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carmilla

Il nuovo radicalismo di destra secondo Adorno (e come potremmo contrastarlo)

di Marco Rizzo

theodor w adorno tazza.jpgParte I

Poco più di tre anni fa è stata tradotta ed edita per la prima volta in Italia una conferenza che Adorno tenne nel 1967 presso l’Università di Vienna, su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria1. Oggetto della conferenza, la riemersione e la crescita elettorale in Germania del neofascismo, nella fattispecie dell’NPD (Partito Nazional Democratico di Germania), allora appena fondato. Nel momento in cui si tiene questa conferenza l’NPD è in una fase di ascesa, tale da lasciar presagire un suo possibile ingresso nel parlamento tedesco alle elezioni federali del 1969; da qui la misurata ma ferma preoccupazione che fa da filo conduttore al discorso di Adorno.

Vale la pena riprendere in mano anche oggi questo breve testo per due motivi. In primo luogo occorre evidenziare che quando Adorno identifica alcuni caratteri ricorrenti della propaganda della nuova destra, quando descrive gli strumenti di cui questa si serve per catturare le menti di alcuni ceti sociali specifici, ha il pregio di impostare l’argomento su un piano che è già direttamente volto alla lotta politica: si tratta di costruire una cassetta degli attrezzi, un insieme di pratiche di base, degli strumenti di osservazione e di analisi da cui partire e mettersi al lavoro per contrastare un pericolo che avanza. Il secondo motivo deriva conseguentemente dal primo, ed è, un poco sorprendentemente, lo stile della conferenza. A differenza della complessità concettuale e della densità di riferimenti letterari ben noti ai lettori e alle lettrici di opere come Dialettica dell’illuminismo o Minima moralia, il linguaggio a cui Adorno ricorre in questo discorso risulta invece sobrio e comunicativo. Forse a causa della presenza di un uditorio e della conseguente natura orale della trattazione, o forse a causa dell’argomento in questione, che non ammette elitarismi di sorta, il fondatore dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte ha insomma cura di far sì che i suoi spunti possano essere compresi e raccolti senza troppa difficoltà anche da un pubblico di non iniziati.

Gli aspetti delle nuove formazioni della destra radicale che Adorno va qui a delineare sono riconducibili a tre ordini di questioni: il rapporto tra fascismo e democrazia, la base sociale e psicologica del loro consenso e le tecniche di propaganda. Cerco qui di riassumerli servendomi di alcune citazioni e di proporre alcuni spunti di attualizzazione e, in qualche caso, discussione.

 

Ideologia, materialismo e propaganda

Già nel 1959, quando il lavoro di elaborazione del passato nazista (dopo una blanda denazificazione e una ben più ampia rimozione nell’immediato dopoguerra) da parte delle istituzioni della Repubblica Federale Tedesca doveva ancora cominciare, Adorno affermava che “la sopravvivenza del nazionalsocialismo nella democrazia” risultava “più minacciosa della sopravvivenza di tendenze fasciste contro la democrazia.”2 Vediamo ripresa questa tesi anche nella conferenza del 1967, allorché Adorno si sofferma su “quel neofascismo che usa espressioni come si può tornare a votare3 . Non credo sia necessario specificare quanto questo identikit discorsivo si attagli anche ad alcuni leader politici italiani che hanno vinto le elezioni del 2022, e che in realtà hanno vinto ben da prima, dettando l’agenda politica dell’ultimo ventennio. Vale invece la pena di riflettere su come, da una prospettiva interpretativa di questo tipo, peraltro dalle solide basi storiche, dovrebbero scaturire dei posizionamenti conseguenti. Così come i fascismi delle origini hanno preso il potere grazie alle istituzioni democratico-liberali, e solo successivamente hanno provveduto a smantellarle, anche oggi possiamo vedere come le odierne forze del radicalismo di destra risultino spesso pienamente integrate nel gioco democratico e anzi, per uno strano paradosso, finiscano per porsi strumentalmente a sua difesa contro le tendenze elitarie e tecnocratiche delle classi dirigenti neoliberali.

