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moneta e credito

Passo d'addio

di Roberto Artoni

cover 2Abstract. Nelle scuole di danza il passo d’addio è il saggio finale che chiude il periodo di formazione dei giovani ballerini, ormai pronti a intraprendere la carriera professionale. Nel mio caso il passo d’addio ha un significato del tutto diverso: è il momento finale di una lunga esperienza, rappresentando la presa d’atto dell’itinerario culturale che è stato seguito nel corso di cinque decenni.

 

Quadro iniziale

Se torno indietro alla fine degli anni ’60, i riferimenti sono agevolmente sintetizzabili. Da un lato, la microeconomia con i due teoremi dell’economia del benessere e, dall’altro, la macroeconomia nella versione IS-LM, fissata nei suoi termini essenziali da Hicks e Modigliani.

Ovviamente, la sistemazione della microeconomia, per le condizioni molto stringenti che garantivano l’efficienza nella produzione e nello scambio e per la indeterminatezza distributiva, lasciava ampio spazio per ulteriori approfondimenti e articolazioni. Per quanto mi riguarda, il primo approfondimento è stato il teorema di impossibilità di Arrow. Il teorema, sulla scia di Sen, è stato da me interpretato come la dimostrazione che al di fuori di giudizi di valore (le comparazioni interpersonali di utilità) in una società articolata in gruppi sociali non è possibile, se si escludono soluzioni dittatoriali, individuare un assetto distributivo appropriato e condiviso.

La macroeconomia, come veniva allora impostata, portava a sua volta ad attribuire la responsabilità della disoccupazione alla rigidità dei salari.

La contrapposizione con Keynes era evidente. Nella mia lettura di allora, ma anche di oggi, Keynes misurava in primo luogo le grandezze macroeconomiche in termini di unità salario; in secondo luogo, dimostrava (o tentava di dimostrare secondo alcuni interpreti) che una riduzione dei salari monetari non era una soluzione appropriata per i problemi di disoccupazione, giustificandosi interventi diretti sulla domanda aggregata.

Cominciai allora a ritenere molto corretto un argomento che credo debba essere fatto risalire a Marx: è interesse dell’imprenditore pagare il meno possibile i suoi dipendenti, ma nello stesso tempo è suo interesse che gli altri imprenditori paghino salari elevati. Anticipando considerazioni che faremo in seguito, la soluzione a questo contrasto di interessi è stata apparentemente trovata alla fine del secolo scorso con la forte crescita dell’indebitamento delle famiglie, sfociato poi nella crisi del 2008.

Ovviamente, se le rappresentazioni allora per me rilevanti erano molto stilizzate, nel mondo scientifico il dibattito era molto vivace. Il problema del ruolo della moneta negli schemi walrasiani era lungi dall’essere risolto (si pensi ai lavori di Patinkin, 1965). Le elaborazioni teoriche più sofisticate affrontavano i problemi di stabilità e di unicità dell’equilibrio economico generale (data per ammessa l’esistenza). Questi problemi, non risolti, sono stati rimossi, come si ignorano le difficoltà connesse al riferimento a un agente rappresentativo. Allora mi fu molto utile a fini di orientamento un libro di Quirk e Saposnik (Introduction to General Equilibrium and Welfare Economics, 1968).

In Italia si sviluppava poi con forza il dibattito sulla teoria del capitale, nel quale economisti italiani della generazione precedente alla mia ebbero un ruolo rilevante. Da queste controversie si poteva derivare l’importanza del pluralismo nella ricerca. Nel quadro del dibattito keynesiano il libro di Leijonhufvud On Keynesian Economics and the Economics of Keynes (1968) suscitò in me interesse, costituendo un oggettivo arricchimento rispetto al keynesismo idraulico allora dominante.

Sempre nel contesto macroeconomico un punto mi sembrava particolarmente problematico. Giudicavo molto insoddisfacente l’assimilazione del meccanismo concorrenziale, riconoscibile nella microeconomia, a una sorta di asta universale prodromica a uno stato di equilibrio o di quiete. Le teorie schumpeteriane della concorrenza come distruzione creatrice, con l’attribuzione di un ruolo fondamentale all’imprenditore, mi sembravano molto più significative. Inoltre, la sintesi che lo stesso Schumpeter (1955) ha fatto nell’appendice a Capitalismo, socialismo e democrazia dell’economia marxiana, con la sottolineatura della tendenza alla concentrazione produttiva, mi sembrava molto importante. Il ruolo molto vago dell’impresa nei modelli walrasiani mi appariva in altri termini un significativo limite.

 

Vincolo estero

Sempre in ambito macroeconomico all’inizio degli anni ’70 si è manifestato il problema del vincolo estero. Due punti analitici hanno assunto allora particolare rilievo. Si affermò una cieca fiducia nella manovra del tasso di cambio come strumento sia di aggiustamento sostanzialmente indolore della parte corrente della bilancia dei pagamenti, sia di sostegno alla crescita attraverso l’aumento delle esportazioni. Fu poi condiviso un modello elaborato da Mundell (1968): in regime di cambi flessibili la politica fiscale è uno strumento efficace per il raggiungimento dell’equilibrio interno, mentre la politica monetaria consente con le variazioni del saggio d’interesse, e quindi i movimenti di capitale, il pareggio della bilancia dei pagamenti. L’assegnazione degli strumenti è invece opposta in regime di cambi fissi. Entrambe queste proposizioni furono acriticamente accettate in Italia nei primi anni ’70 in una situazione congiunturale non positiva, che rifletteva peraltro un ciclo internazionale riflessivo.

Sul piano analitico sia la fiducia cieca nelle variazioni del tasso di cambio, sia l’esaltazione del modello mundelliano (sul quale mi esercitai anch’io con una pubblicazione in una rivista che allora aveva un certo rilievo internazionale: Artoni, 1970) erano certamente eccessive. Questa pubblicazione è stata definita dal mio maestro di allora un esercizio; in questa definizione ero implicitamente invitato a dare basi più robuste alle mie ricerche.

