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MMT: facciamo un po’ di chiarezza contro le (solite) incomprensioni

di Domenico Viola

mmtDa alcuni anni, a livello internazionale, una teoria economica (di stampo istituzionalista e, in parte, post-keynesiano), dal nome Modern Money Theory (MMT d’ora in avanti), si è fatta strada su più fronti, da quello del dibattito pubblico e politico a quello del dibattito accademico ed istituzionale, da quello della ricerca scientifica a quello dell’insegnamento universitario. Rappresentanti politici, comuni cittadini-lavoratori, imprenditori, investitori dei mercati finanziari, banchieri centrali, giornalisti, studenti e docenti universitari, in molti si sono interessati alla MMT, prova ne è l’intenso dibattito che si ha da alcuni anni in più parti e contesti del mondo.

Negli USA la MMT è diventata una teoria da prendere in seria considerazione come uno degli strumenti-guida delle decisioni di politica economica e delle decisioni riguardanti le riforme istituzionali e sociali da attuare alla luce degli obiettivi e delle sfide future che interessano la società americana (e non solo). La professoressa Stephanie Kelton, una delle principali esponenti accademiche della MMT, nonché autrice dell’ultimo libro Il mito del deficit, è stata capo economista per i democratici nella commissione Bilancio del Senato e consigliera di Sanders e di Biden. Lo stesso Mario Draghi, verso la fine del suo mandato da governatore della BCE, dichiarò che fosse necessario o comunque auspicabile aprirsi a nuovi approcci alla teoria economica come quelli appartenenti alla MMT, ed iniziare a tenere in seria considerazione la teoria qui menzionata.

L’Italia è uno dei Paesi in cui la MMT ha avuto grande rilevanza culturale sin dal lontano 2012 con la formazione di diverse associazioni civiche e culturali di divulgazione della MMT.

Eppure, nonostante tutto, ad oggi è proprio l’Italia uno di quei Paesi in cui qualsiasi approfondimento e discussione seri sulla MMT si rivelano essere quasi del tutto assenti all’interno del dibattito politico, pubblico e mediatico. D’altro canto, nella maggior parte dei pochi casi in cui se ne parla, ad esempio sui giornali, non si fa altro che presentare un’immagine poco nitida della MMT con la conseguenza che i temi centrali della stessa spesso risultino essere incomprensibili per i lettori. È il caso, ad esempio, di due articoli [1], pubblicati sul Foglio e La Voce, scritti rispettivamente dal professor Bisin (della New York University) e dal professor Monacelli (dell’Università Bocconi)[2].

In un certo senso, dopo aver letto questi due articoli, mi sono sentito chiamato in causa visto che da studente di economia ho avuto il piacere e l’onore di vincere una borsa di studio presso il Levy Institute di New York dove ho potuto approfondire la MMT direttamente alla fonte, ovvero da quei professori che la MMT l’hanno propriamente codificata. A tal proposito, lo scopo di questo articolo è quello di fare chiarezza, in grandi linee, su ciò che la MMT spiega e propone. Lo faremo rispondendo alle solite incomprensioni riguardanti la MMT e lo spazio fiscale (di uno Stato che emette la propria moneta), nonché in merito all’idea assolutamente infondata secondo la quale la MMT banalizzerebbe e non si preoccuperebbe affatto del potenziale problema dell’inflazione.

 

Il “vincolo reale” alla spesa pubblica

Al contrario delle solite mistificazioni (che attribuiscono alla MMT l’idea che lo Stato dovrebbe “spendere in deficit senza limiti”), per la MMT esistono (eccome!) dei vincoli alla spesa pubblica di un governo, che non sono vincoli di natura strettamente finanziaria, ma sono vincoli di natura reale. La MMT spiega che lo “spazio fiscale” di cui gode uno Stato che emette la propria moneta (cioè il limite di spesa dello Stato), non è determinato né dal livello di debito pubblico registrato in rapporto al PIL, né dal gettito fiscale raccolto, né dai “risparmi” (surplus finanziari) registrati nei periodi non di crisi (come, del resto, l’attuale crisi ci ha ampiamente dimostrato)[3].

La MMT spiega che lo spazio fiscale di uno Stato che emette la propria moneta, piuttosto, è determinato da quante risorse reali vi sono a disposizione nel proprio Paese (forza lavoro, risorse naturali, materiali ecc.), che sono inutilizzate, prezzate (vendute) nella moneta dello Stato e possono essere, quindi, pienamente impiegate e mobilitate nell’interesse pubblico. Il limite allo spazio fiscale del governo, dunque, non è un limite finanziario, ma è un limite relativo alle risorse reali che un Paese ha a disposizione. Affermare come fa la MMT che uno Stato che, in breve, emette la propria moneta non possa mai finire i soldi, non possa mai essere costretto a dichiarare default su pagamenti denominati nella sua moneta, e possa sempre permettersi finanziariamente di acquistare tutto ciò che è in vendita nella sua moneta, non equivale a proporre spesa pubblica in deficit “senza limiti” (o che lo Stato dovrebbe spendere di più sempre e comunque, e senza alcun criterio).