Da un lato abbiamo quindi la riproposizione di modelli del passato, integralmente autoritari e tesi a ridurre e cancellare violentemente tutti gli spazi di opposizione, di critica e di dissenso, a partire dalla libertà di stampa e di espressione fino al diritto a manifestare, così da restaurare la totalità indivisa della Nazione. Sono le “democrature” che guardano a Est e che verso Est sono geopoliticamente sempre più orientate: Orbán in Ungheria, Erdogan in Turchia e Putin in Russia. Dall’altro, abbiamo tutte quelle destre che giudicano più redditizio cavalcare la retorica vittimaria dei “poveri nemici del sistema perseguitati” ora dalla stampa, ora dagli intellettuali, ora dalle istituzioni internazionali, a tutti invisi perché “dalla parte del popolo contro le élites”. Niente di nuovo sotto il sole, ce lo ricorda sempre Adorno: “Gli esseri umani avevano la sensazione, proprio grazie a questi movimenti che distruggono la libertà, di tornare a possedere la libertà, la possibilità di decidere liberamente, la spontaneità.”4 Trump negli USA5 , Salvini e Meloni in Italia sono le eruzioni di questa democrazia plebiscitaria, che si presenta come la forma più pura, perfettamente realizzata, di democrazia, moralmente tollerante e inclusiva verso tutte le pulsioni e i comportamenti antisociali del cittadino proprietario (l’evasione fiscale su tutte) quanto ferocemente escludente verso tutte le soggettività che altererebbero il corpo unico della Nazione, culturalmente ed etnicamente definita. Come sinteticamente osservava Adorno poco meno di 60 anni fa: “L’obbligo di adattarsi alle regole democratiche implica anche una certa trasformazione nei comportamenti […]. Ciò che è apertamente antidemocratico sparisce. Viceversa, ci si richiama sempre alla vera democrazia e si accusano gli altri di essere antidemocratici.”6 Inutile tuttavia fermarsi alla contemplazione disgustata di questa eruzione sintomatica, oggi prepotentemente in ascesa. Anche per Adorno, le democrazie dovrebbero vedere in queste manifestazioni una controfigura degradata di sé7. Allo stesso modo la sinistra (viene da aggiungere oggi), se non avesse gli occhi offuscati dalla cieca fiducia di essere dalla parte giusta della storia, si troverebbe davanti uno specchio in cui contemplare il rovescio speculare della sua acritica resa alla razionalità neoliberale e all’ideologia della pacificazione.8

Ma da dove vanno cercate le cause oggettive che preparano il terreno a simili ritorni di fiamma, anzi della Fiamma? La risposta di Adorno è innanzitutto materialistica:

Vorrei partire dall’idea che, nonostante il loro crollo, le premesse dei movimenti fascisti continuano a sussistere sul piano sociale, se non anche su quello direttamente politico. Penso in primis alla tendenza del capitale alla concentrazione, dominante oggi come allora, [… per effetto della quale] resta sempre possibile il declassamento di strati sociali che dal punto di vista della loro coscienza di classe soggettiva risultano del tutto borghesi, i quali intendono mantenere i loro privilegi e il loro status sociale e, ove possibile, rafforzarli.9

Sul disorientamento dei ceti medi in Occidente a seguito della crisi del 2008 e sulle traiettorie politiche che questi hanno preso (“populismo”, sovranismo ecc.) molto si è scritto in questi anni. Così come non mancheranno di suonare familiari e attuali i richiami del filosofo francofortese all’inflazione e alla disoccupazione tecnologica e non da ultimo a “una contrapposizione tra provincia e città che si sta acuendo”10. Questi i principali elementi portatori di un senso di instabilità e di disgregazione socio-economica diffusa, capaci di generare quello che Adorno stesso chiama “il sentimento della catastrofe sociale. […]: Come è possibile andare avanti, se c’è questa grande crisi?, e questi movimenti si propongono appunto come una risposta a tale situazione”11 promettendo tanti (e perlopiù impossibili) ritorni all’ordine che fu12.

Qui ci si trova davanti a un nodo perverso, perché la propaganda di destra ha saputo costruire una narrazione ideologica consolidata attorno a questo senso di declassamento, al franare delle basi materiali e ideologiche dell’identità soggettiva di vasti strati sociali “in crisi di privilegio”, sia esso di classe, razza, genere, variamente combinati tra loro; una narrazione volta a impedire la formazione di alleanze con le classi lavoratrici sfruttate e con l’ancor più sommerso sottoproletariato metropolitano. Infatti, nota sempre Adorno, “questi gruppi hanno sempre la tendenza a odiare il socialismo o ciò che loro chiamano socialismo, ossia danno la colpa del proprio declassamento potenziale non agli apparati che lo producono, ma a coloro che si sono contrapposti in chiave critica al sistema che nel quale avevano potuto godere di quello status.”13 Se il fascismo di un secolo fa è stato soprattutto lo strumento adoperato dalla borghesia europea per stroncare e prevenire il possibile ripetersi dell’Ottobre russo nel contesto turbolento del primo dopoguerra, ai giorni nostri, vista la duratura latitanza di movimenti rivoluzionari capaci di impensierire le classi dirigenti, i surrogati mitologici dello spettro del socialismo possono anche chiamarsi “ideologia gender”, “grande sostituzione”, “nuovo ordine mondiale” o “dittatura sanitaria”. Ciò che oggi viene semplicisticamente e troppo sinteticamente definito “globalismo”, potremmo più articolatamente chiamarlo cosmopolitismo liberale sul piano culturale e, a livello economico, la promozione degli interessi di quei pezzi di borghesia che devono la redditività dei loro capitali all’integrazione nel sistema mondo a dominazione (sempre meno) occidentale, a scapito tanto delle borghesie nazionali non più competitive, che delle classi lavoratrici nazionali.

Le forze della destra radicale tentano di interpretare, per l’appunto, questa crisi di status dei ceti medi in Occidente, ma non sembrano capaci di dare loro una risposta strutturale capace di ripristinare le fonti materiali di tale status. Si può anzi dire che a partire dalla mancata vittoria delle elezioni europee del 2019 il sovranismo sta scontando un’empasse strategica non indifferente, e tutt’altro che prossima a finire: sostanziale accantonamento del progetto di rottura dell’UE; disorientamento e incapacità di presentarsi come traghettatori credibili durante la recente crisi pandemica; da ultimo le dirompenti contraddizioni geopolitiche tra le stesse destre europee dovute alla guerra in Ucraina; tutto sta lì a dimostrarci che le nuove destre non sono quella corazzata invincibile con cui talvolta ce le rappresentiamo. Il risultato delle elezioni europee previste tra pochi mesi, quale che sia, difficilmente potrà influire significativamente sul modo in cui le classi dirigenti del continente attraverseranno il nuovo disordine mondiale. Perché, drammatico a dirsi, classi dirigenti all’altezza dei tempi storici sopraggiunti, a oggi non ci sono, da nessuna parte.

“Accade spesso – leggiamo sempre nel testo della conferenza – che convinzioni e ideologie assumano un aspetto demoniaco o autenticamente distruttivo proprio quando non risultano più sostanziali in rapporto alla situazione oggettiva.”14 La recrudescenza così ampia e diffusa di manifestazioni di razzismo e di discriminazione in base all’identità di genere e all’orientamento sessuale, avviene infatti in un quadro in cui a)da un lato le nuove generazioni sono sempre più restie a rinvenire una qualche giustificazione in queste forme di oppressione; b)dall’altro, vi è una lotta interna alla stessa borghesia (e ai suoi partiti di riferimento) tra una fazione più aperta e tollerante e una più rigida e conservatrice: entrambe infatti condividono l’interesse a mantenere intatta la gerarchizzazione della società capitalistica attorno a razza e genere, ma mentre la prima vuole occultare e mantenere intatta questa gerarchizzazione attraverso compensazioni e remunerazioni perlopiù solo linguistiche e simboliche, la seconda giudica dannose e inaccettabili persino queste ultime, sovrastimandone il potere reale di trasformazione e in tal modo finendo col celare per diversa via la materialità delle oppressioni.

* * * *

Parte II

Forme di resistenza e di militanza politica e culturale contro le nuove destre

Il carattere violento e subdolo della propaganda di destra consiste essenzialmente nel ribaltamento dei rapporti tra oppressori e oppressi, nel millantare maggioranze vessate da minoranze prive di reale potere, nel sistematico inquinamento della realtà storica come pure la comprensione del presente. Oppure fa riferimento alla “tecnica del salame” che prevede la messa in discussione di un fatto storico attraverso una delegittimazione dei dati delle fonti ufficiali. Una “fetta” alla volta, una cifra alla volta si arriverà a dubitare che quanto avvenuto sia davvero esistito, o che quanto non è accaduto si sia in realtà verificato. )). Che fare dunque di questa massa di soggettività della crisi, come disintossicarle dalla propaganda di destra? Al riguardo, Adorno fornisce una prima indicazione molto chiara e risoluta:

“Non bisogna operare in primis con appelli etici, con appelli all’umanità, poiché il termine «umanità» e tutto ciò che vi è connesso porta gli esseri umani dei quali ci stiamo occupando a infiammarsi, agisce come una paura e una debolezza, come in altre situazioni che ho ben presente, nelle quali parlare di Auschwitz ha suscitato esclamazioni come <> e il semplice nominare gli ebrei faceva ridere.

[…] Se si vogliono affrontare sul serio queste cose, bisogna richiamare in modo perentorio gli interessi di coloro ai quali la propaganda si rivolge. Ciò vale soprattutto per i giovani.”1

Sbam, che schiaffo al moralismo di sinistra! Addirittura il filosofo che deve un pezzo della sua notorietà all’interdizione di fare poesia dopo la catastrofe dei campi di sterminio, arriva a dire che l’ingiunzione ad essere buoni, anche laddove non risuoni ipocrita e opportunistica per via di alcuni soggetti da cui spesso la sentiamo levarsi, è comunque di per sé impotente o addirittura controproducente a contrastare l’avanzata delle destre. Le declamazioni sull’umanità perduta o degradata, se non si accompagnano infatti a faticosi tentativi di lavoro su e soprattutto con dei pezzi almeno di quell’umanità che si giudica perduta o degradata, servono solo a titillare il senso di superiorità morale e a isolare nella loro splendida (e presunta) purezza coloro che vi si crogiolano. E della veridicità di questo assunto credo che la storia recente ci abbia fornito innumerevoli e pesantissime prove.

Al contrario, per quanto Adorno stesso lo riconosca solo come un punto di partenza di un percorso più ampio e difficile, è lavorando sulle contraddizioni materiali che si possono aprire delle contraddizioni psichiche e ideologiche promettenti:

“Ho già detto che non bisogna farne una questione morale, ma che si deve fare appello agli interessi reali. Lo ripeto. Forse a questo proposito posso ricordare uno dei risultati della ricerca condotta in America, tratto dal nostro La personalità autoritaria, dove si vede come le personalità cariche di pregiudizi – quelle che sono cioè autoritarie, repressive e reazionarie dal punto di vista economico e politico -, laddove si tratti dei loro interessi evidenti, evidenti ai loro stessi occhi, reagiscono in modo completamente diverso. Infatti erano nemici giurati di Roosevelt, ma il loro antirooseveltismo cessava – e si comportavano in modo relativamente razionale – di fronte a quelle istituzioni che facevano loro comodo nell’immediato, come le misure per il contenimento degli affitti e la riduzione del prezzo delle medicine. Questa scissione nella coscienza degli esseri umani mi sembra uno dei punti di partenza più promettenti per una reazione.”2

Solo tornando e facendo tornare alla realtà, alla materialità delle condizioni, è possibile rideterminare le sorti dello scontro, ci suggerisce il francofortese. Nella lotta politica dei nostri giorni, si correrebbe tuttavia il rischio di cadere nel mero economicismo, se non facessimo i conti con almeno due questioni politiche aperte (e su uno spazio di incertezza e di possibilità su cui tornerò alla fine):

1) Accanto e in sovrapposizione a queste cause, al centro della propaganda delle destre vi è come sappiamo anche il titillare un senso di declassamento che è non solo economico ma poggia anche su basi razziali e di genere. Qui è necessario assumersi l’onere della scelta netta. O si finisce per scendere a compromessi con queste manifestazioni di revanscismo suprematista, lisciandole pericolosamente – e peraltro improduttivamente; la parabola politica di un certo mio omonimo assai noto, prima che imbarazzante, risulta istruttiva per il suo fallimento – il pelo, fino a non percepirli più come compromessi ma come parti integranti del proprio programma, ritrovandosi così a sconfinare nel campo politico che ci si proponeva di contrastare. Oppure, le si considera invece un elemento frenante per lo sviluppo di processi di lotta e ricomposizione sociale che rafforzino la potenza qualitativa del conflitto tra le classi. Qualcosa dunque che, pur azzerando il più possibile ogni senso di superiorità morale troppo esibito, occorre far regredire con efficacia e fermezza. Come fare ciò, continua però a essere un interrogativo irrisolto e difficile, visto che:

2) in anni recenti a sinistra si è molto parlato, discusso e generosamente agito per riportare in auge forme di mutualismo che potessero creare argini solidali allo sfaldamento dei legami sociali, al divenire invivibili ed economicamente insostenibili di molti spazi periferici o ex periferici, all’impoverimento strutturale provocato dalla crisi permanente post-2008, poi allo choc pandemico e da ultimo alla spirale di inflazione e guerra. Si è tentato, attraverso queste pratiche, di contenere e far arretrare, socialmente e psichicamente, i portati della cultura di destra tra gli strati popolari: guerra tra poveri, risentimento impotente, individualismo cinico. Il bilancio di questo sforzo di teorizzazione ma soprattutto di azione generosa, pare a oggi assai magro politicamente: né un movimento, né un partito, nemmeno una grande manifestazione nazionale degna di nota è sorta da tutto ciò. Non c’è da deprimersi e men che meno compiacersi per questo, semmai da domandarsi perché sia andata così; da chiedersi se le pratiche mutualistiche, pur rimanendo una strada giusta, non rappresentino di per sé una via risolutiva, né cruciale per cambiare i rapporti di forza. Riconoscersi che comunque, grazie a tutto questo lavoro, si è avanzati di un cm, o di un cm non si è arretrati, eludendo lo scarto netto tra sforzo impiegato e risultati, significherebbe solo certificare l’entità della rassegnazione sostanziale alla gestione della sconfitta, e la mediocrità delle proprie ambizioni politiche sul presente e sul futuro. Il dominio delle destre in Italia è rimasto nel mentre intatto e anzi, una volta rioccupate le leve del potere, sta lavorando per il lungo periodo, all’edificazione di una nuova egemonia culturale, terreno su cui punta gramscianamente a una rivincita non transitoria.

Sul terreno della battaglia culturale, per quanto risulti assai urgente riagganciarlo alla materialità dei conflitti che avvengono nella sfera socio-economica, ci sono ancora margini di contendibilità enormi che tutti/e coloro che esercitano una funzione intellettuale dovrebbero occupare e agire. Evitando settarismi, ansie di purezza, velleitarismi accademici, tanto come gli acritici e sterili “ritorni al popolo”, presuntuosi o autoumilianti che siano. La cura di una formazione ideologica che sia antidoto alla seduzione della cultura di destra nelle nuove generazioni – e in ampia parte di quelle adulte e anziane, che hanno subito anche sul terreno delle idee i colpi della liquefazione delle comunità di appartenenza, come pure gli effetti deleteri della virtualizzazione delle esistenze e degli spazi di confronto con la realtà e con gli altri – credo sia tutt’altro che di secondaria importanza oggi, proprio per l’investimento che la controparte vi sta riversando; varrebbe dunque la pena interrogarsi su quale potrebbero essere i compiti, le forme collettive, gli stili di una militanza culturale antifascista che non si ponga né semplicemente nelle retrovie non lambite della asprezze della lotta politica, né che si illuda di essere lotta immediatamente politica essa stessa. Una militanza che però un qualche fastidio reale, che sia accumulo di forze, esplorativa dell’ignoto e non riconfermativa di sé.

Quanto questo compito sia, oltre che urgente3 , tutt’altro che banale (intellettualmente in primo luogo) e non privo di insidie, ce lo ricorda lo stesso Adorno, che prendendo in considerazione l’abitudine delle nuove destre di cavalcare strumentalmente e in maniera distorta temi tradizionalmente appannaggio della sinistra anticapitalista o dei movimenti rivoluzionari ci tiene molto opportunamente a precisare che

“la questione non implica affatto che tutti gli elementi di questa ideologia siano falsi, ma che anche il vero può essere messo al servizio di un’ideologia falsa, e che la difficoltà del lavoro di resistenza sta essenzialmente anche nel cogliere il modo in cui la non-verità abusa della verità nell’opporvisi. La tecnica più importante grazie alla quale la verità viene messa al servizio della non verità è quella di separare osservazioni in sé vere dal loro contesto.”4

Tutto il discorso di Adorno è permeato da appelli all’attenzione, alla non sottovalutazione delle capacità degli avversari, alla qualità dello sforzo intellettuale e politico (e non etico-linguistico, come sembra credere la cultura woke) che è necessario mettere in campo5. Tra un urlo scomposto e indignato e il pacato rigore del pensiero, è sempre e solo il secondo che può seminare incertezze e dubbi in chi non è già sicuro di essere d’accordo con noi: “Bisogna smantellare gli stratagemmi di cui vi ho parlato, bisogna dare loro nomi univoci, farne una precisa disamina, descriverne le implicazioni e tentare, per certi versi, di immunizzare le masse, perché alla fin fine nessuno vuole passare per stupido o credulone.”6

Non sempre, va detto, Adorno si dimostra immune da un certo senso di superiorità intellettuale, finendo per sminuire le radici spirituali della cultura e del pensiero di destra, come pure il fascino esercitato dalle sue mitologie. Ma, da materialista, anche quando pecca in ciò, ci fornisce comunque uno sguardo capace di illuminare. Come quando registra la segreta corrispondenza, l’abbraccio mefistofelico si potrebbe dire, tra il richiamo alla tradizione dei movimenti neofascisti e il culto dell’azione e dello sviluppo afinalistico proprio della civiltà neoliberale e tecnocratica:

“Non bisogna sottovalutare questi movimenti per via del loro basso livello spirituale o per l’assenza di una teoria vera e propria. Credo che sarebbe politicamente miope considerarli destinati all’insuccesso per questo motivo. Ciò che caratterizza questi movimenti è, viceversa, una straordinaria perfezione dei mezzi, innanzitutto quelli propagandistici in senso lato, combinati con una certa cecità, addirittura un’astrusità degli scopi che vengono perseguiti. Dovendo sintetizzare all’estremo, credo che proprio questa costellazione di mezzi razionali e scopi irrazionali corrisponda, in un certo senso, a quella tendenza complessiva della civiltà che deriva da questo genere di perfezione della tecnica e del mezzo, mentre di fatto scompaiono gli scopi della società nel suo complesso. La propaganda è geniale soprattutto perché in questi partiti e in questi movimenti compensa l’indubbia differenza tra i reali interessi e gli scopi falsi e pretestuosi. Se i mezzi costituiscono sempre più i fini, sembra possibile dire che in questi movimenti radicali di destra, la propaganda costituisce la sostanza della politica.”7

Alcune considerazioni per concludere la presentazione di questo testo, che credo abbia ancora molto di stimolante da dirci per i problemi e i pericoli ma anche per le possibilità di resistenza che il nostro presente ci impone. Attraverso quale interpretazione vogliamo darci conto del ritorno ricorrente della “tentazione fascista” e di alcuni suoi attuali surrogati? Dobbiamo dare ragione ad Adorno quando interpreta il fascismo come una traccia delle promesse mancate della democrazia? Oppure dovremmo guardare a ogni nuova ascesa di un fascismo, come suggerisce Benjamin, tentando di scorgervi le tracce di una rivoluzione mancata? Forse entrambe le prospettive risultano valide, nella misura in cui si concentrano su due diversi momenti del fascismo: quello delle origini, più imperniato sulla forma del partito-milizia, e quello più maturo del partito-stato. Quest’ultimo, una volta salito al potere, ha progressivamente emarginato, se non fisicamente liquidato, le proprie frange più movimentiste e meno capaci di istituzionalizzarsi, pur mantenendo un filo di ideale celebrazione e mai rinnegata continuità con quel passato. I battibecchi da operetta su Acca Larentia degli ultimi giorni, non certo le prime e nemmeno le ultime, ci parlano forse di una contraddizione di cui l’attuale partito di maggioranza di governo e più diretto erede di quella storia, non è ancora riuscito a venire a capo.

Va detto però che anche l’antifascismo, istituzionale o militante, se non vuole vivere di glorie passate sempre più minoritarie, si trova di fronte a un bivio. Che cosa contrapporre, nel presente, alle nuove destre autoritarie e dai tratti neofascisti? La difesa delle istituzioni democratiche rette da un élite di tecnici sobri e “responsabili”, capaci di gestire senza clamori, con qualche verniciata di diritti civili e di retoriche umanitarie, il pilota automatico delle compatibilità finanziarie – il che pare essere divenuta la principale se non in fondo l’unica ambizione storica di fondo della “sinistra reale” – in un mondo sempre più proiettato verso uno stato di guerra diffusa e permanente, o invece il tornare a reinterrogare, nella teoria e nella prassi, le possibilità della rivoluzione come rottura politica e come trasformazione radicale del sistema economico capitalistico e come interruzione dell’ecocidio di cui è il principale responsabile8?

Su queste due strade alternative e tra loro incompatibili, l’intelligenza collettiva che voglia farsi carico di elaborare delle risposte deve necessariamente dividersi e assumersi l’onere di alcune scommesse intellettuali e politiche. Grande è la confusione sulla terra, e la situazione inclina al peggio. Ma è compito di ognuno rendere più di un pio auspicio i noti versi Holderlin: “Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva.” Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca l’invito a congiungere pensiero e azione con cui Adorno conclude il suo intervento di fronte ai militanti socialisti austriaci 57 anni fa:

“Forse alcuni di voi mi chiederanno, o mi chiederebbero, cosa penso del futuro del radicalismo di destra. Credo che questa sia una domanda sbagliata perché eccessivamente contemplativa. In quel modo di pensare che fin dal principio vede queste faccende come catastrofi naturali, sulle quali è possibile fare previsioni come per le trombe d’aria o i disastri meteorologici, si cela già una forma di rassegnazione che ci mette in realtà fuori gioco come soggetti politici; vi si cela, cioè, un comportamento da cattivi spettatori di fronte alla realtà. Come queste cose proseguiranno e la responsabilità per come andranno avanti ricade, in ultima istanza, su di noi.”9


Note Parte I
  1. Theodor W. Adorno, Aspetti del nuovo radicalismo di destra, Marsilio, Venezia 2020, pp. 96, € 12
  2. T.W. Adorno, op. cit., p.71.
  3. T.W. Adorno, op. cit., p. 42.
  4. T. W. Adorno, ivi.
  5. Cfr. Mikkel Bolt Rasmussen, La controrivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019.
  6. T. W. Adorno, op. cit, pp. 39-40.
  7. T. W. Adorno, ivi, p. 21: “Proprio in rapporto a categorie come quella degli eterni incorreggibili, o analoghe espressioni rassicuranti, si sente spesso avanzare la tesi che in ogni democrazia ci sia un nucleo di incorreggibili o folli, la cosiddetta lunatic fringe, come viene chiamata in America. E qui si cela qualcosa di consolatorio in senso quietistico e borghese, se tale lo si vuole considerare. Io credo che si possa rispondere soltanto: è certo che nel mondo, in ciascuna delle cosiddette democrazie, è possibile osservare con intensità variabili qualcosa di simile, ma solo in quanto espressione del fatto che, fino a oggi, da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicate come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio concetto.”
  8. Cfr. dall’introduzione a Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene. Ai nostri amici. Adesso, Nero 2019, pp. 13-14: “Non è difficile constatare come la debolezza congenita della sinistra, il suo amore per la debolezza, abbia finito per consegnare ai conservatori e ai fascisti temi come quelli di libertà, rivoluzione e anche <>. […] A forza di pretendere di incarnare il partito del Bene e diffondendo le sue lamentele da schiavo, il senso comune ha finito per dedurne, in virtù di una sorta di sillogismo che opera su scala mondiale, che visto che essere buoni significa parlare come uno schiavo, essere libero significa comportarsi da bastardi. A forza di diffidare cronicamente di tutto quello che è rivoluzionario, la sinistra ha indotto logicamente l’idea che la vera rivoluzione sia quella conservatrice. […] Il suo sentimento di essere nel giusto fuggendo il reale si nutre dell’ignominia di quello che si trova di fronte. […] In tal modo il reale viene giorno dopo giorno allontanato, ed è sufficiente che il primo pagliaccio che si presenta insceni delle provocazioni contro la sinistra e i gauchistes per fargli prendere una marea di voti, passando per un nemico del sistema.”
  9. T. W. Adorno, op. cit., p. 14.
  10. T. W. Adorno, ivi, p. 19. Al riguardo, vale la pena evidenziare come l’analisi dei flussi elettorali dell’ultimo decennio sta ponendo sempre più all’ordine del giorno il superamento di categorie come destra e sinistra, e financo di regioni tradizionalmente di un certo colore contrapposte ad altre di un colore diverso, proprio a favore della contrapposizione tra città e province (e all’interno delle città stesse, tra centro e periferie). Le seconde, spesso in coincidenza con processi di declassamento territoriale e mancata integrazione nei flussi del mercato mondiale, tendono ad essere conquistate più facilmente dalle destre, mente le città grandi e medie e soprattutto i loro centri rimangono dei fortini (demograficamente considerevoli, va da sé) quasi ovunque appannaggio del centro-sinistra o della destra moderata, più capaci di governarne lo sviluppo urbano proiettandolo in una dimensione economica globale e di dare rappresentanza a quelle frazioni di borghesia che traggono la loro ricchezza da questa precisa dimensione.
  11. T. W. Adorno, ivi, pp. 22-23. E poche righe prima: “Si potrebbe parlare di una distorsione della teoria marxiana del collasso.”
  12. Cfr. Volker Weiss, Postfazione in Adorno, op cit., p. 77: “L’esperienza della sostituibilità come forza lavoro può culminare così nello spettro popolare di una grande sostituzione. In cerca d’aiuto, coloro che sono preoccupati possono rivolgersi a un sovrano immaginario. Uno Stato nazionale che agisce in modo autoritario non viene più percepito come una minaccia, ma come una protezione, e viene visto come l’incarnazione di ciò che è loro, un processo che Horkheimer aveva già evidenziato negli anni Trenta, spiegando che nel tardo capitalismo gli uomini diventano prima dei sussidiati e poi gregari. Anziché scomparire in un mondo amministrato in modo astratto, preferiscono scegliere un’autorità di cui è possibile fare esperienza in modo diretto.”
  13. T. W. Adorno, op. cit., p. 14.
  14. T. W. Adorno, ivi, p. 17.

Note Parte II
  1. T. W. Adorno, ivi, p. 31
  2. T. W. Adorno, ivi, pp. 53-54.
  3. Cfr. T. W. Adorno, op. cit., p. 54: “Credo che la tattica di fare tutto «zitti zitti», cioè di far passare queste cose completamente sotto silenzio, non abbia mai funzionato e oggi il modo in cui si sono evolute è già arrivato a un punto tale da rendere impossibile metterla in pratica.”
  4. T. W. Adorno, ivi, pp. 41-42
  5. Cfr. T. W. Adorno, op. cit.: “Bisogna prestare molta attenzione a non pensare in modo troppo schematico e a non operare in maniera avventata.” (p. 19); “Bisognerà che la scienza politica e, soprattutto, quei politici che analizzano questo genere di cose vi prestino attenzione” (p. 28); “Sarà bene essere particolarmente attenti fin dall’inizio.” (p. 46); “Credo perciò che questo genere di questioni vada preso in esame con particolare attenzione.” (p. 47); “Occorre essere particolarmente attenti” (p. 49).
  6. T. W. Adorno, ivi, p. 55.
  7. T. W. Adorno, ivi, pp. 26-27.
  8. Cfr. una densa intervista del luglio 2022 all’economista Emiliano Brancaccio su Il Tascabile, dal titolo Guerra, crisi, rivoluzione (https://www.iltascabile.com/societa/emiliano-brancaccio/), in particolare le conclusioni: “È possibile che proprio le tendenze oggettive del sistema a un certo punto favoriscano l’emergere di una nuova intelligenza collettiva, che si riveli capace di tramutare le delusioni del “riformismo” in una feconda disperazione, e che riesca proprio per questo a raccogliere le istanze sovversive di singole monadi isolate per tramutarle in una inedita pratica politica “rivoluzionaria”? Da lungo tempo siamo educati a rispondere risolutamente di “no”, in modo puramente istintivo, direi pavloviano. Eppure, coloro che governano il funzionamento del sistema non escludono affatto una simile svolta. Anzi, lavorano coscienziosamente ogni giorno per scongiurarla. Penso sia giunto il tempo di riflettere su diverso tipo di reazione, tra noi e loro.”
  9. T. W. Adorno, ivi, pp. 56-57.

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