Per quanto riguarda gli effetti delle variazioni del tasso di cambio ricordo in particolare un saggio di Hirschman del 1949 (ripubblicato con il titolo La svalutazione e la bilancia commerciale: una nota, nella raccolta Come complicare l’economia, 1988), che esplicitava le condizioni in termini di elasticità della domanda di importazioni e di esportazioni o di valuta di fatturazione che dovevano essere verificate perché si producesse un miglioramento del saldo commerciale.

Ma, soprattutto, sia la prospettazione degli effetti di una svalutazione, sia l’adesione al modello di Mundell ignoravano completamente le componenti speculative che sono strutturalmente connaturate agli scambi internazionali. Nella storia italiana, la voce “errori e omissioni” della bilancia dei pagamenti con le sue oscillazioni è un indice di speculazione, nascondendo solo parzialmente fenomeni di sottofatturazione delle esportazioni o di sovrafatturazione delle importazioni.

Più in generale, i movimenti di capitale, lungi dall’essere fattore di stabilizzazione o di compensazione di scelte espansive di politica fiscale, hanno indotto in Italia rilevante e ricorrente instabilità, cui si è dovuto far fronte con politiche restrittive. Nell’esperienza degli anni ’70 è stupefacente come siano stati rimossi gli insegnamenti degli anni ’30, quando i movimenti destabilizzanti di capitali furono rilevanti. In quegli anni i libri di Arndt (1949), di Stein (1969), di Gardner (1978) o di Triffin (1973) furono per me particolarmente significativi, consentendomi a mio giudizio una corretta lettura degli accordi di Bretton Woods. In particolare, questi lavori dimostrano che qualsiasi analisi economica non può prescindere da un corretto inquadramento storico e istituzionale. Se si vuole il vincolo estero è anche il riflesso della configurazione politica di un paese, in termini di contrapposizione fra le classi sociali, o fra paesi in termini di potere. Gli insegnamenti di De Cecco (1971) sono stati per me fondamentali.

Le vicende degli anni ’70, cominciate con la sospensione della convertibilità del dollaro, in assenza di alternative si sono risolte nell’attribuzioni al dollaro, e alle istituzioni finanziarie di quel paese, di un ruolo del tutto egemone. In Italia, l’assenza di un convinto ancoraggio della valuta è stato fattore d’inflazione per tutti gli anni ’70. Solo una politica più rigorosa nel corso degli anni ’80, ha permesso di ridurre fortemente il differenziale d’inflazione rispetto agli altri paesi in un quadro macroeconomico nella seconda metà degli anni ’80 relativamente favorevole. A conclusione della storia, la formale liberalizzazione dei movimenti di capitale del 1987 ha prodotto una forte uscita di capitali privati, fragilmente compensata dall’indebitamento delle istituzioni finanziarie nazionali, fino alla crisi valutaria di origine europea del 1992.

Se posso sintetizzare, il vincolo estero nella parte corrente richiede politiche tendenti al rafforzamento del sistema produttivo con la cosiddetta politica industriale. D’altro canto, la competitività di un paese si manifesta nel saldo corrente in corrispondenza di un adeguato utilizzo delle risorse; se si registra uno squilibrio, manovre restrittive, fra cui rientrano anche le svalutazioni con le connesse perdite di ragioni di scambio, sono giustificate. L’equilibrio nei flussi di capitale è anche, e forse soprattutto, manifestazione di assenza di conflittualità sociale. In Italia è sempre stato difficile, fin dai primi decenni postunitari, convincere i detentori di capitale finanziario a impiegare le loro disponibilità in valuta nazionale, come ci ha ricordato sempre De Cecco.

 

Imposte

Al di là delle mie esigenze di inquadramento complessivo della disciplina e del fatto che io abbia insegnato per alcuni anni economia internazionale, i miei interessi sono stati essenzialmente rivolti all’economia pubblica o, per meglio dire, ai diversi capitoli della scienza delle finanze.

Il primo oggetto di analisi è stato indirizzato ai problemi tributari. L’ispirazione è riconducibile al titolo di un’opera fondamentale nella storia del pensiero economico: I Principles of Political Economy and Taxation di David Ricardo (1817). Se noi ci soffermiamo sulla seconda parte del titolo, assumendola ad oggetto di analisi, avviamo uno studio del tutto formale del sistema tributario. Operiamo in buona misura da tributaristi o da economisti incauti che traggono conclusioni su imposte e loro variazioni astraendo dal funzionamento del sistema economico. Molte proposte di politica tributaria assumono implicitamente, pur essendo formalmente molto progressiste, impossibilità di traslazione per effetto della flessibilità delle remunerazioni. Se invece ci riferiamo all’intero titolo dei Principles, seguendo Ricardo inseriamo gli effetti dei tributi in una lettura complessiva del funzionamento del sistema economico. Individuiamo le remunerazioni rigide, distinguendole da quelle che di fatto diventano oggetto d’imposizione, o esploriamo le aree di rendita potenzialmente tassabili senza alcun effetto secondario; in sostanza compiamo un’analisi del sistema tributario istituzionalmente rilevante. In questo senso, le proposte oggi di tassazione incrementale dei redditi di capitale o dei profitti delle imprese multinazionali richiedono, per essere efficaci, assetti sovranazionali capaci di circoscrivere le pratiche elusive.

Accanto all’analisi ancora importante di Ricardo, deve essere ricordato per la sua influenza il contributo di Harberger (1962), che ha dimostrato in un modello strettamente neoclassico che le imposte generali incidono sulla loro base legale. Ciò di fatto porta a ritenere che le imposte sui profitti non si traslino: è tuttavia evidente che imposte effettivamente generali sono di difficile realizzazione. Le lezioni tenute da Antonio Pedone negli anni ’60 su questi temi, e solo ciclostilate, sono state per me importanti, ispirando un mio esile volume degli anni ’70 (Artoni, 1979).

