo che su questo sbagliasse di grosso Federico Caffè – il cui insegnamento rimane comunque fondamentale, in favore di una «economia dei controlli» [cfr. Bellofiore, 2013]. Non sbagliava nell’avvertire della sterilità di un atteggiamento di attesa inconcludente del crollo del sistema capitalistico: lì aveva anzi mille volte ragione. Sbagliava invece nella sua lode di un «riformismo gradualistico», e di quelle riforme-grano che miravano puramente alla razionalizzazione del sistema e alla riduzione del costo del lavoro, contro cui aveva avvertito Claudio Napoleoni un paio di anni prima. Era uno sbaglio nella forma della contraddizione, perché in realtà di gradualistico il riformismo di Caffè non aveva un bel niente, era anzi radicale: prefigurando controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai fini della regolamentazione complessiva dell’investimento privato, e così via. Appunto: una vera e propria economia dei controlli: meglio, una amministrazione globale dell’offerta. Un riformismo, quello di Caffè, destinato purtroppo esso stesso a un fallimento, forse proprio perché ostinava a pensarsi come riformismo gradualistico. La sua economia dei controlli e la sua amministrazione globale dell’offerta è però da riproporre oggi, come ho accennato, sulla nuova scala del conflitto dei nostri giorni, cioè sulla scala europea, costruendone con pazienza le condizioni sociali e politiche.

Coglie nel segno, nel volume sul Piano del lavoro, Andrea Ginzburg quando delinea una opposizione tra “analisi” keynesiana e “politica” keynesiana (una distinzione del genere era peraltro presente anche negli scritti di Claudio Napoleoni su Realtà Economica, il bollettino dei Consigli di gestione che l’economista abruzzese diresse e redasse quasi integralmente da solo nella seconda metà degli anni ’40). Ieri come oggi l’analisi keynesiana (sul rapporto risparmi-investimenti) era ed è fondamentale per far emergere contraddizioni e limiti dell’andamento spontaneo del sistema capitalistico, come anche la natura di classe delle politiche deflazionistiche. Le politiche puramente keynesiane (generici investimenti pubblici, o gli incentivi indifferenziati attraverso la manovra del credito o delle imposte) hanno invece respiro limitato, e incontrano difficoltà di vario genere. Scriveva Ginzburg – vien da dire, con preveggenza, se si fa caso all’inquietante tendenza dei più giovani economisti critici a scivolare proprio in questo errore banale – che «si sarebbe potuto trovare nella tradizione marxista una solida base per evitare di cadere nella trappola di assumere posizioni di principio fra quelle false alternative che l’ideologia dominante costantemente propone: autarchia o liberismo, concorrenza o monopoli, iniziativa privata o intervento pubblico: alternative false in quanto entrambi i termini di queste opposizioni rappresentano prodotti, o momenti particolari, del capitalismo e del suo sviluppo» [ibid., p. 132, corsivo nel testo].

Occorre una socializzazione degli investimenti, oltre che dell’occupazione. La seconda non sta senza la prima. Ma la prima impone, prima o poi, di guardare in faccia la natura di classe del sistema, che non si adatta ad essere semplicemente “ripensato”. Starei attento a non mettere il carro davanti ai buoi, eviterei di interrogarmi puramente e semplicemente sulla praticabilità tecnica dei “piani del lavoro garantito”. Prima, come sempre, vengono i rapporti sociali di produzione, e il ristabilimento di un conflitto nella società e nella politica come parte della lotta per la piena occupazione.


Riferimenti Bibliografici
Aa. Vv., (1978), Il piano del lavoro della CGIL : 1949-1950: atti del Convegno organizzato dalla Facoltà di economia e commercio dell’Università di Modena, 9-10 maggio 1975, Feltrinelli, Milano.
Bellofiore R., (1993), “Per una ripresa alternativa del Welfare State”, Bozze, n. 3, pp. 29-54.
Bellofiore R., (2013), “L’economista in tuta da lavoro. Federico Caffè e il capitalismo in crisi”, Postfazione a Caffè F., Economia senza profeti. Contributi di bibliografia economica, Studium, Roma, pp. 119-165.
Bellofiore R. e Halevi J., (2015), “New Deal, socializzazione degli investimenti e «piano del lavoro». L’eredità problematica di Roosevelt e Keynes”, in Pennacchi L. e Sanna R. (a cura di), Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma, pp. 187-199.
Bellofiore R. e Pennacchi L., (2014), “Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento”, in Minsky H. (2014), pp. 11-44.
