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Sovranità filiale. Cristo e la teologia politica

di Gabriele Guzzi

Immagine WhatsApp 2022 12 21 ore 10.44.52Il periodo natalizio permette di affrontare alcune domande che potrebbero apparire a prima vista bizzarre: viene rivelata in Cristo una nuova immagine del potere? Esiste, oggi, una novità nel rapporto tra il Cristianesimo e la Modernità? C’è un nesso tra il bivio che sta vivendo il pensiero politico con quello che sta affrontando la scienza economica? Tenteremo di rispondere a queste insolite domande dialogando con il nuovo libro di Geminello Preterossi, Teologia Politica e diritto (Laterza 2022).

Il volume tenta un’interpretazione non nichilistica del giusrazionalismo moderno nel nesso decisione-sovranità. Per l’autore, lo sfondamento del basamento sostanzialistico non condurrebbe – necessariamente – al dominio immanente di un ordine economico, ma alla possibilità di un trascendimento in chiave democratica. L’analogia di concetti teologici con concetti politici implicherebbe così una sostituzione – mai del tutto realizzata – della verticalità della religione con una visione mobilitante. In questo senso, la secolarizzazione del Cristianesimo dovrebbe “riconoscere un limite interno”[1]: proprio per far sì che qualcosa possa essere secolarizzato (diritti, democrazia, fioritura delle soggettività) non tutto deve essere secolarizzato.

Credo che molti ragionamenti del libro possano essere letti alla luce della massima di Hobbes, “Jesus is the Christ”. Come è noto, per Schmitt, questa sarebbe la frase più importante di Hobbes: “la sua forza agisce anche quando nel sistema concettuale della costruzione speculativa viene posta al margine”[2]. Nel riconoscimento dell’identità redentrice di Gesù, Hobbes troverebbe così un “punto di appoggio”, “un contenuto minimo”[3]; per Schmitt, “l’effettivo elemento di chiusura del sistema di Hobbes”[4].

In un fondamento rivelativo, troverebbe basamento proprio l’interpretazione decisionista del nucleo razionalistico moderno. Sembra paradossale ma, come mostreremo, in realtà attiene al cuore essenziale della Modernità.

 

Il “compimento” della Modernità: un nuovo rapporto col Cristianesimo

Vorrei innanzitutto chiarire come, a mio avviso, l’asserzione hobbesiana non attenga alla questione religiosa della Chiesa Cattolica, ossia al riconoscimento del potere dell’Istituzione, ma a qualcosa di più profondo. Il riconoscimento della dipendenza del corso moderno dal Cristianesimo – infatti – non riguarda una dipendenza sacrale ma la sua inclusione nello stesso orizzonte rivelativo. Quell’affermazione di Hobbes, infatti, non implica ovviamente una sottomissione alla religione della politica moderna (che anzi nasce proprio dalla neutralizzazione delle guerre di religione). Ma la domanda rimane, e anzi si approfondisce. C’è nel pensiero giuridico moderno, così apparentemente auto-fondantesi, “una porta aperta alla trascendenza”[5], come pensa Schmitt di Hobbes? C’è, quindi, qualcosa che sfugge all’interpretazione nichilistica della soggettivazione moderna? Che la Modernità sia “figlia” della rivelazione cristiana è, oramai, cosa nota. Leggiamo, ad esempio, cosa dice Jürgen Habermas.

“Per l’autocomprensione normativa della modernità il Cristianesimo non rappresenta solo un precedente o un catalizzatore. L’universalismo egualitario – da cui sono derivate le idee di libertà e convivenza solidale, autonoma condotta di vita ed emancipazione, coscienza morale individuale, diritti dell’uomo e democrazia – è una diretta eredità dell’etica ebraica della giustizia e dell’etica cristiana dell’amore. Questa eredità è stata continuamente riassimilata, criticata e reinterpretata senza sostanziali trasformazioni. A tutt’oggi non disponiamo di opzioni alternative. Anche di fronte alle sfide attuali della costellazione postnazionale continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne.[6]

