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il rasoio di occam

Guy Debord e l’eredità dello spettacolo

Da Marx a Lukács: plagiatore o teorico?

di Afshin Kaveh

guy debord 499È ormai innegabile quanto la lettura che si fa di Guy Debord, spesso, porti con sé il peso di una serie infinita di approssimazioni, vuoi per una certa attitudine alla distrazione di alcuni lettori (non sempre in buona fede) che non gli cedono il giusto posto tra le letture marxiste e vuoi perché, sia lo stesso personaggio che il proprio enunciato, risultano spesso criptici o, comunque, rivestono quell’alone misterioso di chi si è tenuto a debita distanza, non facendosi avvicinare se non da pochi e facendosi comprendere solo da chi lo leggeva cogliendo i suoi intenti «di nuocere alla società spettacolare»; a tal riguardo davvero «non ha mai detto nulla di eccessivo»[1] e, dal lato della barricata da cui poteva vantare di essersi posto, ha semplicemente detto ciò che andava detto, senza mezzi termini o sterili avvitamenti.

Sono del parere che le frasi più suggestive per meglio comprendere Debord, sia nella persona che nel pensiero, siano state pronunziate da chi lo conobbe personalmente. Mario Perniola lo ha definito in più occasioni «il pensatore più estremista della seconda metà del Novecento». Gianfranco Sanguinetti, a ben ragione, afferma che «senza la teoria dello spettacolo elaborata da Debord questo mondo rimarrebbe del tutto incomprensibile e incerto». Ma lungo una vita intera in cui le amicizie, seppur importanti, si sono sempre rapidamente succedute una dietro l’altra tra allontanamenti, spesso ingiustificati o proprio incomprensibili, dure critiche e tristi rotture, la più bella frase su Debord, a parer mio, è quella massima che scrisse a suo tempo Asger Jorn, l’unica amicizia che mantenne intensamente sino alla fine, senza mai separarsene o allontanarsene[2], in un sincero e continuo scambio di affetto e stima reciproca: «Guy Debord n’est pas mal connu; il est connu comme le mal»[3].

Ebbene, trovo piuttosto evocativo il fatto per cui questa frase si sia ribaltata, quasi sulla falsariga dello stesso ribaltamento che Debord fece di uno degli insegnamenti di Hegel, enunciandoci che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso»[4], così come a vent’anni di distanza dal primo libro, ci raccontava «la società modernizzata fino allo stadio dello spettacolare integrato» come «contraddistinta dall’effetto combinato» di alcune «caratteristiche principali», tra cui «il segreto generalizzato» e «il falso indiscutibile»[5].

Oggi – e lo affermo senza troppi ripensamenti – Debord è davvero conosciuto male; e non poco, soprattutto in Italia. Non mi riferisco qui esclusivamente agli errori inerenti la sua stessa biografia o i suoi aneddoti, e che sono decisamente tanti, tra cui una sedicente «espulsione decretata nel 1977 (governo Andreotti, ministro degli Interni Cossiga)» in quanto «accusato di fomentare il clima insurrezionale nel Paese»[6], un falso storico che, passato di bocca in bocca, sia di ammiratori che di detrattori, è ancora oggi impresso nella carta di libri o negli schermi aleatori dell’impero virtuale (e che per tanto tempo anche io ho considerato vero), ma che mi sono divertito a smentire tra le pagine di un libro[7], errore che lo stesso Sanguinetti, il quale frequentò assiduamente Debord dal 1969 al 1978, ha confutato in una lettera a Mustapha Khayati del 10 dicembre 2012, facendo risalire l’abbandono di Debord della città di Firenze a una serie concatenata di sfortunati eventi che di insurrezionale non avevano niente, come «banali problemi monetari», l’essersi trovato senza «riscaldamento a gas a Firenze a metà inverno» e, infine, le «delusioni con le ragazze fiorentine». Tutto qua; e a meno che non sia stato il signor Cossiga a staccargli il riscaldamento o, ancora meglio, sia stato lui quella delusione sentimentale cui fa riferimento Sanguinetti, direi che c’entra ben poco con il ritorno in Francia di Debord.