Bellofiore R. e Vertova G., (2014), “Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere”, La Rivista delle Politiche Sociali, n. 1, pp. 103-122.
Kalecki, M. (1943), Political Aspects of Full Employment, in Kalecki M. (1971), Selected Essays on the Dynamics of the Capitalist Economy, 1939-1970, pp. 138-45, Cambridge University Press, New York. Trad. it., in Aspetti politici della piena occupazione, Celuc, Milano, 1975.
Minsky H.P., (2014), (a cura di Bellofiore R. e Pennacchi L.), Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, Ediesse, Roma. Traduzione di Ending Poverty: Jobs, not Welfare, 2013, The Levy Institute of Bard College.
Vertova G., (2017), “Potenzialità e limiti del reddito di base”, Etica & Politica/Ethics & Politics, XIX, 2017, 1, pp. 143-160.

Comments

Search Reset
0
Eros Barone
Tuesday, 15 September 2020 22:59
Apprendiamo da Rao che sono i libri che determinano la realtà o almeno - così concede l'idealista "à demi-service" - una parte della realtà... Ma allora, tornando a bomba, se la lotta contro il “neoliberismo” dovesse servire solo per ritornare ai fasti e nefasti del liberismo keynesiano – altrettanto capitalistico-borghese – sarebbe meglio rammentare i suggerimenti di Engels e preferire il confronto critico con i nemici dichiarati piuttosto che con i falsi amici. Del resto, ci vuole assai poco a capire quali siano le vere indicazioni keynesiane e allora occorrerà parlare non di neoliberismo, ma semplicemente di capitalismo, di cui il liberismo è l'espressione, quale che sia la forma, anche keynesiana.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
carlo rao
Tuesday, 15 September 2020 03:42
E’ noto come Keynes già dalla fine degli anni 20 in diversi interventi e scritti elaborò la gran parte delle idee guida che DOPO, nel 36, confluirono in modo organico nella sua “Teoria generale...”. Chi si volesse documentare in merito può leggere : Keynes “Come uscire dalla crisi”, Laterza 2004, dove sono raccolti diversi suoi interventi teorici apparsi ben prima che il cosiddetto “New Deal” venisse lanciato dalla amministrazione Roosevelt. Infatti è di anni prima l’inizio del lungo confronto teorico tra Keynes e Hayek dove il dibattito verteva su TUTTI gli elementi base della visione economica keynesiana. Prova ne sia la lettera aperta che Keynes scrisse al neo eletto Roosevelt nel 1933 per tramite del New York Times, dove si legge tra l’altro: “...Individuals must be induced to spend more out o their existing incomes; or the business world must be induced, either by increased confidence in the prospects or by a lower rate of interest, to create additional current incomes in the hands of their employees, which is what happens when either the working or the fixed capital of the country is being increased; or public authority must be called in aid to create additional current incomes through the expenditure of borrowed or printed money...” Naturalmente vi sono limiti direi “naturali” alla adesione perfetta di un modello teorico alla realtà concreta degli eventi, già nell’ ambito delle scienze naturali, figuriamoci entro le scienze economico sociali. Entro questi limiti, mi pare si confermi la validità dell’accostamento tra il New Deal e le tesi keynesiane in sviluppo già dalla metà degli anni 20. Posso anche convenire sulla opinione che il testo di Keynes del 1936 si avvalga anche di quanto la concreta realtà americana stava indicando nei primi anni della presidenza Roosevelt, e la verifica “sul campo” delle teorie mi pare testimoni il buon approccio alla realtà che un economista sempre dovrebbe avere.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Monday, 14 September 2020 12:05
@ Carlo Rao
"Nel modello economico di Keynes certo non vi è posto per una teoria coerente del valore/plusvalore". Inesatto: nel modello economico di Keynes non vi è posto per una teoria del valore/plusvalore". Punto.
"La politica economica lanciata dall'amministrazione Roosevelt, il “New Deal”, è in approssimazione un esempio dell'applicazione del modello keynesiano, e contribuì alla ripresa dell'accumulazione del capitale." Falso: non poteva essere un'applicazione per il semplice motivo che il "New Deal" viene attuato tra il 1933 e il 1937, mentre la "Teoria generale" viene pubblicata nel 1936. Vale invece l'inverso, e cioè che la "Teoria generale" è una generalizzazione teorica dell'esperienza economica fatta con il "New Deal".