Qual è allora la novità di oggi – rispetto al riconoscimento della dipendenza del Moderno dal Cristianesimo – in cui, a mio avviso, anche il libro di Geminello Preterossi deve essere letto? Il problema, semplice ma inquietante, è che non è più possibile lasciare per presupposta questa rivelazione. Il “resto” sacrale sta cessando di essere un residuo certo e stabile delle nostre società. Il Cristianesimo rischia, nel futuro, di divenire una minoranza anche nelle categorie morali, e non solo nelle adesioni religiose. Questo porterebbe alla luce il fatto che le implicazioni valoriali della Modernità non siano affatto il frutto del “progresso razionale dell’umanità”, ma qualcosa di molto specifico, molto relativo, sebbene abbiano poi una vocazione universalista. Le società secolarizzate scopriranno, forse nell’orrore e sulla loro pelle, che ciò che abbiamo ritenuto per secoli ‘giusto’, ‘umano’, ‘civile’, non era un possesso della Ragione Universale, ma la realizzazione – sul piano mondano – di alcune verità di fede. Le riflessioni politiche contemporanee devono essere, a mio avviso, analizzate in questo novum: non è più possibile poggiare su un resto cristiano senza sceglierlo e alimentarlo consapevolmente.

Le energie spirituali si stanno, infatti, separando dal sentire comune, lasciando la costruzione democratico-moderna in pericolo di seri traballamenti. Per questo, si può dire che viviamo in un’epoca “post-moderna”, se intendiamo con “moderno” quella fase storica di separazione della cultura europea dalla sua principale fonte spirituale ma di attuazione implicita dei suoi valori morali. Il teologo Romano Guardini sosteneva però che oggi “il non-credente deve uscire dalle nebbie della secolarizzazione. Deve rinunciare all’usufrutto che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato”[7]. La Modernità è un “usufrutto” che, per motivi storici che non possiamo indagare, ha ritenuto spesso di potersi pensare come un ambito autonomo di rappresentazioni concettuali. Ciò – per Guardini – non è più possibile. Non si può più “vivere di rendita”: le energie spirituali vanno ricomprese e rialimentate. E, questo, non per tornare a forme di potere mondano del ‘religioso’, ma per salvaguardare e rilanciare la traccia più positiva del progresso moderno. L’usufrutto della Rivelazione, infatti, poggiava su una società ancora moralmente compatta – anche se non sempre eccelsa – ma che condivideva un’uniformità culturale e religiosa significativa. Questa compattezza, oggi, si perde nei rivoli della laicizzazione, della crisi delle istituzioni sociali (famiglia, Stato, partiti, chiese), dei poteri dell’oligarchia capitalistica svincolata da qualunque controllo democratico. In tale situazione, non è più politicamente possibile pretendere che il desiderio moderno di libertà, uguaglianza e fraternità sia fondato solo su una ragione pura. Non è più possibile proseguire sulla via della separazione, serve ritornare a pensare questi concetti in relazione alla Parola che li ha rivelati, depurandoli così anche delle loro mistificazioni contemporanee.

La domanda “Gesù è il Cristo?”, che alle orecchie di un uomo distratto potrebbe sembrare astratta, infatti, ne implica una molto più semplice e radicale: chi è l’Io? La rivelazione del Cristo, infatti, ci dice molto non solo su chi sia Dio ma anche su chi sia l’Io. Chi è insomma questo Io che parla, e che legge, che vuole essere riconosciuto, che vuole essere libero, che pretende una dignità difesa costituzionalmente? Da dove prende questo anelito di verità e giustizia? Da dove gli nasce quest’idea di libertà, dato che è immerso da sempre in un ambiente di necessità e condizionamenti? L’Io è materia inerte in un cosmo casuale, carne mortale destinata a essere dimenticata in un buco nero? E, se fosse così, che fondamento avrebbe questo nostro anelito di senso, ordine, ma anche di giustizia, eternità, inclusione, quando tutto nella natura ci suggerirebbe il contrario: insensatezza, caos, morte, selezione naturale?