A rischio di eccessive semplificazioni, oggi l’analisi degli effetti delle imposte sulla distribuzione funzionale del reddito non mi sembra particolarmente sviluppata. È certamente fiorente il filone à la Piketty che chiede in modo piuttosto aproblematico un inasprimento delle aliquote dell’imposta personale per i redditi più elevati, associato a forme di imposizione patrimoniale.

Sul fronte opposto sono molti i contributi del filone denominato Optimal Taxation. Questa linea di analisi per la sua impostazione utilitaristica sembra implicare un ritorno alla fine dell’800. Allora l’utilitarismo à la Edgeworth portava a sollecitare l’introduzione di imposte fortemente progressive; la reazione dell’economia ortodossa non si fece attendere attraverso il rifiuto delle comparazioni interpersonali di utilità. Oggi la stessa impostazione utilitaristica, associata a rilevanti elasticità dell’offerta di lavoro a variazioni del salario, ha fornito il supporto teorico per scelte tributarie che si sono risolte in una riduzione del carico fiscale sui redditi più elevati. Pur essendo estraneo a questa letteratura, mi sembra che le violente oscillazioni dei risultati analitici alla variazione di ipotesi comunque arbitrarie, prima fra tutte la quantificazione molto ardita dell’elasticità dell’offerta di lavoro, renda a mio giudizio questa letteratura non particolarmente stimolante.

Seguendo le indicazioni di illustri economisti del passato, si deve riconoscere il carattere strettamente politico di molte scelte in materia fiscale, determinate, da un lato, dalla configurazione dei rapporti di forza all’interno della società in un certo periodo storico e, dall’altro, da una lettura più o meno corretta del funzionamento del sistema economico sempre in uno specifico momento.

 

Welfare state

Nella sfera della finanza pubblica il fatto saliente dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale è stato lo sviluppo dello stato sociale. All’esito di un lungo processo oggi tutti i paesi sviluppati hanno forme di assicurazione, riferite comunque a larga parte della popolazione, che garantiscono l’accesso alla pensione, ai sussidi di disoccupazione, alle rendite in caso di invalidità o all’assistenza sanitaria quando necessario. La sistemazione teorica può essere attribuita ad Arrow in un celebre articolo (1963): il sistema di mercato non garantisce la completezza dei mercati. In particolare non è possibile ottenere copertura adeguata dai grandi rischi dell’esistenza quali sono quelli coperti dal welfare state. Là dove i meccanismi privati di protezione non sono adeguati, sono attivate forme di protezione sociale. I sistemi non sono peraltro uguali in tutti i paesi, essendo diverso il grado di universalismo o la ripartizione delle competenze fra istituzioni pubbliche e private.

Su questi temi la letteratura degli ultimi decenni è vastissima. Una larga parte è dedicata alle proiezioni di spesa in un futuro più o meno lontano, sulla base di ipotesi molto coraggiose. Questa letteratura, estrapolando le tendenze all’invecchiamento della popolazione o alla caduta della natalità, porta tipicamente a conclusioni preoccupanti sulla sostenibilità nel medio o lungo periodo dei sistemi di welfare. Al di là della qualità (spesso dubbia) di queste proiezioni, oggi i livelli di spesa in termini di PIL, al netto delle imposte sulle prestazioni, sono molto simili in tutti i paesi sviluppati, con l’eccezione della Francia dove l’incidenza della spesa sociale è sensibilmente più elevata.

Sulla base delle proiezioni di lungo periodo via via aggiornate sono state introdotte riforme finalizzate al rallentamento della crescita della spesa sanitaria e di quella pensionistica. Lavori dell’OECD successivi alla crisi del 2008 lasciano tuttavia intendere che forse si è andati troppo oltre nell’azione di contenimento (Fall, 2014). Sono cresciuti in molti paesi gli unmet medical needs, come è stato ulteriormente dimostrato dalla crisi pandemica del 2020. Le prospettive di adeguatezza dei sistemi pensionistici, valutati nella loro funzione di garantire un livello di reddito adeguato e ragionevolmente differenziato a chi ha cessato l’attività lavorativa, possono essere compromesse dalle riforme introdotte in alcuni paesi.

Sul piano interpretativo gli spunti più interessanti sono riconducibili ai rapporti fra componenti private e pubbliche nei sistemi di welfare. A questo riguardo si deve fare riferimento all’esperienza degli Stati Uniti, dove il ruolo delle assicurazioni private, nel comparto sanitario e in quello previdenziale, è centrale, al contrario di quello che avviene nell’Europa continentale. Due libri di Jacob Hacker analizzano a mio giudizio l’esperienza americana con grande lucidità. Il primo (The Divided Welfare State, 2002) riconduce la segmentazione del sistema americano fra una componente pubblica relativamente limitata e non universalistica e una privata fiscalmente agevolata a un fattore fondamentale: i sindacati, non legati a un partito politico di riferimento, hanno sviluppato forme di welfare fondate sulla loro presenza all’interno delle grandi imprese. Oggi la copertura dei lavoratori non supera il 60% del totale dei dipendenti con una modesta presenza dei lavoratori di piccole imprese o appartenenti alle minoranze etniche. La social security, emblematica creazione del New Deal, garantisce pensioni modeste, comunque inferiori a quelle assimilabili dei sistemi pubblici europei. Trattamenti congrui derivano solo dai fondi pensioni aziendali. Naturalmente, i sistemi privatistici sono ampiamente sostenuti da agevolazioni fiscali concentrate di fatto nei quintili di reddito più elevati.

Nella sfera sanitaria la potenza degli interessi collegati al mondo della medicina ha impedito ai tempi di Roosevelt il varo di riforme organiche, come ha condizionato tutti gli sviluppi successivi. Le grandi riforme risalgono alla presidenza Johnson, con l’introduzione di forme di assistenza sanitaria per poveri e anziani, o dopo cica 50 anni alla riforma Obama, che si propone di estendere l’assicurazione sanitaria a quella consistente quota di cittadini fin qui non assicurata.