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
carlo rao
Monday, 14 September 2020 02:47
Nel modello economico di Keynes certo non vi è posto per una teoria coerente del valore/plusvalore, e tuttavia non di rado perviene a conclusioni assimilabili a quelle a suo tempo previste da Marx. Le categorie implicate sono reddito, risparmio e investimento, e il perno cui vengono agganciate queste variabili è il livello dell'occupazione, quindi la determinazione del salario. Redditi e risparmi vengono considerati tra loro autonomi, per cui il risparmio non è un passaggio intermedio per tradurre i redditi in investimenti: la massa di risparmio accumulato può eccedere la massa di capitale destinata all'investimento. Secondo Keynes in un modello ideale di funzionamento l'aumento degli investimenti produttivi e di conseguenza dell'occupazione induce un rialzo dei redditi, sia quelli da lavoro che quelli da capitale, da cui si ottiene un aumento del risparmio che verrà “trasferito” in nuovi investimenti. Ma questo ciclo virtuoso propagandato dai teorici cosiddetti “marginalisti” tende a bloccarsi in una economia già sviluppata. Ciò è dovuto, secondo Keynes, al fatto che l'unica ragione per la quale il capitale offre la prospettiva di rendere un valore superiore al suo prezzo di costo è perché esso è scarso. Keynes condivideva con Marx la tesi che il lavoro fosse l'unico fattore di produzione, per cui non è lecito ritenere il capitale come fonte diretta di produttività, ed in questo contesto se il capitale abbonda vale di meno, cioè rende minor profitto, così come l'oro non avrebbe il valore che ha se lo si trovasse con facilità in qualsiasi corso d'acqua. Si può dire che per Keynes si stabilisce nel lungo periodo una relazione inversa tra accumulazione del capitale e profitti, legata alla necessità di realizzare il profitto entro il rapporto domanda /offerta nel mercato: se un dato capitale consistente in mille macchine per la tessitura procura un profitto proporzionato alla quota di domanda di tessuti che si può soddisfare con esso, l'aggiunta di una macchina alle altre mille procurerà un rendimento aggiuntivo trascurabile, e se altre verranno aggiunte si avrà sovrapproduzione con conseguente caduta del tasso di rendimento. Simmetricamente vi sarà anche una saturazione della domanda perché a un certo grado di crescita del reddito rispetto alla popolazione la propensione ai consumi tenderà a diminuire. In analogia con la previsione di Marx dell’ aumento della composizione organica del capitale, nel quadro keynesiano l'aumento dello stock di capitale determina una caduta del suo rendimento che indebolisce la propensione all'investimento e conseguentemente la domanda di lavoro; sostanzialmente è qui in azione la contromisura alla caduta del saggio di profitto, tra quelle previste da Marx, incentrata sulla compressione dei salari attraverso l'aumento dell'esercito industriale di riserva. Nel modello di Keynes dopo un lungo periodo di accumulazione e di aumento della produttività del lavoro, come nel XIX secolo, sia il saggio di rendimento (profitto) del capitale sia la propensione al consumo divengono entrambe così deboli che l'incentivo a investire e a consumare non sarà sufficiente a sostenere una domanda effettiva compatibile con la piena occupazione. La politica economica lanciata dall'amministrazione Roosevelt, il “New Deal”, è in approssimazione un esempio dell'applicazione del modello keynesiano, e contribuì alla ripresa dell'accumulazione del capitale. Ma più che il New Deal fu decisiva la Seconda Guerra Mondiale, dove la “piena” occupazione si raggiunse sommando i soldati al fronte con gli operai nelle fabbriche, quest'ultimi ovviamente disposti a lavorare con salari molto bassi piuttosto che ritrovarsi in battaglia. Del resto Keynes non a caso riteneva che tra i fattori che nel XIX secolo avevano consentito elevati saggi di profitto, nonostante uno stock crescente di capitale, vi fossero le guerre (in media una ogni 10 anni). In generale nella fase iniziale di sviluppo dell'accumulazione il saggio di profitto è elevato e tende a superare il saggio di crescita dell'economia, ma in seguito avanza come tendenza un eccesso di risparmio non “tradotto” in investimenti. Nella crisi del 29 questi fattori erano già operanti, e il salariato-consumatore era il principale destinatario del sostegno alla domanda effettiva da parte dello Stato ipotizzato da Keynes per superare la crisi, o almeno per mitigarne gli effetti nel breve periodo.