Il fatto che i princìpi del moderno, nonostante la loro pretesa auto-fondativa, poggino sulla secolarizzazione dell’orizzonte di fede cristiana non dipende quindi dall’accettazione del potere della Chiesa ma, “semplicemente”, da una risposta (implicita) a queste domande radicali. E la risposta implicita è: no! La storia umana non è destinata al nulla. C’è un significato, un progetto. L’Io di ognuno è qualcosa di prezioso, non solo da tutelare ma da porre al centro di un progetto emancipativo. La promessa moderna si fonda su questa antropologia fondamentale, e sulla stessa visione cristiana della storia. C’è stata la Caduta – che è l’inizio del ‘politico’ come nucleo di conflittualità – ma questa non è la verità ultima dell’uomo. È possibile un percorso di liberazione, che ponga insieme l’antropologia negativa del peccato con la verità salvifica che già riguarda l’essenza dell’uomo. Questo tiene insieme ordine ed emancipazione. Questa liberazione, infatti, sebbene non si realizzerà integralmente nell’oggettività storica – che in questa dimensione mantiene un grado di inconciliabilità – agisce già ora nelle profondità dei secoli. Tra un già e un non ancora si dispiega il tempo come storia della salvezza o come progresso moderno.

D’altronde, è proprio l’idea di tempo che la Modernità prende in prestito dal Cristianesimo. I tempi messianici, che servono in Paolo alla consumazione del peccato, vengono secolarizzati come processo di civilizzazione. Löwith scrive: “La storia universale, diretta verso un unico fine e unificante, almeno potenzialmente, l’intero corso degli eventi, non fu creata da Voltaire, ma dal monoteismo ebraico e dall’escatologia cristiana.”[8] L’idea della storia come progresso, l’irruzione salvifica dell’evento, la concezione della modernità come evoluzione, sono traslazioni mondane della concezione temporale che ha il Cristianesimo. Il tempo non è un cerchio, come credevano i pagani, non è neanche una linea, come credono gli ebrei, ma è una linea spezzata, una linea interrotta. L’evento del Cristo – comunque mistificato – irrompe nel tempo e lo conclude, lo trasforma dal di dentro.

 

“Morte, fede, sovranità”: il trittico della teologia politica occidentale

Proseguiamo col secondo punto che volevo portare all’attenzione: il concetto di sovranità che, implicitamente, regge le nostre società ha molto a che fare con un punto spesso dimenticato dal pensiero politico moderno, vale a dire con una certa forma di morte. Pensiamo, ad esempio, al conferimento di Gesù del primato petrino (Mt 16,13-23). Il potere deriva dalla professione di fede di Pietro. Alla domanda di Gesù: “Ma voi, chi dite che io sia?”, egli risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.” E quest’affermazione è il fondamento del potere: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.” Nei versetti subito dopo, però, Cristo si scaglia contro Pietro, dandogli del Satana, perché non voleva accettare il destino di Passione di Gesù. C’è, quindi, un nesso intimo tra fede, mistero pasquale e sovranità. Il potere di Pietro gli viene affidato quando riconosce che “Jesus is the Christ”, ma allo stesso viene rimproverato quando non vuole comprendere che questa sovranità redentiva è subordinata alla Croce. La sovranità deriva da questa duplice fede non solo nella messianicità di Gesù ma anche nel suo passaggio purgatoriale negli inferi. Morte, sovranità e fede sono perciò l’archetipo integrale del potere post Christum.

Questo trittico, morte-fede-sovranità, riguarda l’intera storia della Chiesa, e anche la Modernità. Il passaggio della Croce, infatti, non riguarda solo la persona di Gesù, secondo Paolo, ma tutta l’umanità che si vuole redimere: la rinuncia all’Uomo Vecchio e la rinascita in Cristo. “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Lo specifico del Moderno, che però oggi giunge a conclusione, è proprio quello di pensare di poter fare a meno della morte, della rinuncia all’Uomo Vecchio, e auto-fondare su di sé la fede nella sovranità dell’Uomo Nuovo. L’archetipo della teologia politica moderna si è così costituita sul binomio fede-sovranità, ma ha rinunciato al passaggio della morte o, se si preferisce, della Croce, della rinuncia all’autonomia dell’ego.