Significa ribaltare la prospettiva ed iniziare a porsi le domande sensate, che non sono «e le coperture?» o se «ci sono o non ci sono i soldi?» (ossia, se ci sono o non ci sono dei numeri, oggi riportati su dei monitor di computer, e se ci sono o non ci sono delle unità di misura monetaria!). Significa, piuttosto, riconoscere e rimarcare che uno Stato che emette la propria moneta può sempre permettersi finanziariamente di spendere e di spendere di più fintanto che ci saranno risorse reali sprecate, ovvero inutilizzate le quali sono prezzate nella moneta dello Stato e potranno essere pienamente impiegate al fine, non di soddisfare il “libro dei sogni”(!), ma al fine di garantire i diritti fondamentali dell’uomo, del cittadino e del lavoratore (sanciti nella nostra carta costituzionale del ‘48, nonché nella Carta delle Nazioni Unite), e al fine di affrontare al meglio le “sfide” che riguardano le società capitaliste moderne (e.g. crisi sanitaria e crisi ambientale).

Se la risposta è affermativa, ossia se vi sono risorse reali non impiegate, allora il Paese “sta vivendo al di sotto delle proprie possibilità”, e non “al di sopra” delle proprie possibilità! Da una prospettiva MMT, la presenza di elevata capacità produttiva inutilizzata e sottoutilizzata all’interno di un Paese costituisce il miglior indicatore di quanto, date le decisioni di spesa delle famiglie e delle imprese, la spesa pubblica in deficit dello Stato sia di per sé troppo bassa, ossia insufficiente per poter simultaneamente soddisfare i desideri di risparmio netto di famiglie e imprese, e garantire il raggiungimento della piena e buona occupazione. Di conseguenza, per la MMT, 1) la disoccupazione è sempre un “fallimento della politica” e 2) il limite del deficit pubblico sarà determinato dal raggiungimento della piena e buona occupazione delle risorse reali (tra cui, in primis, la forza lavoro), non dal livello di debito e di deficit pubblico registrati in rapporto al PIL.

Infine, la MMT spiega che lo spazio fiscale di uno Stato che emette la propria moneta (così come lo spazio di politica monetaria di una banca centrale) è massimizzato nel caso in cui la moneta dello Stato sia non convertibile ad alcun tasso di cambio fisso con alcun metallo prezioso (cosa che non avviene più dal 1971) e/o con alcuna moneta straniera di riferimento (e nel caso in cui lo Stato non emette passività che siano denominate in una moneta straniera). In tal senso, la MMT spiega che la flessibilità del cambio libera lo spazio fiscale del governo dal vincolo di convertibilità (dato dal cambio fisso), il quale, a sua volta, solitamente può limitare o precludere la capacità di uno Stato di riuscire a garantire nel tempo l’obiettivo duale della piena occupazione e della stabilità dei prezzi. [4]

 

La proposta dei Programmi universali di lavoro

Come raggiungere e mantenere la piena e buona occupazione assicurando, al contempo, la stabilità dei prezzi dei beni e servizi di consumo (che non ci sia, cioè, “inflazione”)? A tal proposito, la MMT, come detto, non dice di aumentare (“senza limiti” ) il deficit pubblico (si vedano Bisin e Monacelli), di verificare cosa avviene ex post all’inflazione e, qualora quest’ultima dovesse aumentare ed accelerare, procedere a quel punto con politiche di tagli e tasse (austerità), in una strategia “stop-and-go” di politica economica (si veda Monacelli)[5].

Nello specifico, per quanto concerne l’obiettivo della stabilità dei prezzi e in un’ottica di prevenzione dell’inflazione, la MMT propone di indirizzare la spesa pubblica (in deficit) alla diretta creazione di buoni posti di lavoro (per tutti coloro i quali sono in grado e desiderano lavorare), fino al raggiungimento del limite della piena occupazione; propone di spendere sulla base di una “regola del prezzo” e non “della quantità” (vedi sotto), e di farlo in maniera prevalentemente anticiclica[6]. Sulla scia di proposte simili come quelle avanzate da giganti del pensiero economico quali J. M. Keynes ed Hyman Minsky, nonché da altri giganti della storia dell’umanità quali Martin Luther King, la MMT non propone di “stampare moneta per finanziare il debito pubblico”, ma propone l’istituzionalizzazione dei Programmi universali di lavoro.