La ricostruzione post bellica in un certo senso sembrò dar ragione alle tesi keynesiane. Fino agli anni 60 una forte ripresa dell'accumulazione nei paesi del capitalismo maturo vide gli Stati assumere un ruolo decisivo: lo Stato regolava il “dosaggio” tra profitti e salari assumendo in sostanza il ruolo di “capitalista collettivo” in grado di imporre un saggio uniforme del profitto adatto alla bisogna della complessa ripresa post bellica, con esiti talvolta non dissimili da quella “socializzazione degli investimenti” di cui parla Bellofiore. L'equilibrio tuttavia tornò ad essere instabile principalmente per due motivi: 1) aumento del debito pubblico, da cui uno scontro sul terreno della fiscalità generale come forma nella sfera distributiva del conflitto profitti/salari; 2) il riposizionamento dei paesi detentori delle materie prime a seguito del declino del colonialismo, nel quadro del confronto con URSS e Cina. La crisi globale iniziata nel 73 mise in evidenza che le politiche statali keynesiane di sostegno alla domanda attraverso la piena occupazione nel lungo periodo sono d'ostacolo alla valorizzazione del capitale. Perciò negli anni 80 queste politiche vennero progressivamente abbandonate, ponendo forti limiti allo Stato come regolatore dei fattori produttivi attraverso il credito pubblico, e fu sancita l'autonomia delle banche centrali dai rispettivi governi. Questo “neoliberismo” non favorì gli investimenti per la crescita, piuttosto tentò di risolvere il problema del credito/debito pubblico e dell'inflazione trasferendone la gestione ai mercati finanziari/creditizi transnazionali. In questo nuovo scenario una ripresa della valorizzazione del capitale sarebbe potuta avvenire solo con il ricorso al capitale produttivo d'interesse, gestito dalle Banche Centrali e da quelle d'affari transnazionali. Il ruolo preponderante dei movimenti finanziari globali è il fattore che, dagli anni 80 e sino allo scoppio della crisi nel 2007, ha costituito il più potente contrasto al declino del saggio di profitto. Un contrasto che però si è basato sulla sostanziale autonomia del fattore monetario dalla sfera della produzione, che infatti era una delle contromisure alla caduta dei profitti già previste da Marx. Questa nuova fase iniziata negli anni 80 la possiamo definire con la nozione marxiana di capitale fittizio.
Se il quadro d’insieme è corretto, seppure in estrema approssimazione, va da se che il “modello” keynesiano non è oggi riproponibile. D’altro canto, anche la “socializzazione degli investimenti” auspicata da Bellofiore non si sa che voglia dire, dal momento che richiederebbe in premessa una chiara teoria dello Stato nelle sue funzioni odierne (come l’essere parte di una “zona Euro”), e una teoria delle classi nel capitalismo finanziario/creditizio, e ad oggi non abbiamo ne l’una ne l’altra.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Davide Casartelli
Saturday, 12 September 2020 18:36
Ritornando sui "pensieri" di Keynes, una delle soluzioni alle crisi, da lui caldeggiata, era quella di impegnare lo Stato in una politica attiva in favore di investimenti sottoposti ad un controllo centralizzato, con decisioni che potevano riguardare persino programmi apparentemente (sostanzialmente!) dispendiosi e inutili (il pensiero va oggi al Ponte sullo Stretto di Messina o al Tav!), o investimenti per attività socialmente utili (costruzioni di case, ecc.). Seppure finanziati in deficit, questi lavori avrebbero alimentato la domanda e la produzione, assorbendo la disoccupazione e stimolando la ripresa di un normale (?) corso economico.
Non ci voleva di certo un pensiero geniale (o la “precisione analitica” che qualcuno pretende di attribuire a Keynes) per scoprire che senza un alto potere d’acquisto le merci prodotte rimangono invendute: il cosiddetto gap tra consumo e produzione diventa abissale, tanto più che i prezzi delle merci offerte sul mercato devono garantire un profitto ai produttori.
Keynes – di fronte al più che evidente fallimento della “scienza economica” dominante – cominciò dunque a sviluppare un’altra idea: quella di un intervento nella economia da parte dello Stato al fine di sostenere sia la domanda di merci che l’occupazione.
Con questo va detto che Keynes, con la sua Teoria generale della crisi, non ha affatto rotto con i principali concetti a base dell’economia neoclassica: semmai ha cercato di meglio adattare queste rappresentazioni mentali ad una realtà che si mostrava ben differente da quella delle astratte visioni in cui si dibatteva il pensiero economico del suo tempo. Assolutamente non vi è nel liberale Keynes nessun minimo accenno volto ad un superamento del capitalismo, che per l’egocentrico personaggio sarebbe stata una vera e propria bestemmia.