Tuttavia tra queste righe non si è posti l’obbiettivo di voler restituire Guy Debord al suo alone di avventuriero radicale e pericoloso – totalmente lecito e giusto – e che, in quanto tale, dovrebbe farci comprendere perché, secondo Jorn, era conosciuto come il male, definizione che spero gli venga restituita il prima possibile, liberando le ceneri di quello che io amo definire come “teppista” dalla sterile urna funeraria dell’innocuo dibattito accademico. I lettori sono qui chiamati a raccolta non per via dei fraintendimenti che ruotano attorno alla sua vita (almeno non solo) quanto, bensì, attorno alle dubbie letture sul suo pensiero. Ancora mi sorprendo di chi attribuisce a Debord il ruolo di sociologo o, peggio, di interprete del post-moderno, per non parlare di chi vede nelle sue tesi sullo spettacolo (nominativo oggi citato a destra e a manca con un certo e superficiale tono di condivisione) esclusivamente una originale lettura e interpretazione – certo in anticipo sui tempi – della realtà mass-mediatica, delle radio, dei giornali, delle televisioni ieri e del mondo dell’informazione e della vita digitale oggi. Questa visione semplicistica non dà a Debord l’ampio respiro che merita, e anzi lo soffoca accostandolo a una marmaglia di pensatori da cui lui stesso si teneva a debita distanza. Lo stesso Debord, in un passaggio de La società dello spettacolo, si riferisce a «l’aspetto ristretto dei “mezzi di comunicazione di massa”» come alla «manifestazione superficiale» dello stesso spettacolo, seppur «la più opprimente»[8] e quella che meglio ne spieghi le logiche, certo quella che «riunisce il separato» ma che «lo riunisce in quanto separato», facendo così intendere che «la perdita dell’unità del mondo», in cui «una parte del mondo si rappresenta davanti al mondo, e gli è superiore»[9], sia un’astrazione che ha inizio già dalla quotidianità così com’è astrattamente organizzata e vissuta, e non solo dal rapporto coi mass-media. Come nota Anselm Jappe, in un testo su cui chiunque deve obbligatoriamente passare per conoscere il rivoluzionario parigino, «l’analisi di Debord», in verità più complessa, «parte dall’esperienza quotidiana dell’impoverimento della vita vissuta, della sua frammentazione in ambienti sempre più separati e della perdita di ogni aspetto unitario nella società»[10]; per dirlo sempre con Jappe, segnando così un solco tra Debord e un’intera generazione di intellettuali, «mentre alla famosa École Normale Superieure, situata nel Quartiere Latino, la futura “élite” si preparava alla sua carriera, a pochi passi di distanza, nelle bettole evitate da ogni studente rispettabile, il giovane Debord cominciava un tragitto che l’avrebbe ugualmente portato a esercitare sul mondo un certo influsso»[11]. Ma seppur Debord si vantasse del fatto per cui «la formula per rovesciare il mondo non l’abbiamo cercata nei libri, ma errando» in un giro perpetuo tra le peggiori locande di Parigi in compagnia dei criminali meno raccomandabili e dei poeti falliti, tra alcolici, risse, incontri promiscui, in «una deriva a grandi tappe, in cui niente somigliava al giorno prima; e che non si arrestava mai» ispirandolo tra «incontri sorprendenti, ostacoli notevoli, tradimenti grandiosi, incantesimi pericolosi»[12], e seppur abbia «scritto molto meno della maggior parte di quelli che scrivono», ma «bevuto molto più della maggior parte di quelli che bevono»[13], ha comunque dedicato una grande parte della sua vita alla lettura maniacale e allo studio organico di diversi testi, tantissimi, e tutte queste fonti emergono non solo dall’attenta lettura de La società dello spettacolo, ma sono oggi pienamente confermate dall’immensa mole dei suoi stessi appunti, depositati, dal 2010, nel fondo della Bibliothèque Nationale de France.

Il libro più celebre di Debord può essere visto come l’assimilazione degli insegnamenti di Walter Benjamin, secondo cui «le mie citazioni sono come predoni armati che balzano fuori all’improvviso e strappano l’assenso al lettore ozioso»[14], realizzando inoltre, almeno in buona parte, uno dei progetti dello stesso filosofo dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte che sognava di pubblicare un libro interamente composto di sole citazioni abilmente sezionate e cucite tra loro, senza nulla di proprio. La società dello spettacolo è un continuo susseguirsi di citazioni non dichiarate, tanto da rendere spesso la lettura completamente comprensibile solo a chi ne coglie le fonti. Il libro è un piacevole mosaico dallo stile efficace in cui avventurarsi, cogliendone la teoria e afferrandone gli insegnamenti pratici, esplicati attraverso quella tecnica del détournement che lo stesso Debord sapientemente utilizza, descrivendola semplicemente in questo modo: «Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe da presso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta»[15]; realizzata a tal punto che l’intera frase è dell’amato poeta francese Lautréamont (la cui lettura lo accompagnerà dagli anni del liceo a Cannes sino alla fine dei suoi giorni), pseudonimo di Isidore Lucien Ducasse, riportata senza citarne la fonte. Un plagio voluto dello stesso invito volontario al plagio. Certo, chiudere così i conti non è neanche troppo onesto rispetto a Debord, alla sua profonda intelligenza e, soprattutto, alla sua pregevole originalità, anche perché, contestualizzando e approfondendo le stesse teorie da cui lui fa velato riferimento, forgia un’analisi e una teoria critica – di cui c’è tantissimo di suo – attorno a quello che lui conia come spettacolo e che oggi è una cassetta degli attrezzi imprescindibile per comprendere il mondo e metterlo radicalmente in discussione in ogni suo singolo aspetto.

L’amico Jorn lo definiva, senza mezzi termini, il più grande conoscitore di Marx di tutta la Francia[16] e certamente non a torto. Non è un caso che il libro di Debord esca a un secolo di distanza rispetto al Das Kapital, l’opera principale di Marx, così come casuale non è l’inizio de La società dello spettacolo con la primissima tesi, delle 221 di tutto il libro, a recitare quanto segue: «tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli»[17], che riconduce, pur contestualizzandolo, allo stesso inizio dell’opera di Marx, in cui si legge: «La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, appare come una “immensa raccolta di merci”»[18]. Allo stesso modo nel passaggio «in questo movimento essenziale dello spettacolo […], noi riconosciamo la nostra vecchia nemica che sa così bene apparire a prima vista come una cosa triviale, ovvia, mentre è al contrario così complessa e così piena di sottigliezze metafisiche, la merce»[19], Debord fa l’occhiolino direttamente alla sezione «Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto», quella esplicazione marxista del feticismo della merce in cui Marx scrive che «a primo aspetto una merce pare una cosa triviale, normale. Dalla sua analisi risulta che è una cosa intricatissima, ricca di sfumature metafisiche e di arguzie teologiche»[20]. Il feticismo della merce è da Debord citato al §36 e, riferendosi a «delle cose sensibilmente sovrasensibili»[21], rimanda all’esempio del tavolo in Marx secondo cui quando esso «appare come merce si trasforma in un oggetto sensibilmente soprasensibile»[22]. Alla §202, Debord scrive: «Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare – e ammirare – questa società determinata dal linguaggio ch’essa tiene a se stessa, preso come indiscutibilmente veridico»[23], oltre a essere una plateale critica al pensiero strutturalista che vede nelle strutture la forza motrice della storia, è un richiamo al Marx de Per la critica dell’economia politica secondo cui «come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale»[24], tanto che la seconda parte della citazione è da Debord riportata per intero tra caporali, pur senza citarne né l’autore né la fonte.

Ma è alle opere giovanili di Marx che Debord fa maggiore riferimento (e non solo perché lo spettacolo è l’alienazione di cui il giovane Marx è teorico, forte delle influenze di Hegel e dei giovani hegeliani come Feuerbach), così il passaggio secondo cui «nella fase primitiva dell’accumulazione capitalista “l’economia politica non vede nel proletario che l’operaio”, che deve ricevere il minimo indispensabile per la conservazione della sua forza-lavoro», è un rimando ai Manoscritti dell’agitatore di Treviri, il quale scriveva che «l’economia-politica non conosce, dunque, l’operaio disoccupato, l’uomo-operaio che si trova fuori di questo rapporto di lavoro»[25], pur contemporaneamente superando e contestualizzando gli insegnamenti marxisti nella descrizione dell’operaio come «improvvisamente lavato dal disprezzo totale che gli è chiaramente espresso da tutte le modalità di organizzazione e di sorveglianza della produzione» e qui accolto, «trattato apparentemente come una persona grande, con una cortesia premurosa, sotto il travestimento del consumatore»[26]. Mentre Marx parla della legge della caduta tendenziale del saggio del profitto[27], Debord indica come «costante dell’economia capitalista […] l’abbassamento tendenziale del valore d’uso»[28] indicando nel «valore di scambio» il vero «condottiero del valore d’uso» e «che finisce per condurre la guerra per proprio conto»[29]. Nel Capitale Marx indica come valore d’uso «l’utilità di una cosa» ma «questa utilità non è campata in aria, è una determinazione delle qualità del corpo di una merce e non esiste senza di esso»; allo stesso tempo «il valore di scambio si mostra dapprima come il rapporto quantitativo» e successivamente «può essere in generale solo il modo di espressione, la “forma fenomenica” di un contenuto da esso distinguibile», insomma, il carattere sociale di una merce[30]. Secondo Debord «il fatto che l’uso nella sua forma più povera (mangiare, abitare) non esiste più se non imprigionato nella ricchezza illusoria della sopravvivenza aumentata» porta alla «base reale dell’accettazione dell’illusione in generale nel consumo delle merci moderne» ove «il consumatore reale diviene consumatore di illusioni»[31]. In un mondo «in cui la società scopre di dipendere dall’economia»[32], per cui «lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale»[33], il valore d’uso e dunque l’utilità di una merce, avente ormai come visibile esclusivamente il valore di scambio, «deve essere proclamato esplicitamente», proprio «perché la sua realtà effettiva viene erosa dall’economia mercantile sovrasviluppata; e una pseudogiustificazione diviene necessaria alla falsa vita»[34]. Un altro lavoro di contestualizzazione delle tesi di Marx alla fase moderna della società capitalistica, è da Debord esplicato nel passaggio in cui indica nello spettacolo non «un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini»[35], che richiama la frase del Capitale che Marx dedica al politico inglese Edward G. Wakefield, scrivendo: «Ha scoperto che il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose»[36]. Altri rimandi, un poco più velati, possono essere passi come quello in cui Debord, riferendosi alla «teoria critica dello spettacolo» – ricordando qui come secondo il parigino non esistesse «nessuna idea» che potesse portare «al di là dello spettacolo esistente, ma soltanto al di là delle idee esistenti sullo spettacolo», dando quindi un maggiore peso a «una pratica rigorosa»[37] – scriveva: «Questa teoria non attende miracoli dalla classe operaia»[38], riferendosi al Marx il quale, sulla Parigi del 1871, scriveva: «La classe operaia non attendeva i miracoli della Comune»[39], la stessa esperienza di cui i situazionisti si richiamavano come eredi.

Condotto dalla «poesia moderna, da cent’anni» e alla volontà di «attuarne il programma nella realtà»[40], Debord non si è escluso neanche dal far proprio uno dei più bei passi mai composti da Marx, contenuto in una lettera a Ruge a cui scriveva: «Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente»[41]; e che Debord trasforma nella suggestiva: «Il mondo possiede già il sogno di un tempo di cui non ha che da possedere la coscienza per viverlo realmente»[42]. A tal proposito un omaggio esplicito, o quasi, a Marx è la citazione «il tempo è tutto, e l’uomo non è niente, salvo tutt’al più la carcassa del tempo», tratta dalla Miseria della filosofia e il cui titolo Debord riporta tra parentesi[43].

Nel libro non ci sono solo détournement, e Debord cita Marx, analizzando i suoi limiti e le sue grandezze, assieme a Hegel e Bakunin e a tutta la storia del movimento rivoluzionario internazionale, nel IV capitolo, intitolato «Il proletariato come soggetto e come rappresentazione»[44]. Chi vede il susseguirsi di citazioni velate come un lavoro poco originale di plagio, sottovaluta la profonda conoscenza che lo stesso Debord aveva degli stessi testi che per anni lo impegnarono in un intenso studio e un’intensa riflessione, e di cui nelle righe precedenti abbiamo già fatto cenno attraverso alcune conclusioni originali nelle tesi dello stesso Debord. Anselm Jappe ci porta con sé tra gli scaffali della libreria di Debord[45], ricca delle Œuvres complètes di Karl Marx, nella traduzione di Jacques Molitor per le edizioni Alfred Costes risalenti agli anni 1920-1930, di cui possedeva anche una riedizione in nove volumi pubblicati attorno al 1947-1953. Tra i libri è presente anche la voluminosa Correspondance di Marx, edita in nove volumi per le stesse edizioni Alfred Costes, oltre ai Manuscrits de 1844 editi nel 1962 per le Éditions sociales e, per le stesse edizioni ma stampati tra il 1948 e il 1950, il primo libro de Le Capital diviso in tre volumi. Il blocco delle opere di Marx, che non finisce di certo qua, è probabilmente il più completo e abbondante di tutta la biblioteca di Debord. Da un suo taccuino di 82 pagine, contrassegnato semplicemente dalla dicitura «Marxisme», emerge il suo meticoloso studio delle opere giovanili di Marx, non solo dei Manoscritti, ma anche de L’Ideologia tedesca[46] e Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Lo studio del pensiero di Marx è approfondito anche dalle letture che Debord fa delle opere – tra i tantissimi possibili esempi – di Karl Korsch (in particolar modo il Karl Marx e Marxismo e filosofia), Rosa Luxemburg, Antonio Labriola, Edouard Bernstein, Maximilien Rubel, Friedrich Engels (di cui possiede le Œuvres complètes in tre volumi delle edizioni Alfred Costes) e Henri Lefebvre, che conobbe e frequentò – partecipando persino, da non iscritto, ad alcuni suoi corsi a Strasburgo – seppur solo tra il 1960 e il 1963, prima di allontanarlo definitivamente; unico accademico che avvicinò, dopo che lo stesso gli scrisse per primo per poi essergli intimo amico in «una storia d’amore finita male»[47], come definita dallo stesso Lefebvre[48].

Un altro autore a cui il concetto di spettacolo deve molto è il filosofo ungherese György Lukács. Nella sua preziosa monografia su Debord, Jappe disvela il profondo influsso che Lukács ha avuto sul parigino e, a riguardo, non ho intenzione di dilungarmi troppo scomodando ulteriormente l’autore e anzi, per una lettura decisamente più approfondita e puntuale, rimando direttamente alla sua opera[49]. Ne La società dello spettacolo Debord cita esplicitamente Lukács in due occasioni: come epigrafe in apertura del capitolo II, intitolato «La merce come spettacolo», in cui riporta un passaggio tratto da Storia e coscienza di classe[50], e, infine, nella §112, in cui Debord rimprovera all’ungherese di indicare nel bolscevismo «la mediazione finalmente trovata fra la teoria e la pratica, dove i proletari cessano di essere “spettatori” degli avvenimenti che si presentano nella loro organizzazione, ma li hanno coscientemente scelti e vissuti», per cui, secondo Debord, Lukács così dicendo «descriveva come meriti effettivi del partico bolscevico tutto ciò che il partito bolscevico non era»[51]. Senza entrare troppo nel dettaglio nell’inscrizione di Debord alla teoria e alla pratica del consiliarismo operaio, egli, con spregio, indicava nell’Unione Sovietica e nel partito bolscevico «il partito dei proprietari del proletariato»[52]. Un altro rimprovero rivolto a Lukács, sempre alla §112, è il suo essersi sconfessato, «con nettezza caricaturale», identificandosi «con il contrario di se stesso, e di ciò che aveva sostenuto in Storia e coscienza di classe»[53] e questo è un rimando alla presa di distanza del suo autore dal suo stesso libro, uscito nel 1923 tra lo scandalo e le pesanti accuse di idealismo rivoltegli da Zinov’ev, dalla Terza Internazionale e da Kautsky, risultando quindi introvabile per anni. «Alcuni capitoli del “libro maledetto del marxismo” vengono pubblicati nel 1957 e 1958 sulla rivista francese Arguments; e nel 1960 esce la traduzione francese integrale – contro la volontà di Lukács»[54]. Come emerge dai suoi archivi, Debord studia profondamente questo libro (e dello stesso autore approfondisce anche Goethe e il suo tempo), e ciò trapela anche da quei concetti di «spettatore» e «contemplazione» che Lukács avanza nella sezione «Il fenomeno della reificazione»[55], in cui scrive che «l’atteggiamento contemplativo di fronte a un processo regolato secondo leggi meccaniche che si svolge indipendentemente dalla coscienza, sul quale l’attività umana non ha alcun influsso», agisce modificando «anche le categorie fondamentali del rapporto immediato dell’uomo con il mondo: esso riduce il tempo al livello dello spazio»[56]. Dunque, come fa ben notare Jappe, ciò «che accomuna in modo specifico Debord e Lukács è la netta condanna di ogni forma di contemplazione, in cui vedono un’alienazione del soggetto»[57].

Tuttavia, in una prefazione del 1967 (per ironia l’anno in cui ha trovato pubblicazione La società dello spettacolo), Lukács, non potendo più negare il ritorno alle stampe del suo libro, decide di scriverne una prefazione d’autocritica, tra le cui righe ammette di aver erroneamente posto sullo stesso piano l’oggettivazione con l’alienazione, definendolo un «grossolano errore» che «ha sicuramente contribuito in notevole misura al successo di Storia e coscienza di classe», alimentando una «critica filosofico-borghese della cultura che, basti pensare a Heidegger», tendenzialmente trasformava «la critica sociale in una critica puramente filosofica»[58], in una prospettiva aconflittuale. Essendo questo errore alla base e fulcro centrale delle teorie avanzate nel testo, c’è da chiedersi se Debord non inciampi a sua volta. Il discorso potrebbe presentarsi talmente complesso da meritare un approfondimento specifico in altra sede. Passaggi in cui lo spettacolo viene presentato come «la visione del mondo che si è oggettivata»[59] possono portare il testo del francese alla stessa ambiguità del testo dell’ungherese, pur facendo intendere in altre parti del libro di non essere caduto nello stesso errore, come quando scrive che «il rovesciamento che Marx compie con un “salvataggio per trasferimento” del pensiero delle rivoluzioni borghesi non consiste nel rimpiazzare volgarmente con lo sviluppo materialista delle forze produttive il percorso dello Spirito hegeliano» il quale «muove incontro a se stesso e nel tempo» e «la cui oggettivazione equivale alla sua alienazione». Secondo Debord, «Marx ha distrutto la posizione separata di Hegel»[60], dimostrando così di aver ben compreso la differenza tra alienazione e oggettivazione, fortemente fuse in Hegel e totalmente superata dai Manoscritti di Marx, li stessi che portarono Lukács alla comprensione degli errori nel proprio testo dopo averli letti, all’Istituto Marx-Engels di Mosca, nel 1930, lì custoditi e ancora inediti; verranno stampati infatti solo dal 1932.

Insomma, il pensiero di Debord è ben più complesso e variegato di quello per cui solitamente viene presentato e ridurlo a semplice nemico della televisione, per di più come passivo e innocuo critico alla stregua dei vari Baudrillard o McLuhan, credo sia piuttosto disonesto. Una cosa vera è che le sue parole risuonano ancora oggi come dei macigni, attuali, e continueranno a esserlo fino a quando il mondo che lui stesso ha criticato non sarà finalmente superato e radicalmente rovesciato. Proprio per questo meriterebbe il suo giusto posto all’interno della critica radicale, senza essere incasellato alla stregua di un cattedratico mancato; teppista, avventuriero, «dottore in niente, lontano da ogni parvenza di partecipazione agli ambienti che passavano allora per intellettuali o artistici»[61] e, infine, “cattivo maestro”. Molto cattivo.


Afshin Kaveh è autore di una monografia su Guy Debord (“Le Ceneri di Guy Debord”) appena uscita per Catartica.

NOTE
[1] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2013, p. 33.
[2] Jorn venne a conoscenza dell’Internazionale lettrista, il gruppo di Debord, con la lettura del terzo numero del Potlatch. Scriveva dunque ad André-Frank Conord il quale rigirava la lettera a Debord che, il 16 novembre 1954, gli rispondeva assieme alla prima moglie Michèle Bernstein. È il primo contatto. Da qui la loro amicizia proseguiva attraversando la storia dell’Internazionale situazionista, fondata nel luglio del 1957, e sarebbe andata ben oltre le dimissioni di Jorn dal gruppo, date nell’aprile del 1961. Li divideva soltanto la morte di quest’ultimo, il primo maggio del 1973. Debord e la seconda moglie Alice Becker-Ho seppero della notizia solo dall’edizione di Le monde del 3 maggio 1973; a gennaio Jorn gli aveva fatto sapere di essere stato ricoverato d’urgenza ad Arhus (a cui Debord rispondeva angosciato il 25 gennaio, pur augurandogli una pronta guarigione), ma una lettera di marzo in cui gli confidava che gli era stato diagnosticato un cancro sarebbe giunta a Debord solo a luglio, tenendolo dunque all’oscuro di tutto, in un silenzio prolungato, fino alla triste notizia scoperta casualmente. Debord, in una lettera a Sanguinetti del 25 settembre del 1974, scriveva: «La morte di Asger è l'unico dolore che ho provato negli ultimi dieci anni».
[3] ‘Guy Debord non è conosciuto male: è conosciuto come il male’, A. Jorn, «Guy Debord e il problema del maledetto», in: G. Debord, Opere cinematografiche, Bompiani, Milano, 2004, p.292.
[4] G. Debord, op.cit., § 9, p.55.
[5] G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, in: Id, op.cit., § V, p.196.
[6] P. Corrias, «Nota biografica», in: G. Debord, op.cit., p.250.
[7] Cfr. A. Kaveh, Le ceneri di Guy Debord, Catartica, Sassari, 2020.
[8] G. Debord, op.cit., § 24, p.60.
[9] Ivi, § 29, p.62.
[10] A. Jappe, Guy Debord, Manifestolibri, Roma, 1999, p.13.
[11] Ivi, p.61.
[12] G. Debord, «In girum imus nocte et consumimur igni», in: Id, Opere cinematografiche, op.cit., p.175.
[13] G. Debord, Panegirico. Tomo primo e Tomo secondo, Castelvecchi, Roma, 2013, p.31.
[14] Citato in: H. Arendt, «Walter Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle», in: Id, Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna, 1981, p.156.
[15] G. Debord, op.cit., § 207, p.174.
[16] G. Amico, Guy Debord e la società spettacolare di massa, Massari, Bolsena, 2017, p.85.
[17] G. Debord, op.cit., § 1, p.53.
[18] K. Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma, 2007, p.53.
[19] G. Debord, op.cit., § 35, p.67.
[20] K. Marx, op.cit., p.76.
[21] G. Debord, op.cit., § 36, p.67.
[22] K. Marx, op.cit., p.76.
[23] G. Debord, op.cit., § 202, p.171.
[24] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1969, p.5.
[25] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in: Id, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, p.209.
[26] G. Debord, op.cit., § 43, pp.70-71.
[27] K. Marx, Il Capitale, op.cit., pp.1056-1095.
[28] G. Debord, op.cit., § 47, p.72.
[29] Ivi, § 46, p.72.
[30] K. Marx, Il Capitale, op.cit., pp.53-54.
[31] G. Debord, op.cit., § 47, p.72.
[32] Ivi, § 52, p.74.
[33] Ivi, § 42, p.70.
[34] Ivi, § 48, p.72.
[35] Ivi, § 4, p.54.
[36] K. Marx, Il Capitale, op.cit., p.550.
[37] G. Debord, op.cit., § 203, p.172.
[38] Ibidem
[39] K. Marx, La guerra civile in Francia, Newton Compton, Roma, 1978, p.118.
[40] G. Debord, Panegirico, op.cit., p.26.
[41] A. Ruge, K. Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di A.P. Chiarloni, R. Ranzieri, Del Gallo, Milano, 1962, p.83.
[42] G. Debord, op.cit., § 164, p.147.
[43] G. Debord, op.cit., § 147, p.141.
[44] Ivi, pp.87-122
[45] Anselm Jappe, «Debord, lecteur de Marx, Lukács et Wittfogel», in: Lire Debord, L’Echapée, Paris, 2016, pp.281-291.
[46] Debord cita esplicitamente il libro nelle varie tesi: § 81, p.93; § 137, p.132; § 177, p.156.
[47] Dall’intervista di K. Ross a H. Lefebvre, in: «October», n.79, 1997, p.69.
[48] Secondo Apostolidès, autore di una discutibile monografia su Debord, la causa della rottura tra i due è da inscrivere nelle scelte di Lefebvre sul matrimonio con una sua giovane studentessa dalla quale ebbe un figlio e questa ipotesi è confermata da Michèle Bernstein in una lettera del 3 agosto 2014 a Raoul Vaneigem. Ciò che a me pare ben più plausibile, dopo un confronto personale con lo stesso A. Jappe, è che, nonostante i debiti di Debord a Lefebvre per lo studio di alcuni aspetti del pensiero di Marx e per il suo libro Critique de la vie quotidienne del 1947, i due sono arrivati nel giro di poco tempo a conclusioni simili, seppur solo Debord in chiave conflittuale. Ci sarebbe da chiedersi chi di loro influenzò più l’altro nell’interscambio tra la teoria dei momenti di Lefebvre e la teoria della costruzione di situazioni di Debord (tenendo in considerazione che la seconda parte della Critique de la vie quotidienne di Lefebvre, uscita alla fine del 1961 col titolo Fondements d'une sociologie de la quotidienneté, coincide in alcuni punti con il contributo di Debord intitolato «Perspectives de modifications conscientes dans la vie quotidienne», da Debord stesso presentato il 17 maggio del 1961, tramite magnetofono, al Gruppo di Ricerca sulla vita quotidiana riunito da Lefebvre al Centro di studi sociologici del CNRS, e riproposto nella rivista dell’I.S., in: Internazionale situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino, 1994, n.6, agosto 1961, pp.20-27) ma la cosa certa è che Lefebvre volesse normalizzare e inserire in un dibattito più o meno pubblico sia l’I.S. che Debord, cosa che li spinse a volersi sbarazzare di lui.
[49] A. Jappe, op.cit., pp.28-55.
[50] G. Debord, op.cit., p.65.
[51] Ivi, § 112, p.115.
[52] Ivi, § 102, p.107.
[53] Ivi, § 112, p.116.
[54] A. Jappe, op.cit., p.29.
[55] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano, 1974, pp.108-143.
[56] Ivi, p.116.
[57] A. Jappe, op.cit., p.33.
[58] G. Lukács, op.cit., p.XXV.
[59] G. Debord, op.cit., § 5, p.54.
[60] Ivi, § 80, p.92.
[61] G. Debord, Panegirico, op.cit., p.18.

 

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