Il secondo libro di Hacker (The Great Risk Shift, 2008) analizza gli effetti della trasformazione dei piani pensionistici aziendali dalla forma a prestazione definita (in cui la rendita è collegata in varia forma alle retribuzioni) a quelli a contribuzione definita (in cui al contrario la pensione è il risultato dell’investimento dei contributi nel mercato dei capitali con tutte le incertezze che ne conseguono). Mentre nel primo caso il rischio è a carico dell’impresa, nel secondo è a carico del singolo. Non è necessario sottolineare che la presenza di componenti private nei sistemi pensionistici è coerente con gli interessi molto rilevanti dell’industria del risparmio gestito.

Al di là dell’interesse che può avere lo studio dell’esperienza americana, di fronte alla crisi vera o presunta del nostro sistema di finanza pubblica, ipotesi d’imitazione del modello di welfare degli Usa sono state avanzate anche nel nostro paese. Forme previdenziali private, per legge a capitalizzazione, sono state introdotte con un rilevante sostegno fiscale. Analogamente, sistemi privati di assicurazione sanitaria con il consenso sindacale si sono sviluppati. Il tutto si inquadra, non so con quanta consapevolezza, in politiche tendenti a limitare le responsabilità pubbliche nei sistemi di welfare, con un’attenzione molto limitata ai problemi di coesione sociale.

A monte della costruzione e dello sviluppo dello stato sociale, si collocano problemi fondamentali attinenti alla nozione stessa di giustizia sociale o alle dinamiche che si innescano per effetto della creazione di sistemi tendenzialmente universalistici a contrasto dei grandi rischi dell’esistenza. Qui posso solo ricordare tre libri che per me hanno avuto grande importanza.

Lealtà, defezione e protesta di Hirschman (2002) dimostra la pericolosità in termini di diritti di cittadinanza della segmentazione nella fornitura di servizi come sanità ed educazione. Lo stesso Hirschman ha poi sottolineato i problemi che sorgono, come in effetti è avvenuto, quando l’ambito dello stato sociale si allarga per effetto della sua progressiva estensione: si parla di growing pains che richiedono continui e consapevoli aggiustamenti degli assetti istituzionali.

Hirsch nei Limiti sociali dello sviluppo (1981), sulla base della categoria trascurata di beni posizionali (per cui l’utilità che si trae dal consumo di un bene dipende dal livello del consumo dello stesso bene da parte degli altri componenti della collettività) sostiene che nei paesi sviluppati la conflittualità sociale è anche la conseguenza dell’aspirazione all’accesso a posizioni qualificate, per definizione limitate. La differenziazione nella qualità dell’educazione è sintomo di questa conflittualità.

Walzer, infine, nelle Sfere di giustizia (1987), dimostra l’inadeguatezza di una ricerca dell’uguaglianza orientata solo alla redistribuzione del reddito monetario, destinata di fatto a riprodursi continuamente. L’uguaglianza sostanziale può derivare solo data regolazione nell’accesso ai servizi essenziali di una collettività, evitando la dipendenza dal reddito individuale.

 

Monopolio naturale

Un cosiddetto scienziato delle finanze ha dovuto occuparsi di altri due temi tradizionalmente presenti nella disciplina, ma diversamente declinati nel corso degli anni ’90: impresa pubblica e debito pubblico. Sul primo punto, era opinione condivisa che in presenza di rendimenti crescenti di scala, tipici dei servizi a rete, un monopolio pubblico fosse auspicabile, e tendenzialmente preferibile a imprese private controllate dall’autorità pubblica.

Alla luce dell’esperienza inglese degli anni ’80, la visione tradizionale fu o rifiutata o radicalmente circoscritta. Le imprese pubbliche erano meno efficienti di quelle private; le componenti di monopolio naturale nella filiera produttiva di un certo bene erano circoscritte; un’autorità di regolazione, per quanto possibile autonoma rispetto al potere politico, sarebbe stata comunque capace di tutelare i consumatori. Di fronte a impostazioni così rassicuranti, e così nitide nelle loro implicazioni, la professione ha assistito nel nostro paese a un ampio processo di privatizzazione, che ha investito nella loro totalità monopoli naturali come la rete autostradale, per molti versi le telecomunicazioni e entro certi limiti il settore elettrico. Per quanto si possa trarre dalle esperienze del nostro e di altri paesi, gli esiti gratificanti che i propugnatori delle privatizzazioni prospettavano sono stati solo parzialmente raggiunti, quando gli esiti stessi non sono stati esplicitamente perversi.

Personalmente, nel 2014 sono stato curatore di un volume della Storia dell’Iri riferito al decennio delle privatizzazioni, in cui autorevoli studiosi hanno posto in luce i numerosi aspetti problematici emersi nella liquidazione del più grande gruppo industriale italiano, anche se pubblico. A mio giudizio, le opinioni tranchant e le soluzioni semplicistiche nascondono sempre insidie: in altri termini, le indicazioni tradizionali in materia di monopoli naturali non erano così irrilevanti come si voleva far credere.

 

Debito pubblico

I problemi del debito pubblico hanno assunto rilievo nel nostro paese per la straordinaria accumulazione verificatasi dalla fine degli anni ’70 ai nostri giorni. Si possono e si devono indicare i molti fattori che hanno determinato la crescita e ne hanno caratterizzato la dinamica. Il periodo 1980-1985 ha registrato una forte crescita del debito, trainata da un consistente disavanzo primario e dai primi effetti dell’innalzamento dei saggi d’interesse reali iniziato negli Stati Uniti. Le scelte espansive dei primi anni ’80, oltre ad essere un frutto tardivo dell’adesione al modello di Mundell, hanno rappresentato anche un maldestro tentativo di sganciare l’economia italiana dal ciclo internazionale che si temeva negativo per effetto della seconda crisi petrolifera mondiale.