Bastava quindi procedere ad alcune riforme, liberando il sistema dalla destabilizzante ideologia e pratica del laissez-faire. Keynes credeva fermamente nelle potenzialità di sviluppo e di crescita del capitalismo, e quindi in una sua stabilità storica. La sua teoria non metteva minimamente in discussione il capitalismo, considerandolo un modo di produzione destinato a sopravvivere, alla sola condizione di essere ben “curato”! Decisamente al contrario di quanto sosteneva un Marx, ossia il “carattere ristretto semplicemente storico, passeggero del modo di produzione capitalistico”.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Pantaléone
Saturday, 12 September 2020 12:41
AlsOb
Caro amico, i manager non creano assolutamente nulla, è il movimento autonomo dei capitale.
Sarebbe anche più preciso usare il termine REPODUZIONE del capitale, piuttosto che accumulazione.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Friday, 11 September 2020 23:31
Non bisogna mai dimenticare che Keynes, seguendo le orme di Roosevelt e di Hitler, è stato l’artefice teorico di un tentativo di salvataggio del capitalismo consistente nel dotare quest'ultimo di una mano artificiale in più rispetto a quella "invisibile" del mercato: una mano resa visibile dal dispositivo, lo "Stato sociale" per l'appunto, allestito per ripristinare un equilibrio che non era più possibile conseguire in modo automatico e spontaneo. La 'soluzione-tampone' fu individuata (Bismarck, Lassalle e von Ketteler 'docent') nella domanda dello Stato creata surrettiziamente a partire da un'offerta pletorica e senza sbocco. Sennonché, come riconoscono ormai gli storici e gli economisti più avvertiti, fu soltanto la spesa monetaria, enormemente accresciuta per far fronte alla seconda guerra mondiale, quella che finalmente pose termine alla "grande depressione”. Oggi, 75 anni dopo, il fallimento keynesiano del cosiddetto "Stato sociale" porta, via fascistizzazione, allo Stato antisociale del capitalismo monopolistico transnazionale, forma politico-istituzionale di un dominio imperialistico fondato sulla controrivoluzione preventiva all'interno e sulle guerre di aggressione all'esterno.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Davide Casartelli
Friday, 11 September 2020 18:45
Certamente, di fronte a chi legge ma non comprende (si parla di “poche idee e quelle poche confuse” senza spiegarci di quale confusione e idee si tratti!) inutile insistere. Soprattutto dopo aver letto il modo chiaro e ordinato in cui si esprimerebbe un parere contrario. E per favore lasciamo stare Marx, dandone interpretrazioni senza capo né coda. Specialmente se si tira in ballo la caduta tendenziale del saggio di profitto senza aver capipo di cosa si tratti. A proposito: cosa centra la soap opera Beatifull e la Stephanie? - Davide Casartelli
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
AlsOb
Friday, 11 September 2020 16:27
>>Vi è chi sostiene che il capitalismo potrebbe avere una >>nuova fase di sviluppo attraverso politiche keynesiane >>orientate sia in senso redistributivo che verso massicci >>>investimenti statali...[Eros Barone]
Se così fosse sarebbe un esito da giustificare ancora minimi ottimismi. E potrebbero pure chiamarle politiche marxiane dato che Marx per primo, o secondo siccome da credito al furbo Malthus, spiegò la domanda effettiva. Negli anni 70 la classe dominante spaventata dalla crescita rivoluzionaria del capitalismo optò per una decisa frenata dell'accumulazione e per il cammino verso un nuovo feudalesimo, perciò dopo le sciocchezze antiscientifiche neoliberiste utili solo a incrementare lo schiavismo, per difendere il capitalismo fittizio in versione medievale attuerà politiche tipicamente corporative fasciste.
Il problema dei soldi non esiste, ormai hanno adottato la Stephanie.
Per quanto riguarda l'Italia (nel senso classista di grande maggioranza della popolazione) autocastratasi, priva di politica monetaria e fiscale e a moneta straniera come colonia della Germania dipende dall'accumulazione che i tedeschi adotteranno, tra mercantilismo spinto e gestione della nuova guerra fredda, ma a ogni modo nel suo ruolo subalterno continuerà parecchio penalizzata.
Se è vero in generale che il progresso tecnico e l'aumento della composizione organica del capitale dovrebbero causare una riduzione del tasso di profitto in rapporto al tasso di salario e quindi una eventuale crisi, la classe dominante si è al momento ampiamente prevenuta nei confronti di tale esito e perciò gli spazi di investimento e crescita sarebbero ancora grandi prima della sua manifestazione. La crisi attuale dipende fondamentalmente dagli altri fattori individuati da Marx, domanda effettiva, equivoca e instabile accumulazione, destabilizzazione finanziaria e speculativa .