Cerchiamo di essere più chiari facendo un esempio su una tradizione che ricorre spesso nel libro e che, insieme al costituzionalismo del Novecento, sembra essere l’altro punto di riferimento: la storia del comunismo. Come oramai dovrebbe essere evidente – anche ai marxisti più ortodossi – il successo della critica di Marx non derivava certo dal fatto che gli operai apprezzassero il processo di trasformazione dei valori-lavoro in prezzi; bensì dalla promessa di una società liberata e senza classi. Il successo del marxismo, cioè, non si reggeva sulla fondazione scientifica del socialismo, ma sulla secolarizzazione di una promessa di salvezza. Questa era espressa – esattamente come nella tradizione giudaico-cristiana – come la conciliazione del peccato-separazione (Trennung), questa volta realizzata nell’ambito dello spirito oggettivo. L’aspetto scientifico – tra l’altro non sempre esatto – non serviva ad altro che a offrire un surrogato della fede: l’avvento di una società nuova, senza classi, non era un pio desiderio di un gruppo di sognatori, ma il destino inscritto nella processualità storica di produzione. L’aspetto scientifico era cioè rilevante proprio per dare un sostituto a ciò che i marxisti ritenevano di aver definitivamente espulso dall’ambito dell’umano: la fede.

L’intero corso marxista sarebbe impensabile al di fuori di questa cultura messianica. Come scrive Löwith, “il materialismo storico è una storia della salvezza espressa nel linguaggio dell’economia politica”. Infatti, “né i concetti di ‘borghesia’ e di ‘proletariato’, né la concezione generale della storia come una lotta sempre più aspra tra due campi nemici, e neppure l’anticipazione del suo culmine drammatico, possono essere verificati in modo puramente empirico.” Infatti, “la reale forza propulsiva che sta dietro questa concezione è un evidente messianismo, radicato inconsciamente nell’essere stesso di Marx.”[9] L’intero immaginario marxista è, infatti, una storia della salvezza. Il popolo d’Israele diviene il proletariato; il peccato, la separazione del lavoratore; il serpente, la circolarità del capitale che si auto-valorizza; la redenzione, la rivoluzione; il Regno di Dio, la società socialista. La redenzione del proletariato è la redenzione di tutta l’umanità. C’è una secolarizzazione di tutti principi cristiani, che però si ritiene siano auto-fondati su una scienza positiva della società.

Si è cristiani senza Cristo, anzi, in sua contrapposizione. C’è la fede, espressa in uno scientismo determinista; c’è la sovranità, questa volta fondata sul corso necessario dei rapporti produttivi; c’è la visione dell’Uomo Nuovo, ma non c’è la rinuncia all’Uomo Vecchio. Si vuole la resurrezione senza passare per il sepolcro. La promessa del Regno della Libertà, quando viene interpretata come l’esito di un corso necessario di sviluppo dei rapporti economici, che conducono a una presa violenta del potere politico, non porta a una dimensione irenicamente pacificata ma al rinsaldamento del Regno della Necessità. I messianismi senza Messia non portano a nulla di buono, ma a un’appropriazione ideologica di un contenuto iniziatico. Quest’“appropriazione indebita” rovescia in schiavitù la promessa di libertà.

Questo discorso, lungi dall’implicare un rifiuto dell’eredità socialista, serve a filtrarla, a depurarla dalle sue ingenuità storiche. Questo permetterà poi di porsi con più radicalità la questione della temporalità rivoluzionaria, della profondità dei condizionamenti che limitano la libertà umana, di un’idea meno riduzionistica di alienazione. Insomma, serve a riconnettere il corso socialista alla sua fonte, per poter immaginare forme nuove di progetti emancipativi.

 

Economia, politica e metafisica: “dalla scienza alla fede”

Ciò di cui stiamo parlando è perciò un bivio storico-iniziatico: un tempo di scelte più nette e consapevoli sull’orizzonte rivelativo a cui vogliamo, con libera decisione, appartenere. Il problema è, per Preterossi, “assumere l’energia distruttivo-produttiva della decisione moderna, evitandone gli esiti più estremi e nichilistici.”[10] Stiamo parlando proprio di una forma nuova della soggettività, che recuperi e rilanci il meglio del processo occidentale-moderno, ma che la salvi anche dalle derive nichilistiche del contemporaneo. “Il cruciale principio della soggettività moderna viene scardinato dalle sue connessioni relazionali […] per essere proiettato come effervescenza pulviscolare in uno spazio liscio e sconfinato, privo di appartenenze.”[11] Questa definizione di Preterossi descrive esattamente molta cultura progressista dell’Occidente globalizzato.

Questo bivio, a mio avviso, si osserva anche nella scienza economica. In questo ambito, la pretesa moderna di autofondazione si compie con Piero Sraffa, che incomincia a ragionare sui presupposti filosofici di Produzione di merci a mezzo di merci (Einaudi 1960) proprio tra gli anni ‘20 e ‘30 del XX secolo. Non è un caso che, in quegli stessi anni, Schmitt e Heidegger si occupassero di problematiche analoghe. Sraffa, infatti, mostra la possibilità di derivare i valori di scambio delle merci senza fare riferimento ad alcun fondamento che trascenda la circolarità produttiva delle merci stesse. I valori economici, così, si auto-fondano, nelle condizioni tecniche di produzione e nella distribuzione arbitraria del sovrappiù tra le classi sociali. Questo confuta, sicuramente, la teoria marginalista, che vedeva il profitto e il salario come indici di scarsità relativa dei fattori produttivi. Ma anche la tradizione marxista, che con la teoria del valore-lavoro pensava di offrire un fondamento scientifico all’idea che il profitto derivasse dallo sfruttamento – come estrazione di pluslavoro – e del crollo del capitalismo – con la caduta tendenziale del saggio del profitto. Sraffa mostra lo sfondamento del fondamento nell’ambito di tutta la storia della teoria del valore, che è il vero nocciolo metafisico della scienza economica moderna.

Uno dei pochi autori che comprese la portata conclusiva del lavoro di Sraffa fu Claudio Napoleoni. Egli scrisse nel 1985 un saggio che si intitolava “Dalla scienza all’utopia”[12], e che voleva essere una risposta al saggio pubblicato nel 1880 da Friedrich Engels, che nella versione italiana si intitolava “L’evoluzione del socialismo: dall’utopia alla scienza”. Cosa significava per Napoleoni andare dalla scienza all’utopia, “dopo Sraffa”? Non certo rimpiangere i primi autori socialisti. Significava comprendere che il carburante della rivoluzione non è mai stato un fondamento scientifico. Questo carburante, anzi, sfugge al pensiero rappresentativo-metafisico. La ragione scientifica, ma anche quella filosofico-moderna, può ordinare un ambito dell’ente ma non lo può istituire. C’è una dipendenza, una relazionalità, verso un’eccedenza che la ragione non può controllare ma solo scegliere.

Per questo, Napoleoni ha bisogno di Heidegger per tentare un pensiero che non sia mera elaborazione di un già-dato ma l’istituzione di un non-ancora. Questa istituzione è una decisione, certo, ma non è nulla di arbitrario. È una fedeltà a un ascolto, semmai, un obbedire, nel senso di udire qualcuno che ci sta dinanzi (ob-audire). Ma questo schema del linguaggio, che ritiene che sia la Parola a giungere all’uomo e non quest’ultimo a elaborarla come un suo prodotto, non è un’invenzione heideggeriana. È lo schema dell’incarnazione del logos. Ed è per questo che Napoleoni, al contrario di Heidegger, ritiene che alla fine un fondamento al movimento ideale verso la speranza, la giustizia e la libertà, ci sia eccome; ma, al contrario di Engels, che esso non sia un prodotto della ragione che osserva scientificamente il reale. Esso attiene all’ambito della rivelazione: è un fondamento che la ragione non può controllare. Per questo, più di Heidegger, Napoleoni ritiene che sia possibile una nuova soggettività, diversa sia dall’uomo imprigionato nella tecnica che da un indefinito paradigma antropologico dell’“inoperosità”. È una soggettività che ha già passato il sepolcro, che ha già rifiutato la sua finta autonomia, e per questo è veramente autorevole. C’è quindi una responsabilità dell’uomo, ossia una sua abilità a rispondere a un appello che lo reclama. E quest’appello non è uno spiritualismo vago, ma è iscritto nella storia della salvezza cristiana.

Il terzo punto su cui volevo soffermarmi quindi è il seguente: il bivio che affronta la scienza giuridica è lo stesso di quello della scienza economica, e in realtà di tutta la Modernità: o proseguire nell’idea dell’auto-fondazione – e così finire nella mera rappresentazione della circolarità autoreferenziale di una volontà di potenza tecnica – o morire alla pretesa di controllo e accettare, con maggiore consapevolezza, la relazione a un’alterità. Questo rapporto si può chiamare anche figliolanza. Si può dire, quindi, che l’energia volontaristica della trascendenza moderna è fittizia solo nella misura in cui si riconosce anche che, nella verità, è filiale, è cioè iscritta nel paradigma rivelativo della fede del Cristo, di un Re-crocifisso o, se si preferisce, di un Re-bambino. L’Io è veramente all’origine della decisione solo perché è già passato attraverso la sua non-autonomia, la sua non-indipendenza, ossia attraverso la Croce. E, qui, il nesso tra Hobbes, Schmitt e la teologia politica del Cristo offre spunti interessantissimi di approfondimento.

 

L’autorità infondata del Figlio come paradigma del potere moderno

Cosa significa questo nel discorso che Preterossi compie sul moderno? A mio avviso, ciò significa che la mancanza di un fondamento sostanzialistico, che la Modernità porta alla luce, in realtà, non è l’abisso di un nulla ma la fonte della vera legittimazione. Ciò che sembra il niente, in realtà, non lo è. O, meglio, bisogna attraversare il niente per scorgere che esso non è il nostro annientamento. Ciò implica, come scrive Preterossi, “sporgersi sull’abisso dell’assenza di fondamento (ultimo) come fonte”[13]. E questo ci si rivela non come contenuto rappresentato di una ragione, ma nella carne sofferente della storia, nella verità della finitudine, nell’attimo esatto della Croce; lì, dove dinanzi al dolore, decidiamo di affidarci. Questa dipendenza ci si rivela, quindi, quando rinunciamo alla finta pretesa di autonomia (ossia nella morte) e ci affidiamo a un’alterità che non ci annulla ma ci esalta: morte-fede-sovranità.

Il fatto che l’autorità di Gesù non sia fondata (apparentemente) su nulla – se ci pensiamo – è infatti proprio il suo tratto specifico. Lo sfondamento del fondamento è qualcosa che è iscritto nella nostra tradizione fin dal principio, ben prima della Modernità. Il fatto che il potere di Cristo sembri autofondantesi, e quindi del tutto fittizio, è esattamente ciò che gli recriminano i poteri religiosi e politici dell’epoca. La sua parola, infatti, non veniva certificata da nessuna istituzione che era riconosciuta come “detentrice della verità”, ma dalla sua pura autorità. Auctoritas non veritas facit legem. “In quel tempo, Gesù entrò nel tempio e, mentre insegnava, gli si avvicinarono i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo e dissero: «Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?»” (Mt 21,23). Gesù sembra non fondare su nulla la sua pretesa di sovranità. E, infatti, neanche risponde a questa domanda. Sembra essere un qualcosa di meramente arbitrario. Ma così non è. La sua autorità deriva dal riconoscersi pienamente Figlio, legittimato dalla fonte. Questo modello di autorità è lo stesso che, secolarizzato, è posto al centro del paradigma politico moderno. Il potere è legittimato dalla sua stessa forza di effettività, l’autorità viene valutata “in spirito e verità”, ossia dalla sua stessa capacità di operare, di essere autorevole. “Ed erano stupiti dal suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (Mc 1,22). Ciò che agli occhi del mondo appare come fittizio, nella verità è filiale. L’istituzione può arrivare anche a odiare chi manifesta da sé un principio di autorità, perché la mette in pericolo. Da qui nasce il principio rivoluzionario: il potere istituito viene delegittimato dalla pura forza intrinseca di un potere istituente. “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18). È alla luce di questa forza assoluta dell’Io-Re-Figlio che molti progetti rivoluzionari, e molti leaderismi, moderni devono essere letti.

Il punto più fecondo di ulteriori discussioni, su cui il libro di Preterossi fa interrogare, quindi, è la questione dell’arbitrarietà o meno del potere moderno: l’orizzonte della trascendenza moderna è una “finzione arbitraria”, o dietro quest’apparente arbitrarietà c’è altro? Lo scarto di “auto-trascendenza dell’immanenza” è fittizio, è soltanto un auto-movimento, o è iscritto già in una decisione, che non è auto-fondativa ma è un’appartenenza a una parola rivelata? L’Io-sovrano è la mera espressione di una volontà di potenza (anche nobile) o questa forza deriva dal riconoscimento (magari negato) di una fonte di legittimazione? E non è questa proprio l’immagine dell’Io che ci rivela Cristo? Una sovranità che sembra fittizia, ma in realtà è l’espressione libera di una filialità assoluta?

Questo può sembrare un discorso assurdo per le orecchie di molto pensiero contemporaneo. Il “prezzo dell’affrancamento politico dal religioso” – scrive giustamente Preterossi – “sarà l’affrancamento dal ‘politico’, che non significherà affatto la liberazione dal senso di colpa, ma la riemersione violenta e ingestibile della logica sacrificale”[14]. Rifiutando questa dimensione rivelativa, infatti, il religioso riemerge in forme pre-cristiane, nella tensione al sacrificio e al sangue, magari ben dissimulati nell’asettica circolazione finanziaria. Questa ricongiunzione del moderno alla sua fonte, invece, è possibile confermando ancora di più il principio della laicità e di una società pluralista, che sarebbero tra l’altro impensabili al di fuori di una rivelazione che è pluralistica già in sé stessa (i Vangeli sono quattro), e ci presenta un Re che non è di questo mondo, non ha pretese su di esso, non perché sia remissivo ma perché lo ha già vinto.

Questo è il bivio storico-iniziatico che, a mio avviso, un nuovo progetto emancipativo deve con più autoconsapevolezza riconoscere. Ed è una scelta libera, che come umanità faremo in ogni caso. O verso una maggiore liberazione o verso il dominio della separazione. Nel secondo caso, non potremo che assecondare l’idea nichilistica della tecnica capitalistica di auto-valorizzazione, come nel XXI secolo, oppure appoggiare messianismi anticristici, come nel XX[15]. Non sarà, quindi, più possibile dare per scontata l’energia che ha alimentato – in maniera sicuramente ambigua, controversa, ma anche con grandi successi di emancipazione – il corso moderno. Solo ricongiungendo in forma nuova la Modernità con la sua sorgente spiritale, si potrà tentare un rilancio delle sue premesse e promesse iniziali: l’espressione di persone sempre più libere, felici, relazionali e potenti.


N.d.R. Questa è la versione sintetica di un testo più esteso e articolato, che verrà pubblicato più avanti e su cui vi terremo aggiornati.

Note
[1] G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2022, p.48.
[2] C. Schmitt, Glossario, Giuffrè, Milano 2001, p.343.
[3] G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2022, p.58.
[4] Ivi, p.51.
[5] C. Schmitt, “Il concetto di politico”, in Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 1998, pp. 150-152, nota 53.
[6] J. Habermas, Tempo di passaggi, Feltrinelli, Milano 2004, pp.128-129.
[7] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1979, pp.101-102.
[8] K. Löwith, Significato e fine della storia, il Saggiatore, Milano 2015, p.119.
[9] K. Löwith, Significato e fine della storia, il Saggiatore, Milano 2015, p.61.
[10] Ivi, p.59.
[11] G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2022, p.227.
[12] Questo testo è ora raccolto nell’importantissima raccolta di saggi: C. Napoleoni, Dalla scienza all’utopia, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
[13] G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2022, p.18.
[14] Ivi, p.119.
[15] Sul carattere messianico e anticristiano dei totalitarismi novecenteschi, si veda M. Guzzi, Dalla fine all’inizio, Paoline, Milano 2011, pp. 134-150.

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