Si tratta di una rete universale di protezione sociale volta alla stabilizzazione dei prezzi al consumo mediante la diretta e transitoria creazione di buoni posti di lavoro (e di correlati programmi di formazione e di riqualificazione professionale). Si tratta di uno stabilizzatore automatico anti-inflazionistico col quale il “monopolista della moneta” (lo Stato) stabilizza occupazione, salari, produzione, prezzi al consumo e profitti aziendali, fissando ad un livello minimo il salario (o prezzo) di un’ora di lavoro nel programma, ma lasciando la quantità di posti di lavoro (e quindi la quantità di spesa del programma) fluttuare in maniera anticiclica (seguendo, appunto, la regola del prezzo in base alla quale si fissa ex ante il prezzo al quale si spende, lasciando la quantità di spesa fluttuare secondo l’andamento del ciclo economico).

In sintesi, al contrario di quanto faccia la visione economica dominante (quella che potremmo definire “neoclassica”), la MMT non propone di utilizzare la sofferenza delle persone, ossia la disoccupazione reale e la povertà, come veicolo di stabilizzazione del tasso d’inflazione. Al contrario ed in alternativa, la MMT propone di stabilizzare l’andamento dei prezzi dei beni e servizi di consumo mediante il raggiungimento e il mantenimento nel tempo della piena e buona occupazione (ossia, mediante l’istituzionalizzazione dei Programmi universali di lavoro – la sua proposta cardine). La MMT spiega che c’è un’alternativa all’utilizzo di una scorta di disoccupati e sottoccupati (“proposta” dall’approccio mainstream di teoria economica) come mezzo di stabilizzazione dei prezzi al consumo. La MMT rigetta l’idea tipica della visione economica neoclassica (mainstream) secondo la quale dovrebbe “naturalmente” esserci un trade-off tra disoccupazione e inflazione, ovvero l’idea secondo la quale la disoccupazione e la sottoccupazione involontaria rappresenterebbero un costo che la società e la civiltà umana dovrebbero “inevitabilmente” patire in quanto presumibilmente necessari a garantire l’altro obiettivo, quello della “stabilità dei prezzi”.

Infatti, l’alternativa proposta dalla MMT è rappresentata proprio dall’l’istituzionalizzazione di una rete di protezione sociale che offra sempre, all’occorrenza, e ad un salario minimo prefissato dallo “Stato-datore di lavoro”, una “scorta flessibile” di buone opportunità di lavoro all’interno di settori relativi alla produzione di valori d’uso sociali[7]. Una rete di protezione sociale che consentirebbe di eliminare le sofferenze e i danni – sociali, psicologici ed economici – arrecati dalla disoccupazione involontaria (soprattutto di massa), e di generare, così, un percorso di vero sviluppo economico che sia stabile, socialmente inclusivo ed ecosostenibile. Ma mentre da noi, in Italia, siamo ancora qui a banalizzare, estremizzare e demonizzare la MMT, attribuendole analisi, concetti, corollari e proposte che non le appartengono affatto, dall’altra parte dell’Oceano, negli States, la deputata democratica Ayanna Pressley ha di recente presentato una risoluzione con la quale propone l’istituzione dei Job Guarantee Programs – i programmi di lavoro, appunto!

In attesa di verificare cosa avviene negli USA, noi attendiamo fiduciosi che in Italia, un giorno, si riesca a parlare di e a criticare la MMT in maniera seria, professionale e costruttiva, magari iniziando anche a capire come gli strumenti forniti da questa teoria possano rivelarsi molto utili e funzionali ai fini dell’attuazione effettiva delle linee guida e del contenuto della Costituzione italiana del ‘48 (sarebbe ora), e ai fini del superamento effettivo delle più grandi “sfide sanitarie ed ambientali” che attanagliano l’esistenza del genere umano.


Note
[1] Si veda Bisin, Il Foglio, “La MMT non è una teoria e non è moderna”, e Monacelli, su La Voce, “Le sirene della Teoria monetaria moderna”.
[2] Chiunque abbia un minimo di conoscenza della MMT – cosa che non sembra affatto essere il caso dei due professori – sa benissimo che la MMT non propone e non può proporre la cd. “monetizzazione del debito pubblico” come una modalità “alternativa e speciale” di finanziamento ex ante del deficit pubblico (si veda Wray 2020). Così come sa benissimo che la MMT spiega che, in determinati assetti istituzionali di politica monetaria – quelli in cui la banca centrale non remunera i depositi di riserve bancarie in eccesso e ha come mandato istituzionale un obiettivo intermedio di tasso d’interesse interbancario overnight diverso da zero – parlare di monetizzazione è assolutamente irrilevante in quanto, in un tale assetto (vigente nel periodo pre-crisi finanziaria globale) non vi è alcuna discrezionalità per la banca centrale sulla dimensione del proprio portafoglio titoli (si veda Mosler 1995).
[3] Infatti, l’esistenza di un vincolo di convertibilità dato dal cambio rigido potrebbe portare lo Stato ad essere costretto a dichiarare default sulla sua promessa di “parità esterna” (cambio fisso), come del resto, nel corso della storia, è avvenuto per la maggior parte degli Stati che hanno adottato tassi di cambio fissi (o semifissi).
[4] Paradossalmente, vengono attribuiti alla MMT degli approcci di politica economica (fiscale, in particolare) – quale quello di “stimolo alla domanda aggregata” (o pump-priming) – ùche la MMT ha da sempre rigettato e criticato per via della struttura teorica (neoclassica) di fondo e per via degli effetti negativi di medio-lungo termine generati dall’adozione di questo approccio keynesiano “bastardo”, tra i quali troviamo: i) l’istituzionalizzazione della povertà, ii) spinte inflazionistiche, iii) instabilità finanziaria e iv) danni alla natura e all’ambiente. Per maggiori approfondimenti si rimanda a Wray e Nersisyan 2021, Tcherneva 2012 e 2014.
[5] Nello specifico, la MMT segue un approccio di “fissazione (esogena) dei prezzi da parte del monopolista” (della moneta) ed un approccio di “buffer stock” (o di “scorta stabilizzatrice”) dei prezzi al consumo) (si vedano a riguardo Mosler 1995, Mosler e Mitchell 2002, Mosler 2018). Ovviamente, l’implementazione dei programmi universali di lavoro non eliminerebbe, di per sé, l’inflazione, in quanto sussisterebbero comunque altre cause possibili di “inflazione” che non siano rinvenibili meramente dal lato della domanda di beni e servizi, e dato che continuerebbero comunque a sussistere possibili spinte inflattive di natura aciclica, le quali andrebbero rimosse o comunque prevenute mediante altre politiche pubbliche e riforme istituzionali che la MMT ha parimenti trattato e proposto (https://www.ft.com/content/539618f8-b88c-3125-8031- cf46ca197c64).
[6] I posti di lavoro creati all’interno del programma di lavoro sarebbero rivolti principalmente a settori dall’elevato contenuto di “lavoro vivo”, ossia in settori di cura, in senso lato, delle persone, di cura del territorio e dell’ambiente, di cura della comunità, e nel settore dell’imprenditoria sociale. L’obiettivo primo sarebbe quello di far transitare i lavoratori occupati nel programma dalla disoccupazione a posti di lavoro all’interno del settore privato e/o pubblico che offrano migliori condizioni contrattuali di lavoro rispetto a quelle garantite all’interno del programma. Ovviamente la MMT non dice che lo Stato dovrebbe limitarsi a creare direttamente buoni posti di lavoro mediante i soli programmi di lavoro (dato che, oltre alla pubblica amministrazione “tradizionale”, gli investimenti pubblici diretti dovrebbero rappresentare l’altra gamba con la quale la politica pubblica dovrebbe camminare), ma spiega che i job guarantee programs sono l’unico strumento con il quale è possibile garantire sempre la piena occupazione congiuntamente alla stabilità dei prezzi. Mosler, Warren. Soft currency economics. West Palm Beach: Adams, Viner and Mosler, 1995.

Riferimenti bibliografici
Mosler, W. (1995). Soft currency economics (pp. 1997-8). West Palm Beach, FL: Adams, Viner and Mosler. Mosler, W. (1997). Full employment and price stability. Journal of Post Keynesian Economics, 20(2), 167-182.
Mitchell, W. F., & Mosler, W. B. (2002). Fiscal policy and the job guarantee. Australian Journal of Labour
Economics, 5(2), 243-259.
Tcherneva, P. R. (2012). Permanent on-the-spot job creation—the missing Keynes Plan for full employment and economic transformation. Review of Social Economy, 70(1), 57-80.
Tcherneva, P. R. (2014). Reorienting fiscal policy: A bottom-up approach. Journal of Post Keynesian Economics, 37(1), 43-66.
Wray, L. R. (2020). The’Kansas City’Approach to Modern Money Theory. Levy Economics Institute of Bard College.
Wray, L. R., & Nersisyan, Y. (2021). Has Japan been following Modern Money Theory without recognizing it? No! and yes (No. 985). working paper.

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