Come scrive, magari in modo un poco figurativo e approssimativo ma da rendere l'idea Pantaléone, la classe dominante ha creato il capitalismo fittizio nel quale gli schiavi sono suddivisi in due gruppi quelli supersfruttati che producono il plusvalore e le merci e quelli disoccupati a vita a cui via banca centrale daranno una elemosina che contribuisce "marxianamente" alla realizzazione del valore di scambio.

Davide Casartelli ti sei sforzato ma nonostante la simpatia come recita una efficace per quanto logora espressione, poche idee e quelle poche confuse.
Tra i due libri intelligenti su Keynes uno è quello di Minsky curato dal nostro delle semiesogenie, il secondo appartiene a un ammirato studioso italiano morto giovane in uno strano incidente, Fausto Vicarelli, "Keynes e l'instabilità del capitalismo" del 77. Allora c'era ancora una scuola italiana dell'economia, oggi molti sedicenti economisti si dedicano a disegnare in modo esibizionistico grafici sui morti da virus in un settore di cui sono totalmente ignoranti, anche se hanno l'attenuante di capirne più di capitalismo. Se i grandi classici li vedessero li definirebbero mentalmente disturbati.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Pantaléone
Thursday, 10 September 2020 20:49
In poche parole, il capitalismo ha cambiato forma e si è virtualizzato e reso autonomo, crea il valore di cui ha bisogno per la sua riproduzione, è andato oltre il rapporto lavoro/capitale, se in passato dipendeva dal lavoro salariato per accumulare il suo valore, oggi non è più così.
Così la questione del salario universale torna in primo piano.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Davide Casartelli
Thursday, 10 September 2020 13:17
E’ bene sempre ricordare che Keynes – non solo da parte di molti economisti borghesi ma anche di quelli di “sinistra” – è ritenuto il maggior economista del 20° secolo; considerava il Capitale di Marx “un libro di testo obsoleto che so non solo di essere scientificamente errato ma senza interesse o applicazione al mondo moderno". Fra le colpe attribuite a Marx, quella di “esaltare il proletariato maleducato al di sopra della borghesia e dell'intellighenzia, che con tutte le sue colpe sono la qualità della vita e sicuramente portano i semi di tutte le conquiste umane?”. Da buon sostenitore della classe dominante, Keynes rifiutava la teoria marxista del valore-lavoro, disprezzava una teorizzazione dello sfruttamento della forza lavoro per estrarre profitto, cioè lavoro non retribuito della classe operaia. Per tutto il resto, era il mercato che decideva, con uno scambio libero ed equo: al capitale il profitto, ai lavoratori (se occupati) il salario.
Riguardo al saggio del profitto ed alle sue “cadute”, Keynes fantasticava attorno alla “efficienza o inefficienza (la produttività - ndr) marginale del capitale” e tirava in ballo le “aspettative psicologiche dei capitalisti riguardanti il futuro”. E Marx, poveretto, che si intestardiva nel considerare la “composizione organica del capitale” la causa della riduzione del lavoro vivo! Per Keynes, invece, tutto dipendeva dalle “reazioni soggettive dei singoli capitalisti”, ragion per cui si doveva “restituire ai datori di lavoro un margine di profitto adeguato". Testuale!
Dunque, l’uovo di Colombo ci veniva offerto da Keynes con la "socializzazione degli investimenti". E se poi non dava risultati per il “rilancio”, occorreva una riduzione dei tassi d'interesse e la immissione di denaro dalle banche centrali con l’aggiunta di stimoli fiscali e tagli alle tasse. Per tutto questo, era meglio far intervenire lo Stato con qualche suo “piano” di sviluppo. Per un miglior "funzionamento tecnico" del modo di produzione capitalistico. Così si sarebbero dovuti risolvere “i problemi economici del mondo reale"…
Il baronetto Keynes sosteneva che una volta rimesso in ordine il sistema (con la “piena occupazione” salariata) si sarebbero sviluppati a gonfie vele i mercati “liberi”, assicurando così un «ambiente che richiede il libero gioco delle forze economiche per realizzare le piene potenzialità della produzione». Finalmente il capitalismo si sarebbe salvato e imposto ovunque come il migliore dei mondi possibili! Dunque, a chiare lettere, Keynes non era soltanto un intellettuale di stampo dichiaratamente borghese, ammiratore della “intellighenzia” che sedeva alla coorte di sua maestà il capitale, ma un convinto sostenitore del modo di produzione capitalistico e della società modellata dalla “borghesia colta".