Gli anni 1985-91 si segnalano per un riassorbimento del disavanzo primario, anche se l’indebitamento annuale è stato estremamente elevato per effetto di tassi di interesse sul debito pubblico elevati. Sul livello dei tassi influì la liberalizzazione dei movimenti di capitale che si risolse nell’uscita di capitali privati e nell’entrata di capitali bancari a condizioni molto favorevoli per i prestatori fino al collasso del 1992. Negli anni successivi alla crisi valutaria del 1992 la crescita continua, anche se moderata, del rapporto debito/PIL è stata essenzialmente determinata da un tasso di crescita del PIL del tutto insoddisfacente e sempre superiore al costo medio del debito pubblico; il saldo primario è stato sempre positivo con una sola eccezione nel 2009.

La sintesi della storia del nostro debito pubblico dimostra che le cause dell’incremento o della non diminuzione del rapporto debito/PIL sono molteplici (le stesse considerazioni valgono per periodi più lunghi). Come le cause sono molteplici, così le azioni, o le non azioni, di politica economica non possono essere univoche.

Non si devono seguire politiche avventurose o velleitarie, come è accaduto nel 1980, ma anche nel 1973. Si devono tener presenti gli effetti destabilizzanti dei movimenti internazionali di capitale. Da questo punto di vista è essenziale la distinzione fra debito pubblico collocato all’interno, in linea di principio sempre gestibile, e debito collocato all’estero. Il debito estero impone, in assenza di compensazioni finanziarie, trasferimenti reali di risorse all’estero, limitando quindi a questa componente lo spostamento dell’onere sulle generazioni future.

Questo punto era già stato chiarito da Voltaire, come ci ricorda Einaudi nei suoi Principî (1948). Comunque, sui problemi di sostenibilità del debito le analisi di ormai antichi economisti keynesiani, come Domar (1944), sono più istruttive di molte delle recenti elaborazioni, in alcuni casi erronee nella ricerca di soglie quantitative che non devono essere varcate. In ogni caso il tentativo di correggere la dinamica del debito pubblico con politiche deflazionistiche, sperando in una austerità espansiva, o varianti, si sono rivelate del tutto illusorie e in generale controproducenti.

 

Gli anni ’90

Gli anni ’90 segnano la crisi che sembrava definitiva della macroeconomia keynesiana con alcuni importanti corollari che ponevano in discussione gli assetti sociali che si erano affermati nei decenni successivi alla seconda guerra mondale. Possiamo ricordare alcuni punti salienti, che riassumano il cosiddetto ‘Washington Consensus’. Contributi molto influenti (ad esempio di Feldstein, 2002; o di Lindbeck, 1995) attribuivano alla spesa sociale effetti nefasti sulla propensione al risparmio e all’intraprendenza individuale, spingendo verso la privatizzazione dei grandi servizi sociali. Si doveva perseguire la flessibilità nel mercato del lavoro, ridimensionando il ruolo dei sindacati, come prerequisito per la crescita dell’occupazione in un quadro distributivo non distorto da rigidità retributive. Ovviamente, si continuava a proporre una valutazione molto critica in teoria, ma molto meno nella realtà di importanti paesi, del ruolo dello stato attraverso la politica industriale.

In questi anni si è assistito anche alla globalizzazione dei processi produttivi, che si è risolta, sotto il controllo delle grandi imprese soprattutto americane, nella localizzazione nei paesi in via di sviluppo di produzioni importanti, molto spesso nocive all’ambiente. Le grandi istituzioni finanziarie americane sono poi diventate i gestori dei flussi finanziari internazionali, sventando i tentativi, destinati a fallire, di acquisizione di un ruolo significativo da parte di alcune banche europee.

La teoria economica ufficiale accompagnò questi processi, fornendo strumenti analitici a sostegno e ignorando in larga misura gli aspetti problematici dei sistemi economici e finanziari che si andavano configurando. A questo riguardo è esemplare la proposizione e l’accettazione, almeno in alcuni ambienti accademici, della cosiddetta teoria del Real Business Cycle. I cicli economici sono risposte efficienti agli aggiustamenti indotti dalle innovazioni tecnologiche. Questa teoria non attribuisce alcun ruolo alla politica monetaria. Per una valutazione molto critica faccio riferimento a un saggio di Paul Romer (2016).

Di fronte alla difficoltà di accettare la teoria del Real Business Cycle, ma sempre con lo stesso fondamento analitico, furono proposti, e continuano ad essere proposti, modelli tendenzialmente più moderati, che rientrano nell’ancora oggi accademicamente fiorente New Keynesian Economics, di cui conviene richiamare i termini essenziali, come rappresentati da un autorevole esponente di quel filone, Jordi Galì, in un articolo del 2018.

La New Keynesian Economics ha introdotto nell’apparato analitico del Real Business Cycle variabili nominali (prezzi, salari e tassi d’interesse) e ha in un certo senso superata l’ipotesi di concorrenza perfetta assumendo che le imprese applichino mark ups ai costi. È stata inoltre assunta l’esistenza di rigidità nominali che per le imprese e i consumatori-lavoratori si traduce nell’ipotesi di aggiustamenti parziali di prezzo e salario in ogni periodo.

Tutto ciò ha portato alla costruzione di un modello costituito da tre equazioni. L’equazione 𝐼𝑆, evidentemente discendente dall’omonima equazione di Hicks, pone l’output gap nel periodo corrente pari alla differenza fra l’output gap atteso nel periodo successivo e un ammontare proporzionale al divario fra il tasso d’interesse reale e il tasso naturale d’interesse. L’output gap è misurato dalla differenza fra il prodotto corrente e quello potenziale o naturale. A loro volta le grandezze “naturali” sono quelle che corrispondono a una situazione di piena flessibilità di prezzi e salari.

La seconda equazione, denominata New Keynesian Phillips curve, determina l’inflazione come funzione dell’inflazione attesa e dell’output gap. Infine, l’interest rate rule descrive il meccanismo di determinazione del tasso d’interesse nominale, che dipende essenzialmente dalla regola adottata dall’autorità monetaria in cui entrano il tasso di inflazione corrente e la deviazione del prodotto dal sentiero naturale. In un modello così articolato la politica monetaria è efficace non solo sulle variabili nominali, ma anche su quelle reali.

Pur con tutti i possibili arricchimenti, ma nel rispetto della struttura di base e in assenza di ogni accenno al ruolo della politica fiscale (almeno fino alla crisi del 2008), i modelli neokeynesiani sono stati oggetto di stime econometriche sorrette da sapienti calibrazioni per le numerose variabili non osservabili, diventando guida e presupposto, a quel che si afferma, per le politiche economiche di istituzioni sovranazionali e di banche centrali. Rimane il fatto che al di là di tutte le elaborazioni ipotizzabili, ci troviamo in un mondo che in assenza di rigidità ripropone il modello walrasiano con tutte le ottimalità derivate a livello microeconomico. Gli effetti delle rigidità di prezzi o salari sono circoscrivibili con politiche monetarie, non ponendosi problemi di carenza di domanda aggregata, di nuovo con conclusioni non lontane da quelle derivabili dai modelli keynesiani à la Modigliani.

Comunque, è utile fare riferimento a un confronto che fa lo stesso Galì in un intervento del 2012 fra modello classico (dove l’occupazione è determinata dal salario reale), modello keynesiano (dove invece è la domanda aggregata che determina l’occupazione) e modelli neokeynesiani, dove prezzi e salari sono rigidi, nel senso che sono modificabili solo parzialmente in ogni periodo, comportando l’allontanamento dall’equilibrio ottimale. In questo quadro analitico la politica monetaria si trova di fronte a un trade off fra stabilizzazione dei prezzi e dell’occupazione.

In altri ambiti di ricerca la teoria economica dominante ha sviluppato temi che portavano a sostenere l’irrilevanza o la perniciosità di una politica economica attiva. La formulazione di aspettative collegate all’accettazione del modello neoclassico, ritenuto aderente alla realtà concreta, sconsigliavano non solo in teoria interventi modificativi degli assetti potenzialmente naturali. Per questa via si veniva di fatto ad attribuire un ruolo condizionante ai mercati finanziari o ai grandi operatori che ne determinavano l’operatività.

Accenneremo poi agli effetti che la crisi del 2008 ha prodotto sulla modellistica macroeconomica. Qui conviene sottolineare alcuni problemi che, pur in un quadro di apparenti e progressivi equilibri macroeconomici, cominciavano a manifestarsi. Il primo problema riguardava la distribuzione del reddito: in particolare, la dinamica salariale si era sistematicamente allontanata in quegli anni dall’andamento della produttività. In altri termini, come sottolineò Blanchard (2005), la flessibilizzazione del mercato del lavoro, più che occupazione, produceva precarizzazione e salari stagnanti. Gli effetti che ne sarebbero derivati sulla domanda aggregata furono tuttavia mascherati nel paese egemone da una formidabile espansione dell’indebitamento delle famiglie, con il quale si sostenne la domanda di beni di consumo durevoli, l’acquisto di abitazioni o l’accesso a servizi essenziali come sanità ed educazione.

Si aggiunga che i processi di delocalizzazione produttiva, se in una prima fase furono fonte di grandi profitti per le imprese occidentali controllanti, dopo non molto risvegliarono le capacità imprenditoriali dei paesi ospiti, ponendo le basi per nuove forme di concorrenza internazionale. La Cina è il caso tipico. Qualcuno ha sostenuto che gli antichi romani, giunti al culmine della loro potenza, giudicarono pericoloso, oltre che faticoso, sostenere le campagne militari a difesa dei confini dell’impero. Decisero dunque di affidarsi ai barbari con le conseguenze a tutti note. Si potrebbero vedere analogie con quanto è successo a partire dalla fine del secolo scorso e continua ai nostri giorni: si stanno cioè realizzando le precondizioni per lo spostamento del centro economico mondiale.

Chi si era formato a partire dalla fine degli anni ’60 si sentiva ovviamente estraneo agli sviluppi sia teorici sia di politica economica. Poteva individuare, in una sfera molto privata, elementi di potenziale crisi o poteva rifugiarsi in analisi storiche o istituzionali che le impostazioni qui delineate trascuravano. Personalmente ho trovato elementi di riflessione, tardiva, nel libro di Polanyi, La grande trasformazione (1974), dove si sostiene in particolare che lasciare il destino della terra (che oggi possiamo intendere come ambiente) e dell’uomo (in quanto percettore di un salario) al mercato avrebbe portato all’annientamento dei meccanismi di integrazione sociale. Nello stesso senso movimenti incontrollati di capitali potevano essere forieri di gravi fenomeni d’instabilità.

 

La crisi del 2008

La crisi del 2008 ha prodotto effetti importanti sotto molti aspetti. È stata scossa la fiducia nella capacità di orientamento e di stabilizzazione dei mercati finanziari, dove le grandi case finanziarie erano ritenute depositarie di aspettative razionali, per definizione corrette.

Personalmente, ho formato in buona misura le mie opinioni al riguardo sulla base di due libri The House of Debt di Mian e Sufi (2014) e Other’s People Money di John Kay (2015). Vi sono descritti i meccanismi con cui gli operatori finanziari si sono trasformati da intermediari fra investitori e risparmiatori in soggetti gestori di scambi finanziari nell’interesse proprio, con dimensioni progressivamente crescenti fino al crollo del 2008.

A seguito del crollo sono state riprese e valorizzate le tesi di Minsky sull’inerente instabilità dei mercati finanziari ed è tornato popolare un libro sempre importante come Il Grande Crollo di Galbraith (1962) per le forti analogie fra la crisi del 1929 e quella del 2008.

Risposte di politica economica alla crisi sono riconoscibili in tutti paesi avanzati, anche se con diverse convinzione e intensità. Gli Stati Uniti, oltre a salvare gli intermediari finanziari più compromessi, dimenticarono rapidamente le indicazioni della teoria neokeynesiana avviando un esperimento di politica fiscale fortemente espansiva. La crisi economica, come misurata dal tasso di crescita del PIL, venne rapidamente superata.

La crescita nell’area euro è risultata nell’arco del decennio assai mediocre, con la parziale eccezione della Germania che ha registrato in quegli anni un enorme avanzo commerciale. In Europa, dopo un breve momento keynesiano, le politiche tornarono rapidamente nell’alveo ortodosso, almeno fino al 2015 quando la politica monetaria divenne più espansiva con il sostegno ai corsi del debito pubblico. Nel 2012, quando la caduta dei livelli di attività era stata solo contenuta e si annunciava una ripresa della recessione, le autorità monetarie europee sottolineavano la pericolosità dell’accumulazione del debito pubblico, auspicando politiche fiscali prudenti e riforme del mercato del lavoro finalizzate a un ulteriore flessibilizzazione, o precarizzazione, dei rapporti contrattuali.

La crisi del 2008 ha prodotto effetti anche sulla ricerca economica, anche se sono lungi dall’essersi esauriti. Per effetto delle vicende che hanno condotto alla crisi, il filone neokeynesiano ha risposto arricchendo il modello di base con il fine di renderlo più realistico o meno incompleto. È stato inserito un settore finanziario all’origine completamente assente; sono state inoltre attenuate le ipotesi di aspettative razionali, di perfetta informazione o di orizzonte infinito di un agente rappresentativo, oltre ad altri elementi vagamente realistici. Con questi aggiustamenti gli economisti neokeynesiani, eventualmente sostenuti da verifiche empiriche più o meno avventurose, ritengono di riuscire a descrivere e interpretare gli eventi post 2008, riproponendo i loro modelli come guida microfondata alla politica economica. Rimane il fatto che l’impostazione di fondo, pur integrata da eventuali altre cause di allontanamento da esiti ottimali, rimane invariata rispetto a quella pre-crisi. È comunque mia impressione, se non altro per il lag lungo e variabile con cui i lavori accademici escono dopo la loro prima elaborazione, che le riviste ritenute eccellenti, giudicate colpevolmente unico veicolo di trasmissione di valida ricerca, continuino a dare ampio spazio alla letteratura cosiddetta neokeynesiana (e su questa base si costruiscono le carriere accademiche).

Non sono mancate peraltro critiche radicali da parte di economisti importanti, anche se non molto giovani. Merita a mio giudizio ancora attenzione il libro di Hahn e Solow, A Critical Essay in Modern Macreconomic Theory, pubblicato già nel 1995. A loro volta, Stiglitz, Krugman e Hendry e Muellbauer sono stati concordemente critici dell’economia postkeynesiana in articoli pubblicati sull’Oxford Review of Economic Policy nel 2018. Krugman, in particolare, ha sostenuto che nel tentativo di rispondere alla crisi le banche centrali hanno adottato, senza molte esitazioni, il tradizionale modello IS-LM. Abbiamo già ricordato il saggio di Romer (2016). Blanchard e Summers hanno scritto nel 2017 un paper dal significativo titolo “Rethinking Stabilization Policy: Back to the Future” (2017), in cui si chiedono, e rispondono positivamente, se gli eventi degli ultimi dieci anni hanno posto in dubbio la “presumption” che i sistemi economici siano autostabilizzanti. Auspicano un ripensamento “major” del pensiero macroeconomico, rivalutando il ruolo della politica fiscale e non attribuendo rilievo in fasi di recessione ai problemi di accumulazione del debito pubblico.

La crisi del debito delle famiglie ha poi messo in evidenza i problemi di distribuzione funzionale e personale del reddito. Un lavoro di Saez e Zucman (2020) ha dimostrato che la crescita degli ultimi 30 anni ha beneficiato solo il segmento più ricco della popolazione. La causa è attribuibile alle modifiche delle regole del mercato del lavoro e alle riforme fiscali via via introdotte, oltre che al gonfiamento dei corsi azionari (con garanzia peraltro di interventi di salvataggio da parte delle banche centrali in caso di caduta delle quotazioni). Summers (2017) a sua volta ha sostenuto la necessità di rafforzare il potere sindacale, per ristabilire un equilibrio fra le parti sociali compromesso da cosiddette riforme, con forti effetti sulla distribuzione del reddito negli ultimi decenni.

 

Conclusioni

Se la crisi del 2008 ha prodotto incertezza sul funzionamento dei sistemi economici e fondati dubbi sulla qualità della ricerca economica dominante, la pandemia scoppiata nel 2020 ha accentuato la necessità di interventi correttivi a sostegno dei redditi, dimostrando anche la pericolosità di assetti sociali in cui una parte consistente della popolazione non è adeguatamente assicurata contro i grandi rischi dell’esistenza. Se Arrow riteneva necessario l’intervento collettivo in caso di incompletezza di mercati essenziali, le vicende più recenti dimostrano che interventi pubblici parziali o inadeguati possono produrre effetti disastrosi. Tutto ciò impone una profonda riconsiderazione di molte politiche seguite degli ultimi decenni a fronte di un’eccessiva concentrazione nella distribuzione del reddito o d’insufficiente estensione dei sistemi del welfare.

Alla luce dell’esperienza degli ultimi anni si pongono problemi per la ricerca economica. Oggi si assiste a una sorta di silenziamento dei dibattiti sui fondamenti della disciplina: il ripensamento sollecitato da Blanchard e Summers (2017) non si è certo sviluppato nei canali accademici importanti. Si assiste al contrario al tentativo di applicazione delle tradizionali modalità di analisi economica a campi estranei all’economia in senso stretto. Qualche maligno potrebbe osservare che, date le difficoltà che si incontrano nell’analisi economica in senso stretto, la tentazione di colonizzare altri settori delle scienze sociali, tipicamente la politologia, è molto forte. A mio giudizio, i risultati, pure spesso confortati da stime econometriche più o meno ardite, mi sembrano molto superficiali, e comunque scarsamente consapevoli dei processi conoscitivi delle altre discipline.

Ci possiamo chiedere, da parte mia con presunzione, come dovrebbe essere sviluppata la teoria economica. È certo che un modello, inteso come strumento di organizzazione dell’analisi, deve sempre essere configurato (anche se non necessariamente in forma matematica); è pure certo che un modello deve isolare solo alcuni elementi della realtà oggetto di studio. Si deve tuttavia osservare che non tutte le astrazioni sono ammissibili, dovendo essere sempre garantito un minimo di realismo del modello utilizzato. È mia impressione che i modelli neokeynesiani, nella loro ansia di rappresentare una realtà coerente con una certa visione prescientifica, abbiano superato i limiti ammissibili.

In passato si attribuiva all’econometria un ruolo essenziale nella conferma dei risultati analitici derivati dai modelli teorici. Ricordo che quando venne presentato il modello econometrico della Banca d’Italia, il Governatore affermò che a quel punto i dibattiti di politica economica avrebbero trovato una risposta scientifica inoppugnabile nella soluzione del modello. Oggi mi sembra che le applicazioni econometriche abbiano riferimenti molto più circoscritti, e nella migliore delle ipotesi certamente non fondanti la disciplina, rimettendo a mio giudizio all’analisi storica e istituzionale sia l’individuazione di problemi, sia la validazione dell’analisi teorica.

Credo inoltre che uno degli aspetti deteriori dei curricula accademici vigenti sia stato l’emarginazione della storia delle dottrine. È stato affermato che chi studia oggi medicina può tranquillamente ignorare Galeno e tutti i medici non moderni. A questa affermazione si può obiettare che Le Corbusier era un attento studioso dell’architettura antica. Si deve dunque decidere se l’economia è più simile alla medicina o all’architettura. Personalmente propendo per la seconda ipotesi.

È mia convinzione che una ricerca economica attrezzata sul piano storico e istituzionale, che faccia leva sulle idee forza della storia delle dottrine, possa essere fattore di progresso materiale in un contesto di coesione sociale. Nella mia esperienza le idee forza fondamentali sono l’indipendenza di domanda e offerta aggregata con la necessità di interventi riequilibratorii ove necessario; la centralità del ruolo dell’impresa o dell’imprenditore nel processo d’innovazione sia per via autonoma, sia, e forse soprattutto, come interprete degli stimoli provenienti dall’autorità pubblica; il riconoscimento dei limiti dei meccanismi di mercato di fronte ai grandi rischi dell’esistenza; una teoria della distribuzione funzionale che interpreti le specifiche situazioni; l’individuazione di regole del mercato del lavoro che riconoscano il diverso potere contrattuale delle parti sociali. Se non altro, una ricerca che abbia a suo fondamento un’analisi della realtà dovrebbe porsi in antitesi con costruzioni teoriche o pseudo teoriche, che, pur attraenti, o intimidenti, nel loro formalismo, ma di fatto non verificabili, hanno in molti casi il ruolo di sostegno a ben precise visioni del mondo.

Tutto ciò ha evidenti effetti sull’organizzazione delle carriere accademiche o dell’individuazione degli incentivi più appropriati per un valido sviluppo della disciplina, anche a livello nazionale. Negli ultimi venti anni nel nostro paese abbiamo assistito ad una progressiva introduzione di criteri valutativi del tutto estrinseci (sintetizzabili nella classificazione delle riviste accademiche in comparti qualitativi, come se la qualità della ricerca fosse collegata alla rivista e non ai singoli articoli). Ovviamente, la classificazione delle riviste, come correntemente attuata, riflette una visione molto compatta e totalizzante su scala mondiale della disciplina, lontana da un adeguato riconoscimento di filoni non mainstream o delle specificità nazionali. È stato di fatto attivato un sistema di incentivi che spinge all’imitazione di quanto si produce nelle sedi oggi dominanti, limitando ogni sollecitazione all’esplorazione di linee di ricerca alternative o effettivamente rilevanti per le realtà nazionali.

Se si ripercorre la storia della ricerca economica nel nostro paese, emerge che i momenti più vitali sono stati quelli in cui l’accademia italiana, pur aperta al confronto con tutti i temi sviluppati a livello internazionale, ha saputo impostare linee di analisi tendenzialmente originali. Oggi l’interpenetrazione fra le diverse sedi accademiche è certamente più sviluppata che in passato; ciò non toglie che una configurazione delle carriere dei ricercatori che penalizzi ogni allontanamento dall’ortodossia vigente in un certo momento storico, che comunque oggi non sembra così solida, non può che produrre risultati negativi.


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AlsOb
Sunday, 06 February 2022 00:59
La rassegna di storia economica e di parziale storia delle dottrine economiche che Roberto Artoni compilat nel suo specifico passo d'addio è istruttiva.
Tuttavia segue un registro molto cauto e di soffice passo.
Il problema politico rilevante è che la classe dominante al di fuori di ogni logica razionale e scientifica, ma sulla base dell'indottrinamento ideologico ha imposto la pseudometafisica neoclassica come propaganda unica e totalità pseudohegeliana.
La supposta teoria monetaria propinata è per esempio una accozzaglia di stupidaggini.
Dagli anni settanta la creazione di think tanks e task forces di vario tipo ha avuto come scopo il far arrivare soldi e garantire carriere a chi si adeguasse e asfissiare chi non si mostrasse docile.
Con l'aggiunta della cattura dei partiti di sinistra convertiti in agenti e pretoriani della promozione neoliberale il cosidderro popolo della sinistra e soprattutto le classi inferiori sono state private della grammatica per capire il capitalismo e letteralmente drogati.
I deranged woke ne sono uno dei prodotti tossici.
È illuminante la diffusa passività e stordita rassegnazione davanti ai trilioni di dollari donati con discrezione dalla banca centrale ai gruppi di riferimento per salvarne il capitale fittizio bruciato, alle politiche neoliberali di greenwashing, alle richieste allo stato da parte di speculatori e rentier di garantire le loro rendite e alle prediche di sicofanti milionari che esigono il controllo dell'inflaione via riduzione dei salari, non dei loro indecenti emolumenti, né degli extraprofitti né delle rendite e speculazioni.
Le classi inferiori non hanno né rappresentanza politica, né sono padrone di una propria grammatica.
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