Dunque, non si usciva dalle fantasie attorno al mito dello stabilizzarsi di un’auto-regolazione dei mercati capace di garantire un equilibrio «naturale» del sistema economico capitalistico. La Teoria Generale di Keynes si aspettava uno sviluppo del processo imprenditoriale di decisione degli investimenti, ma gli animal spirits che movimentano il capitale hanno seguito una logica del tutto irrazionale, a loro imposta dalle leggi di movimento del capitalismo.
Quanto ad una politica di “offerta monetaria”, essa non avrebbe effetti sulla disoccupazione né, tantomeno, sui cosiddetti «fondamentali dell’economia». L’automatizzazione del lavoro avanza ovunque, e la robotica crea disoccupazione: o no? La liquidità diffusa ha complicato ulteriormente la cosiddetta «stagnazione secolare», conseguente – si dice – a un «eccesso di risparmi» (rispetto agli investimenti) che implica un tasso di interesse «naturale» negativo. L’«austerità espansiva» non funziona – lamentano gli economisti borghesi – se non si introducono forti tagli all’imposizione fiscale e altre riduzioni dei tassi di interesse, stimolando (a credito) la spesa in beni di consumo ed investimenti produttivi.
Ma questi tentativi di un «ripensamento del capitalismo su un piano distributivo» pongono come intoccabile condizione l’integrale (per tutti “essenziale”!) conservazione del comando sul lavoro da parte della valorizzazione del capitale. E qui entrano in scena (anche se le luci sono ormai spente…) tutti quegli “antagonisti” che blaterano su “cambiamenti del modo di produzione, con pianificazioni (produttive di merci in abbondanza), piena occupazione, ecc.”. Con quel pizzico di uno pseudo “socialismo” che – dopo il “diritto al lavoro salariato” – farebbe conquistare ai proletari anche “un controllo sul proprio lavoro”.
Esistono poi diversi “Piani del lavoro” con le firme di celeberrimi economisti alla ricerca dello sviluppo e della crescita. Insomma, gira e rigira, l’alternativa è sempre quella: ci vogliono più controlli, la socializzazione degli investimenti, pubblici e privati: poi scatterà il famoso “moltiplicatore” keynesiano: più merci e più consumi. Ma c’è un grosso ostacolo: gli investimenti – ammessi ma non concessi – sono accompagnati da una diminuzione percentuale del lavoro. Il che fa cadere il tasso medio di profitto. Il capitale diventa fittizio e invano si cerca di farlo ritornare “produttivo” (di valore) proprio quando il progresso tecnico e scientifico sta annunciando la fine storica del lavoro salariato, quello che fornisce plusvalore al capitale. La ruota della storia, se pur lentamente, gira…
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Wednesday, 09 September 2020 22:34
Vi è chi sostiene che il capitalismo potrebbe avere una nuova fase di sviluppo attraverso politiche keynesiane orientate sia in senso redistributivo che verso massicci investimenti statali. In un contesto in cui le politiche
neo-liberiste di destrutturazione sociale sono clamorosamente fallite, l’opzione keynesiana torna in primo piano. Sennonché chi potrebbe finanziarle? Non certo i lavoratori, giacché in una situazione di crisi, e cioè di stasi o di diminuzione del plusvalore prodotto, a più alti salari corrisponderebbero profitti più bassi. Non certo il capitale, perché la profittabilità è seccamente decrescente. Lo Stato, quindi. Ma dove può attingere il denaro? Non può attingerlo né dal lavoro né dal capitale, come si è appena detto. Dunque occorre attingere al debito pubblico. Ma questo è già alto e inoltre darebbe ansa alla formazione della bolla speculativa. La risposta keynesiana è che lo Stato dovrebbe attingere al debito pubblico temporaneamente per finanziare grandi opere con grandi investimenti pubblici. Gli investimenti iniziali provocherebbero altri investimenti, e questi altri ancora, attivando un circolo virtuoso di moltiplicazione dell'occupazione e della produzione di ricchezza. A quel punto le maggiori entrate dello Stato potrebbero essere usate per eliminare il debito pubblico: ecco il moltiplicatore keynesiano. Ma è stato dimostrato che non funziona.
Dopo i primi investimenti indotti dallo Stato, i capitalisti a cui sono state affidate le opere pubbliche dovranno piazzare commesse a loro volta presso altri capitalisti. Questi sono i capitalisti che offrono i prezzi più convenienti, i capitalisti i cui lavoratori sono più produttivi e i cui capitali sono più efficienti e quindi quelli che impiegano proporzionalmente più mezzi di produzione che lavoro. In altri termini, essi sono i capitalisti che producono meno plusvalore per unità di capitale investito. Così, ad ogni passo della catena di investimenti, il lavoro aumenta in assoluto ma diminuisce percentualmente, talché il tasso medio di profitto cade. Per di più, la crescita dei capitali più forti implica la sparizione di quelli più deboli, ossia di quelli che percentualmente occupano più forza-lavoro che mezzi di produzione. Quando la catena di investimenti si ferma, la situazione che ne scaturisce è la seguente: un minor numero di lavoratori è stato impiegato, un minor plusvalore è stato prodotto e il tasso medio di profitto è caduto. La verifica empirica lo conferma: ad una crescente spesa statale corrisponde un calo del tasso di profitto. In conclusione, la fallacia del ragionamento keynesiano è che non considera le conseguenze delle politiche d’investimenti governative per il tasso di profitto, il quale è la variabile fondamentale dell’economia capitalistica. La ragione della correlazione negativa è che ad ogni ciclo di investimenti, gli investimenti in mezzi di produzione sono percentualmente maggiori di quelli in forza-lavoro, come previsto dalla teoria marxista. Insomma, di fronte al fallimento delle politiche economiche sia keynesiane che neoliberiste non sembrano esserci vie d'uscita se non quella generata spontaneamente dal capitale stesso: una massiccia distruzione di capitale. Si uscì infatti dalla crisi del 1929-1933 solo con la seconda guerra mondiale...
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Wednesday, 09 September 2020 18:14
Al solito, AlsOb, conquisti il centro della scena con i tuoi commenti. Mi ricordi quel grande attore (che mai raggiunse la parte del Quijote) quando con una mano sul mento e lo sguardo perplesso mormorava "si potrebbe...". Caffé non lo ricordo con quella espressione, ma con lo sguardo mite certamente. Allora, salario o capitale variabile? In fondo, a parte quell'essere immondo che strisciava all'ultimo piano di Economia a Roma, quando proprio doveva, e non lo evoco altrimenti potrebbe persino diventare candidato al Nobel, aduso come pochi al whatever it takes.... Va be', prendo aria...si trattava pur sempre di Politica Economica e Finanziaria. Salari avrebbe significato domanda aggregata. Ma forse Caffé, come mi pare tu anche, non voleva insegnare al padrone un paio di trucchetti. Dici "tentino di resistere", "romanticamente al passato". Appunto, a meno che...? Grazie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
AlsOb
Wednesday, 09 September 2020 14:48
Più che contraddizioni keynesiane, secondo una formula che nella sua vaghezza va bene in ogni occasione come il prezzemolo, è la logica dell'analisi e della narrazione storica a presentare sintomi di oziosità.
Nel 2006 la Vertova mandata in avanscoperta a criticare il reddito di cittadidanza lo fece legittimamente in termini ideologici e politici e (meno legittimamente) moralistici ma in modo appiccicaticcio e inconsistente in quelli scientifici e tecnici da cui pretendeva partire. I fatti del 2007-08 dimostrarono che il capitalismo fittizio rappresenta una radicale svolta e che guardare romanticamente al passato, come Michele Castaldo non manca mai di rimproverare sulla base della sua sofferta esperienza e delle sue intuizioni e inquietudini spirituali, serve a poco. Non solo Tesoro e Banca Centrale hanno provveduto a fornire e isituzionalizzare un enorme "reddito di cittadinanza", ma si è preso atto che per il progresso tecnico e le caratteristiche politiche del capitalismo fittizio una gran parte della popolazione non troverà mai più un lavoro.
Federico Caffé può darsi che sbagliasse se realmente disse che la riduzione dei salari fosse una soluzione, ma sollevava i nodi centrali dello stato dell'accumulazione italiana che raggiunto quel livello per affrontare strozzature e rafforzarsi necessitava di specifiche politiche attive.
Siccome la strada che si è intrapresa è quella del cambio forte condita da smantellamento delle caratteristice storiche e strutturali del modello di accumulazione capitalistico nazionale in un contesto europeo segnato più da guerre imperialistiche che da cooperazione è del tutto logico e consequenziale che il lavoro e i salari diminuiscano drasticamente e che si accentuino gli elementi schiavistici. I pochi sindacati e lavoratori che valorosamente tentino di resistere lo fanno nello spazio del martirio.
Indubbiamente prima verrebbero i "rapporti sociali di produzione, e il ristabilimento di un conflitto nella società e nella politica come parte della lotta per la piena occupazione [o per una diversa modalità di accesso al surplus socialmente prodotto]" tuttavia se idealisticamente si rimuove la realtà si finisce inesorabilmente solo per consolarsi nel passato e sognare.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit