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faremondo

Oltre il pensiero dell'Occidente

Faremondo

Bologna, estate 2008

faremondo2Questo documento si rivolge a quanti, dentro e fuori la rete, vogliono avviare una discussione di lungo respiro sugli argomenti proposti. A novembre pensiamo di fare un primo convegno a Bologna. Nel frattempo, mentre il documento girerà in rete, raccoglieremo scritti, commenti e riflessioni che gli autori potranno anche presentare al convegno. Ovviamente ci riferiamo a contributi che entrino nel merito delle questioni da noi sollevate. Ci aspettiamo densità d’argomenti, critiche e anche scintille polemiche, ma respingeremo gentilmente al mittente i testi “fuori contesto” o estranei allo spirito del convegno. Che non vuole essere una kermesse, bensì un primo momento di conoscenza personale e di responsabile, approfondito confronto intellettuale. Per arrivare, se possibile entro la primavera del 2009, ad un incontro organizzativo che dia vita ad una sorta di centro di ricerca per l’analisi della società in rete. Responsabili di siti, frequentatori assidui, bloggers, commentatori, uomini di scienza, intellettuali e cani sciolti mentalmente fuoriusciti dalle paludi che furono i “marxisti”, la “sinistra” e la “destra”: abbiamo bisogno di un nostro pensiero, da costruire insieme mentre tutti i giorni ci muoviamo fra le macerie. Questa può diventare la prima iniziativa italiana lungo questo sentiero. Per inviare contributi potete utilizzare la seguente casella: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it..


Indice
Premessa

Pars destruens
1. Bye bye marxismo
2. Liberarsi del mito della “sinistra” e della “destra”
3. Il superamento della cultura dell’Occidente

Pars construens
1. Una nuova analisi del modo di produzione capitalistico
2. Principi d’esistenza del capitale
3. Il vincolo ineludibile del principio di coerenza per ogni spiegazione del mondo
4. Ripensare la scienza
5. Capitale finanziario e imperialismo
6. Stato e potere politico
7. Una conclusione per iniziare


Premessa

In giro per il mondo la domanda che c’è e non si sente è la seguente: come uscirne senza essere travolti? Come sopravvivere a questo mondo e alla nostra catastrofe evitando l’approdo ad una civiltà che con ogni probabilità avrebbe ancora da invidiare le bellezze dell’età della pietra? (Sia chiaro: la catastrofe di questo mondo è tutta la nostra, mentre i dominanti in essa vivono e prosperano scaricandone i “costi” sulle moltitudini planetarie e sull’ecosistema).

Dunque, come uscirne senza esserne travolti? Questa domanda non esiste nei Megamedia, ovviamente. Esiste sul web, in pochi angoli, finché dura. Le risposte che qui vengono abbozzate, tuttavia, pur essendo a volte ingegnose e suggestive, risentono del modo in cui viene posta la domanda stessa. Se nel farla si sottintende o si fa capire che bastano cento modi diversi di “staccare la spina” e si arriva all’oasi del bioregionalismo o delle nuove economie di sussistenza, allora una risposta come quella della decrescita può anche apparire appropriata ed affascinante. Anche se, a parte alcune élite culturali europee ed americane, non si comprende come alla decrescita possano partecipare le moltitudini immiserite e mentalmente occidentalizzate di tutte le aree urbane del pianeta: quando si sopravvive a stento inondati da una scadente produzione di massa e dai suoi scarti, martellati senza tregua dai Megamedia, ai miliardi non si può dire di avviare una rivoluzione culturale e intanto coltivare l’orto che non hanno. Se la rivoluzione culturale parte i miliardi dovranno costruirsi un’altra conoscenza che sappia affrontare in modo diverso alcune questioni globali dalle quali dipende la sopravvivenza di tutti, e intanto proveranno a cavarsela con le vecchie merci e con qualcosa di meglio che cominceranno magari a produrre non su piccola scala.

D’altra parte, se nel fare quella domanda iniziale si presume che possa bastare la sconfitta dell’Impero americano e un “ricambio” nei rapporti di dominio fra gli attori nell’arena geopolitica mondiale, allora ci si può anche accontentare di vagheggiare qualcosa di culturalisticamente seducente come l’ipotesi della fortezza eurasiatica o di un altro grande spazio autarchico. Senza tuttavia riuscire a spiegare come una tale sconfitta e un simile “ricambio” attuati usando la stessa logica dell’avversario (i rapporti di dominio) possano portare ad un mondo qualitativamente diverso. Si vede che la lezione novecentesca delle rivoluzioni politiche, dall’assalto ai vari palazzi d’inverno ai disastri del “ritorno” al capitalismo post 1989, non ha poi insegnato molto ai variegati fautori (del fu-marxismo, di fu-sinistra e fu-destra) del “capitalismo multipolare”.

In questo documento, che sarà da discutere riga per riga e che rappresenta un programma per (vogliamo sperare) i prossimi cento anni, vogliamo porre quella domanda in un modo diverso, in modo che i tentativi di risposta, i nostri in primis, non ci possano bastare e non ci possano acquietare. Una discussione vera non può che nascere da ciò. Non auspichiamo nemmeno l’avvento di una qualche risposta autoconsolatoria o di preventiva autoassoluzione (individuale, di gruppo o di specie che fosse).

Come uscire da questo mondo senza esserne travolti? Come sopravvivere a ciò in cui siamo cresciuti e in cui abbiamo formato la nostra mente, al nostro modo di vivere e alle nostre speranze di felicità ormai definitivamente dimostratesi infondate? (Infondate non significa prive di principio o fuori luogo: significa fondate su un tipo di pensiero subalterno a quello dominante, incapace di trasformare l’esistente al di là degli opportunismi dei singoli).

Staccarsi dal nostro modo di vivere implica il pensiero di un altro mondo mentre si vive ancora in questo. Può sembrare banale o tremendamente astratto, ma all’inizio non occorre immaginare altro, di certo niente che abbia a che fare anche remotamente con una qualsiasi “compatibilità” rispetto al mondo presente.

Immaginiamo dunque un tetto per una casa ancora senza fondamenta. Un mondo dove, ad esempio, almeno quattro cose siano nella piena disponibilità di tutti e da tutti considerate beni collettivi non privatizzabili: aria, acqua, luce solare e tempo per stare insieme. E rifacciamoci allora la domanda da cui siamo partiti includendo questa sola condizione di possibilità, che queste quattro cose siano prioritarie e, come si suol dire, “non negoziabili”.
Ci accorgiamo che basta questo, all’inizio, per porre quella domanda in modo diverso, perché adesso un qualsiasi tentativo di risposta, per quanto frutto della nostra immaginazione, non potrà fare a meno di coinvolgere le fondamenta di questo mondo (non i soli rapporti di dominio, non la sola politica, economia, tecnologia…).
Uscire da questo mondo implica adesso, come minimo, non un programma di decrescita o di riassetto degli equilibri geopolitici planetari, ma un’opera di de-capitalizzazione della vita e di ricostruzione della mente che parta da ciò che nemmeno appare sulla superficie fenomenica della società.
Non i modi d’uso di quelle quattro cose, ma l’esistenza stessa di quelle cose in un quadro (socio-culturale, scientifico, cognitivo e mentale in senso lato) in cui sia per principio impossibile che il capitale (e per esso i suoi agenti in persona) possa contare sulla loro disponibilità. Ed oggi è proprio davanti ad uno spartiacque di questo tipo che ci mette di fronte la crisi del modo di produzione fondato sul capitale, la sua spinta a durare diventata creazione di mostruosità sociali, la sua promessa di produrre una ulteriore e drammatica “stretta” mortale proprio su condizioni sine qua non della vita come aria, acqua, luce solare e tempo per stare insieme… Citiamo non a caso le cose del nostro esempio, ma chi vuole può provare a sostituire ad esse le loro innumerevoli derivazioni (fino a quelle più quotidiane) e costruire buona parte della fenomenologia del disastro globale nel quale siamo immersi.
In questa premessa ci limitiamo ad enunciare il problema cui siamo di fronte come specie. La casa comune costruita dal capitale si trova sotto i colpi di una demolizione (in)controllata da parte del capitale stesso. L’operazione difficilissima è quella di costruirne un’altra (dal tetto alle fondamenta) operando all’interno della demolizione (in)controllata. Fin qui - potrebbero dire alcuni - niente di inedito, perché nella storia delle civiltà è già successo più volte che dalle macerie di imperi e formazioni sociali passate nascesse dall’interno qualcosa di nuovo. Tuttavia il modo di produzione dominato dal capitale ha questo di specifico: in esso la realtà non è mai quella che ci viene mostrata come vera, obiettiva e fattuale dai suoi media. La sua casa in demolizione (in)controllata non è quella che ci appare nel mezzo delle attuali esplosioni e tra le macerie vaganti. Dobbiamo uscire da questa casa senza esserne travolti sapendo che quello che ci vien fatto cadere in testa non è quello che è, che tutto ci viene propinato by design da un enorme e ramificatissimo apparato mediatico che ha indotto le nostre menti ad interpretare come realtà le imposture che i dominanti hanno commissionato (il caso 11 settembre è, da questo punto di vista, l’avvio paradigmatico di tutta l’epoca dell’inganno terminale, e pesa come un’ombra sinistra sulla nostra testa).
Ciò vorrà dire costruire un nuovo pensiero e un nuovo mondo in una situazione in cui l’opinione pubblica mondiale preformata dai media ci guarderà come degli anticorpi estranei che propongono misure assurde su aria, acqua, luce solare e tempo per stare insieme mentre nella demolizione (in)controllata fra poco non si riuscirà più a respirare, a bere, a scaldarsi e a parlarsi. E ciononostante i media riusciranno a far passare queste realtà silenziandone i contorni, come problemi dei mercati finanziari o delle scelte individuali…
Ha questa situazione un qualche precedente storico? Non ci pare. La catastrofe di un modo di produzione mondiale e tendenzialmente totalitario non è la stessa cosa della fine della schiavitù antica o della dissoluzione dei legami feudali. Per la prima volta la specie è in gioco tutta insieme e in quanto tale. Il capitale come principio determinante della società non contiene alcun elemento di autoconservazione della vita, alcun meccanismo omeostatico che possa limitare i danni della demolizione (in)controllata. Per questo dalle fondamenta della casa attuale il capitale va tolto e mai più impiegato per costruire il nuovo mondo.
Ma per toglierlo non basta dargli un nome, occorre partire dal tetto (o meglio, dalle nuvole e dal cielo), svelare come opera e come dà forma alla realtà contemporanea. Questo è il nodo dal quale si deve partire. L’intreccio fra il capitale e quella forma di conoscenza che dal ‘600 è stata chiamata “scienza” ne costituisce la parte più interna e cruciale per la comprensione delle dinamiche societarie.
Nei paragrafi che seguono proporremo a chi ancora non vuole smettere di pensare una sorta di salto mentale. Fuori dalla ripetizione dell’identico tipica dei marxisti residui, lontani anni luce dal mito della “sinistra” e della “destra” (passate al servizio dei dominanti con tutto il loro armamentario politico-ideologico centrifugato da pensiero nomade e logica versatile), disegneremo diversamente i tratti del modo di produzione capitalistico e del pensiero scientifico, per poi arrivare a proporre una discussione fuori dal convenzionale corrente su capitale finanziario e imperialismo, Stato e potere politico.
La domanda dalla quale abbiamo preso le mosse non ci abbandonerà mai, perché la nostra speranza è che una diversa comprensione delle cose possa portarci oltre il pensiero dell’Occidente permettendoci di cominciare a fare mondo anche in mezzo alle macerie di questo presente.

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Pars destruens



Ogni conoscenza, presa al momento della sua costituzione,
è una conoscenza polemica.
Deve prima demolire per poter far posto alle sue costruzioni.
G. Bachelard


1. Bye bye marxismo

Partiamo da una constatazione. È ormai diventato necessario prendere nettamente le distanze da tutta la cultura marxista del passato e del presente (ma non c’è differenza) e considerarla una specie intellettuale definitivamente estinta. Tutta l’interpretazione del mondo moderno tipica della IIª e IIIª Internazionale - da Kautsky a Lenin, per ragionare in termini di estremi - è ormai da considerarsi, insieme all’intero marxismo del Novecento che ha partorito, un fossile concettuale. E come tale va trattata, confinandola in un ideale museo dello spirito trapassato a miglior vita e ormai irrimediabilmente tramontato. È solo una salma a cui dare pietosa sepoltura. Prima che ancora una volta, come recita un celebre proverbio francese, le mort saisit le vif. In rispetto dei defunti e per evitare che le sue spoglie si decompongano indecorosamente in pubblico, non ci resta altro da fare che interrarlo. Amen. La “celeste corrispondenza di amorosi sensi”, benché pensata per più nobili fini e con ben più aulici intenti, potrà sempre permettere a chi vorrà, se proprio ci tiene, noncurante degli incubi, di rimembrarlo in privato. Buona fortuna.
In fin dei conti, coi suoi più recenti e meno recenti servizi intellettuali al seguito della classe dominante, lei stessa ha messo la parola fine alla sua esistenza. Nata per rivoluzionare la società, ha ormai finito con l’accomodarsi ampiamente nella logica del sistema e molto spesso direttamente nelle molte dépendance del Principe, a cominciare dall’Accademia per proseguire con la carta stampata e concludere col web. Il tutto coronato poi dall’invenzione di formazioni politiche del tutto tradizionali, completamente succubi di una logica istituzionale, connotate dai loro tipici organigrammi gerarchici a cooptazione personale, realizzata - si badi bene - a miserabile emulazione di quello che fanno le oligarchie al potere, caratterizzate da una totale assenza di innovazione intellettuale e persino da una profonda avversione per quest’ultima, intimamente integrate in funzionali alleanze subalterne di governo e aperte ad ogni compromesso con l’establishment dominante (di cui fanno ormai parte a pieno titolo). Il fallimento culturale, morale e politico di questo ceto sociale e dei suoi rappresentanti è sotto gli occhi di tutti ed è evidente come un fatto conclamato. Visibile persino nelle deliranti esternazioni, ormai davvero senza alcun senso, ripetitive e stonate come quelle di un disco rotto, di cui ancora oggi riempiono i loro periodici senza più lettori.


2. Liberarsi del mito della “sinistra” e della “destra”

È indispensabile del pari mandare al macero e liberarsi una volta per tutte, senza distinguo di sorta, anche di tutta la cultura cosiddetta “di sinistra”: “alternativa”, liberal-democratica, “antagonista” o “verde” che dir si voglia. Si tratta di una paccottiglia ideologica che, intellettualmente e politicamente parlando, va spazzata via e consegnata definitivamente alla pattumiera della storia. Per un verso, perché non è in grado, di per sé, di dar conto in nessun modo della realtà socio-economica e geopolitica odierna. La conoscenza degli stati di cose del mondo, in altre parole, non è la ragione della sua esistenza. Per l’altro verso, perché i suoi compiti primari sono precisamente quelli di fuorviare e portare del tutto fuori strada i suoi eventuali interlocutori - siano questi ultimi la plebe metropolitana oppure generici movimenti di opposizione nati all’interno della società civile in corrispondenza di occasionali congiunture locali o nazionali. A fronte di queste sue più intime finalità diciamo istituzionali chiedere all’ideologia “di sinistra”, comunque declinata, di spiegarci la realtà sarebbe come esigere la verità da un mentitore professionale. È decisamente il caso di lasciar perdere.
A seguito in particolare degli avvenimenti statunitensi dell’11 settembre 2001, tutto questo universo intellettuale e no, al pari di tutto il marxismo dell’Ottocento e del Novecento, non può più spiegare alcunché ed è anzi votato esclusivamente al depistaggio e all’attiva copertura, a 360° gradi, delle attività criminali delle classi dirigenti odierne. Un fatto conclamato del resto documentato con dovizia di particolari dalla stessa Faremondo. Prima ce ne sbarazziamo, meglio è.
Lo stesso dicasi per la cultura cosiddetta “di destra”, compresa quella sua versione fuorviante e ugualmente subalterna ai dominanti che si voleva “anticapitalista” e “radicale”. “Sinistra” e “destra”: miti speculari e convergente destino. Anche tutte le correnti della fu-destra hanno percorso il sentiero degli avversari “sull’altro fronte”. La conoscenza degli stati di cose del mondo è da gran tempo fuori dalle ragioni dell’esistenza di queste correnti, del resto rifluite nell’alveo del pensiero dominante o di propria iniziativa o rimaste chiuse in nicchie separate come i vecchi marxisti accademici, con i quali da qualche tempo si è stabilita una qualche liaison intellettuale (invero più patetica che “pericolosa”).


3. Il superamento della cultura dell’Occidente

L’intera cultura dell’Occidente, preformata com’essa è dalla logica più intrinseca del capitale, va abbandonata al suo destino e superata mediante un nuovo sistema di pensiero. V’è oggi urgente bisogno, in definitiva, di una nuova Ragione che non abbia più niente in comune con gli archetipi originari della mente occidentale e si presenti sul davanti della scena come un sistema di conoscenza specifico e distinto da tutta la sua storia pregressa.
Una rivoluzione cognitiva di questa portata non può ovviamente non avere dei capisaldi. Le spetta anzi l’obbligo di mettere in gioco un dirimente set di principi in grado di demarcarla, quanto meno potenzialmente, da tutto il passato intellettuale della società capitalistica. Ad esempio. Non si può più dire, oggi, che la realtà osservabile, naturale o sociale, sia tutto quello che c’è da capire. Le cose non sono quello che sono. Nemmeno si può più sostenere che la comprensione del mondo prenda le mosse dall’induzione. Non esistono più fatti incontrovertibili dai quali poter prendere le mosse come da un sicuro suolo di partenza. Qualunque cosa noi si dica che qualcosa è, non è. Del pari, ogni spiegazione razionale dell’esperienza non rappresenta più né può più rappresentare oggetti esterni al soggetto (tanto meno indipendenti da questi), né è assoggettabile a test sperimentali che possano corroborarne o smentirne la validità. Non esiste alcuna “court of last resort” delle teorie. Ogni cosa detta, è detta da un osservatore. Tutto il sapere prodotto dalla società nel corso del tempo, e nella fattispecie siamo confrontati con una sorta di pangea della conoscenza, è dunque solo uno sconfinato continente della mente che cresce in continuazione su se stesso e secerne di continuo nuove visioni del reale, in un incessante divenire delle idee. Perché debba fare così e quali fini, essenziali invero per il capitale, questo processo abbia il compito di mediare è un’altra questione.
Insieme a tali ragioni, esistono del resto anche altri motivi dirimenti che ci consigliano di guardare con occhio critico alle, e diffidare delle, rappresentazioni del mondo fiorite entro la civiltà borghese. A questo proposito, è indispensabile ricordare il fatto che gran parte della cultura prodotta dall’Occidente, perlomeno dai primordi del capitale nel XVI° secolo, umanista o scientifica, non è mai stata realmente interessata, nel suo nucleo concettuale più profondo e non negli stereotipi diffusi dalla vulgata, ad una conoscenza effettiva del mondo storico o naturale. La cosiddetta scienza della politica, ad esempio, ma si potrebbe anche pensare alla sociologia del ‘600, rappresentata in questo caso dalla nascente economia politica classica inglese, si è sempre raccomandata - tramite prima il cardinale Mazzarino ancora nel ‘600 e poi, in ideale continuità aristocratica, agli inizi dell’800 col conte Joseph De Maistre - di vietare, scientemente e preventivamente, mediante l’adozione di appropriate pratiche, ogni intelligibilità alla maniera in cui i dominanti governavano sulle masse popolari e i loro sudditi. “Il potere”, spiegava autorevolmente ai suoi interlocutori il nobile francese, “deve essere fuori dalla portata di comprensione della folla dei governati”. Non a caso, secondo lo storico Paolo Preto, è almeno dall’epoca d’oro dei comuni medievali europei indipendenti che le città italiane - Firenze in primis, ben presto del resto uguagliata e poi addirittura superata da Venezia - hanno dato vita ad “un organico sistema di servizi segreti” tramite cui gestire la politica interna e le relazioni diplomatiche con gli altri potentati dell’epoca (comprensive di covert operations che contemplavano l’assassinio su commissione tramite sicari all’uopo retribuiti, la caccia spietata agli oppositori, la delazione, l’intimidazione, e in genere tutto il grazioso armamentario del crimine di Stato). Di questo già da allora spaventoso apparato, l’agire invisibile tramite macchinazioni, la menzogna, il depistaggio e la raccolta riservata di informazioni (unitamente alla censura, alla diffusione di notizie false, mezze verità, documenti contraffatti, ecc.), sono ingredienti fondamentali. Esigere la verità oppure una descrizione obiettiva delle cose da tale ingranaggio, sarebbe stato come chiedere moneta sonante ad un falsario.
Alcuni secoli dopo, se gli scopi sono cambiati ben poco, si sono in compenso evoluti in maniera estremamente sofisticata i mezzi e le vie tramite cui le attuali élite dirigenti occultano alla moltitudine occidentale e ai cittadini del pianeta in genere lo status della loro autorità e la maniera in cui questa fa emergere, direttamente sotto i nostri occhi, gli avvenimenti reali, il divenire storico osservabile nel mondo dell’esperienza comune.
I grandi Network e i Megamedia odierni - in pratica, le uniche due fonti planetarie che secernono un flusso costante di informazioni sullo stato del mondo, rund um die Uhr come dicono gli amici tedeschi - non sono per niente, come al contrario ci si vorrebbe far credere, finestre aperte sulla realtà. Si ricordi che i Network giganti statunitensi monopolizzano le trasmissioni tv via etere, via cavo e satellitari, filtrando e manipolando in tal modo qualunque notizia, qualora non sia stata prima fabbricata a tavolino, arrivi sui desk delle redazioni.
Di fatto, non v’è oggi informazione di qualunque tipo destinata al pianeta intero che, o preformata oppure sempre più spesso creata ad arte, non passi prima per il tubo catodico che ne secerne preventivamente significati e target. Da questo punto di vista, ancora l’11 settembre 2001 costituisce uno specchio esemplare di tale stato delle cose. Questo spartiacque storico connota anche una radicale metamorfosi della previa natura del consenso dei dominati per i dominanti, nonché una parallela mutazione genetica anche dei metodi tramite cui questi ultimi acquisiscono l'egemonia sociale complessiva sulle masse metropolitane e ormai planetarie. Mentre in precedenza si poteva supporre che le classi al potere potessero far valere la loro direzione politica della società tramite la supremazia culturale, dati sistemi di valori e la persuasione intellettuale (diffusi tramite la stampa, il sistema formativo e in genere mediante i cosiddetti Apparati Ideologici di Stato di una volta), oggi invece esse letteralmente inventano artificialmente la realtà di cui hanno bisogno al momento e in questa tendono a far vivere in maniera permanente le moltitudini globalizzate (occidentali e no). Il grande John Hobson, del resto, aveva già intuito questa fondamentale trasformazione: “Grandi cambiamenti economici, che richiedono l’uso di un macchinario politico, lo inventano”. Il problema è che se la legittimazione dell’imperialismo di allora ha visto la massiccia mobilitazione dei grandi tenori intellettuali del tempo (K. Pearson, H. Spencer, T. Carlyle, V. Hugo, J. Ruskin, ecc.: la crème de la crème della cultura occidentale dell’epoca insomma), dell’intero personale politico dei dominanti e persino dei loro vertici finanziari e industriali (Rockefeller in testa ovviamente, in compagnia del resto di Cecil Rhodes e Pierpont Morgan), dei giornali naturalmente (le “possenti macchine della carta stampata”) e della Chiesa, i media del periodo erano dei nani in confronto ai grandi mezzi di oggi. Questi ultimi, infatti, permettono ai dominanti di programmare e pianificare in anticipo il contesto a loro necessario, di mettere così in campo gli strumenti indispensabili alla sua realizzazione e di preformare in tal modo gli eventi futuri, sì da poterli addomesticare e controllare nelle maniere, di norma flessibili e versatili, meglio conformi ai loro fini geopolitici strategici complessivi. Siamo di fronte, come si vede, ad un vero e proprio mutamento d’epoca nella storia del capitalismo contemporaneo di cui è obbligatorio tener conto quando si interpreta il mondo odierno.
I Megamedia, a loro volta in simbiosi con le corporations precedenti e con le grandi imprese industriali transnazionali, controllano di fatto l’intero universo della carta stampata, dei video-entertainment e dei luoghi in cui si produce cultura apparentemente “alta”. Una vasta regione di questo complesso impero è senz’altro quello dei quotidiani nazionali e ormai sempre più internazionali (ma è bene sapere che negli USA tutti i 50 Stati dell’unione hanno la loro press locale, inclusiva di stazioni radio coast to coast, a sua volta emanazione di quella di vertice), riviste di ogni tipo, anche on line naturalmente, periodici, e così via. Nondimeno, un altro suo importante dipartimento è costituito dalle copiose pubblicazioni che i grandi sistemi della formazione e il sistema accademico - con i loro floridi campus, le loro prestigiose case editrici, la miriade di intellettuali professionali al loro servizio - secernono a gettito continuo e che riguardano in pratica tutto quanto, i più diversi campi del sapere umano: dall’economia alla storia, dalla politica alla sociologia, dall’antropologia alla filosofia. Ogni cosa.
Ebbene, queste ramificate e multiformi istituzioni, come l’11 settembre 2001 ha provato à foison, non hanno affatto il compito di spiegare la realtà o di render conto dei fatti. È vero piuttosto precisamente il contrario. Esse hanno come loro primario e pressoché unico scopo quello di vietarne rigorosamente la comprensione. Per un verso, generando mondi di fumo funzionali che non esistono da alcuna parte, ma estremamente comodi per farvi vivere le masse planetarie senza che queste possano rendersi conto dell’inganno in cui cadono. Per l’altro, mentendo spudoratamente in merito alla natura degli oggetti che sembrano invece descrivere con competenza quasi weberiana (in ossequio, naturalmente, all’arte di dis-simulare appresa nel loro training professionale), di modo che in linea di principio sia impossibile capirne il significato più intimo e le tendenze prominenti che esibiscono. E tutto questo al fine scientemente perseguito di coadiuvare il potere, legittimarne la facciata formale, occultare le sue inconfessabili responsabilità e corroborare infine la sua versione ufficiale degli avvenimenti.
Emblematico a questo proposito un editoriale di Eugenio Scalfari su “Repubblica” del 17 agosto 2008, in cui l’esimio giornalista non si perita di far sapere ai suoi lettori, e purtroppo nessuno lo smentirà, che “l’opinione pubblica” - una larva ormai nelle società occidentali, dietro la cui ombra agiscono come sappiamo ben altri potentati - rappresenta invece un “tema di grande importanza specialmente nei Paesi democratici” e “costituisce la sostanza vitale sulla quale la democrazia imprime la propria forma”. Un altro preclaro esempio, quest’ultimo, di fredda impostura politica scientemente calcolata per fuorviare il lettore e condurlo per mano in un altro porto delle nebbie da cui non uscirà mai più. Una impostura che in mancanza di contraddittorio passerà per vera e dalla quale, al comune cittadino, non sarà mai possibile dedurre l’effettivo stato delle cose - tanto meno ovviamente intravedere dietro quella facciata di cartapesta la reale natura dell’inganno perpetrato ai suoi danni.
Un processo simile, per altre vie però ancora più complesse e sofisticate, che seguono strategie concettuali più specifiche ed estremamente sottili, si sviluppa naturalmente anche all’interno del pensiero scientifico. Esso è tuttavia prevalentemente di natura intellettuale e concerne in primo luogo il suo status più intimo, gli oggetti di cui si occupa e la sua evoluzione nel corso del tempo. Ma in merito a questo ultimo punto rinviamo al paragrafo apposito dedicato alla scienza.
D’altro canto, con riferimento soprattutto (ma non esclusivamente) agli USA, Faremondo ha già pubblicato un’analisi del fenomeno discusso, grottesco e tragico insieme, sia nel saggio: La logica del principio determinante, sia nel pamphlet Il porto delle nebbie, entrambi reperibili presso la nostra associazione. Se invece volessimo limitarci al nostro infelice paese, stando le cose come stanno, credere di potersi render conto del mondo tramite quelle fonti, sarebbe come pretendere di poter capire che cos’è la democrazia in regime capitalistico compulsando le lezioni di Giovanni Sartori (un intellettuale che non a caso ha lavorato a lungo per l’establishment accademico degli Strati Uniti, ricoprendo incarichi di prestigio, come si dice, alla Columbia University).

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Pars construens


Nel regno dello spirito,
è necessario aver costruito per poter fondare.
Si fa il tetto prima delle fondamenta.
G. Bachelard



1. Una nuova analisi del modo di produzione capitalistico

È indispensabile oggi spiegare in maniera nuova la nascita del modo di produzione capitalistico, ► la sua natura più profonda, le sue tendenze di fondo, le sofisticate mediazioni di cui si serve per riprodursi. La società del capitale non ha niente a che vedere con l’organizzazione manageriale delle imprese, col mercato “mano invisibile” dell’ordine societario d’insieme, con l’apparente dominio del denaro e della finanza, la formazione dei prezzi, le merci e la loro circolazione planetaria, la competizione delle diverse direzioni aziendali, i sistemi di decisioni di cui constano i vertici delle imprese, ed in genere con le mille rappresentazioni ideologiche che sono state date dell’economico: regno dell’efficienza ed insieme del calcolo, della gradazione gerarchica delle funzioni nella produzione, delle innovazioni organizzative e tecnologiche entro i processi di lavoro, del conflitto (intercapitalistico, di classe, ecc.) tra attori diversi, e così via. Nemmeno è connotata dalla finzione democratica, dal liberalismo, dallo Stato di diritto, dalla cosiddetta opinione pubblica e dal pluralismo dell’informazione, dalla diversificata articolazione e complessità della cosiddetta società civile, dalla fittizia in definitiva vita politico-sociale che sembra aver luogo alla superficie del sistema sociale - in cui tutto pare accadere e accade.
A) Tutte le prime caratteristiche sono infatti forme fenomeniche del capitale e non possono dunque essere identificate con la loro causa. Se lo rappresentano e lo esprimono nel mondo dell’esperienza osservabile, non possono però esser fatte coincidere con la loro fonte, giacché il sofisticato rapporto che lega entrambe implica una distinzione che deve prima essere portata alla luce per poter poi chiarire in che modo e tramite quali sofisticati meccanismi prenda forma il loro nesso più intimo. D’altra parte, anche se si volesse prendere le mosse dall’esistenza pura e semplice di quelle istanze, presumendo di poterle considerare l’inizio fattuale o empirico, e quindi apparentemente obiettivo, di ogni analisi della realtà, paradossalmente saremmo costretti comunque a non poterlo fare. In nome prima di tutto del principio di coerenza. Se lo facessimo, infatti, per un verso ci troveremmo di fronte solo ad una statuizione gratuita di pensiero, ad una decisione arbitraria del soggetto di assumere quel sostrato quale punto di partenza della riflessione. Il che non può essere. Per l’altro verso, d’altro canto, se nonostante tutto scegliessimo di farlo c’infileremmo di nuovo, in forma nuova, in un tunnel senza alcuna via d’uscita. Dovremmo infatti ammettere di aver posto a fondamento della nostra interpretazione del mondo degli oggetti ignoti, in quanto non preliminarmente spiegati, e immaginato poi di poter far derivare da questi ultimi la comprensione della realtà. Il che, parimenti, non può essere. Ergo, deve esistere qualcos’altro a monte a alle spalle di quell’universo di enti. Che cosa esso sia e di quali proprietà consti è un’altra questione.
B) Allo stesso modo, anche tutti i numerosi e funzionalmente differenziati istituti pertinenti all’organizzazione politica ed egemonica della società complessiva non possono essere quello che sono e dichiarano di rappresentare. Per una doppia ragione, sostanziale e dirimente come uno spartiacque conclamato.
In primo luogo, al pari delle molte rubriche economiche prima citate, perché l’insieme di quelle categorie costituisce un dominio di realtà derivato da un’altra causa e non può dunque essere impunemente preso ad inizio aproblematico del ragionamento. In altri termini, come tutte le variegate forme fenomeniche dell’economico, anche quelle diciamo del politico-ideologico e della totalità sociale più in generale sono manifestazioni visibili (e dunque additabili e riconoscibili) di un’altra fonte da cui in sostanza derivano. Anche nella fattispecie, dunque, come nell’altro caso, il loro rapporto implica una distinzione di principio tra le due sfere che deve essere prima spiegata per poter poi capire quale sottile mediazione correli i due domini e ci consenta di passare dall’uno all’altro in maniera intelligibile e coerente attraverso il ponte che hanno in comune. Quanto sia difficile e complessa l’impresa in oggetto lo capiamo dal fatto che la loro differenza di specie, allo stesso tempo, implica la loro identica natura. E questa, per converso, secerne il loro diverso status, in un va e vieni da vertigine tra le due sponde. Come si vede, tra economia e società complessiva esiste una formidabile simmetria: sono mondi paralleli e allo stesso tempo, per la loro struttura e natura, interni l’uno all’altro (al proprio opposto funzionale).
Nondimeno, in secondo luogo, anche se si volesse prescindere da questi vincoli e si presumesse di poter prendere le mosse, fiduciosamente, dall’esistenza pura e semplice dei rapporti di potere tra gli uomini e dagli eventi (di regola cruenti) che essi generano nel corso del tempo, paradossalmente ci troveremmo di nuovo nell’impossibilità di poterlo fare. Per due altri fondamentali motivi, del tutto simmetrici a quelli vigenti nel regno dell’economia. Da una parte, infatti, dovremmo far iniziare la nostra spiegazione delle cose da un postulato arbitrario della nostra mente, dalla decisione di assumere quella configurazione di cose (relazioni di domino + storia) come punto di partenza della nostra analisi del reale. Il che non può essere. In caso contrario dovremmo infatti ammettere di far tutto cominciare non dai dati di fatto dell’esperienza, bensì da un nostro atto di ragione. Dall’altra parte, tuttavia, se si scegliesse lo stesso di poterlo fare c’infileremmo di nuovo, in forma anche qui nuova, in un altro vicolo cieco. Dovremmo infatti ammettere di aver posto a fondamento della nostra interpretazione del mondo delle premesse non spiegate, e in questo senso del tutto sconosciute, e immaginato poi di poter far discendere dal loro status ignoto la comprensione dell’esperienza. Il che, nuovamente, non può essere. Ergo, deve esistere qualcos’altro a monte a alle spalle dell’universo osservabile e apparentemente già dato della logica politica e delle sue tendenze faziose e bellicose. Che cosa esso sia e di quali proprietà consti è un’altra questione.


2. Principi d’esistenza del capitale


Proponiamo di identificare il modo di produzione capitalistico (mdpc) con un dato set di principi dedotto dal pensiero di Marx e che connotano in maniera esemplare la radicale distinzione del capitale sia rispetto a tutte le formazioni sociali che ne hanno precorso la nascita, sia rispetto a tutte le rappresentazioni che della società contemporanea sono state nel passato prodotte tanto dal marxismo storicamente costituito (e ormai defunto), quanto dai grandi tenori della cultura borghese. Il loro numero è limitato, ma tanto la sinergia a cui finiscono col mettere capo, quanto gli effetti di trascinamento che inducono nel resto della cultura societaria sono davvero rilevanti e sembrano promettere, in prima battuta perlomeno, una vera e propria rivoluzione cognitiva. Precisamente ciò di cui avremmo bisogno.


Eccoli:


►il mdpc consta di due livelli di realtà: un ordine interno invisibile e un mondo di superficie osservabile, espressione del primo, in cui tutto sembra accadere e accade;

►nel mdpc i soggetti esistono come personificazioni e creature del capitale, destinati ad espletare, per dirla con una sottile formula di Marx, “con coscienza e volontà le sue funzioni”;

►nel mdpc l’intelletto ordinario degli individui combacia con la logica post festum da cui si origina l’intero loro universo d’esperienza (simbolico, etico, politico-ideologico, ecc.);

►nel mdpc le condotte dei singoli e i loro contegni politico-ideologici sono preformati dal principio volontà che dà origine al loro agire deliberato e secondo un fine: la decisione è il fondamento del loro libero arbitrio;

►nel mdpc la realtà visibile coincide con la natura apparentemente già data e fattuale delle cose, di modo che il mondo (naturale e sociale) si presenta agli occhi dei soggetti come un presupposto di cui non è necessario discutere l’esistenza, una eventualità del resto nemmeno immaginabile da parte del loro intelletto;

►nel mdpc la scienza rappresenta un sistema di conoscenza intimamente preformato dalla logica del capitale e di conseguenza non costituisce né può costituire in alcun modo un sapere avalutativo, indifferente al tempo e alla storia;

►nel mdpc la tecnologia e i sistemi di macchine rappresentano un universo tecnico preformato anch’esso, tramite la scienza che vi s’incorpora, dal principio determinante del capitale;

►nel mdpc non può esistere, a seguito di quanto sopra detto, alcun uso alternativo di alcunché, giacché sia non v‘è apparato tecnologico di sorta che non sia una qualche mente realizzatasi in un dato oggetto, sia perché i soggetti non possono pensare differentemente dalla logica con cui s’identificano. Per poter ammettere un impiego diverso di qualunque cosa dovremmo infatti immaginarcelo esterno a noi. E del pari dovremmo presumere un individuo in grado di ragionare diversamente rispetto alla forma mentis che è stata a tutti imposta. Poiché queste due precondizioni non esistono né persino sono immaginabili da parte dei singoli, ne consegue l’impossibilità di poter utilizzare in modo diverso alcunché. Circostanza che a sua volta corrobora il divieto da cui si son prese le mosse.


3. Il vincolo ineludibile del principio di coerenza per ogni spiegazione del mondo


Qualunque ragionamento in merito alla realtà, riferito alla natura più intima della politica (arte del governo e insieme regno del dominio e dei rapporti di potere), al mondo materiale o più semplicemente all’analisi di una data situazione concreta: un contesto sociale, elettorale, ecc., come tutto il pensiero umano non è esente dall’obbligo di rispettare alcuni canoni intellettuali di basilare rilievo. Il primo dei quali è la coerenza logica. In sua assenza, infatti, sarebbe ben difficile sia farsi intendere dai propri interlocutori, sia conferire a quello che vien detto un significato specifico e determinato, in una parola non ambiguo né equivoco. In fin dei conti, il presente obbligo risale persino alle origini della cultura occidentale. Il logos di cui questa si è sempre nutrita incorpora infatti nel suo stesso nome una tripletta di significati dirimenti: è principio dell’intendersi reciproco (società), è un presupposto del pensiero razionale (scienza), e infine rappresenta anche l’ordine sovrano dell’universo da cui l’uomo è emerso (materia). Se è possibile prescindere per un momento da quest’ultimo aspetto, i primi due debbono però essere assunti come prerequisiti indispensabili di ogni discorso, pena il nonsense di ogni nostra esternazione (enunciato, argomento, ecc.).
Estremamente importanti, a questo proposito, e persino dirimenti, visto che ancora oggi il pensiero scientifico viene da tutti invocato, spessissimo in modo rituale e puramente cerimoniale, quale modello per eccellenza della conoscenza rigorosa, sono i pareri degli scienziati in merito al principio di non contraddizione. Se la scienza, infatti, dovesse ricusare e ritenere non valida la logica versatile avremmo allora un argomento in più, forse ancor più autorevole dei precedenti e probabilmente risolutivo, per prendere definitivamente le distanze da tale ambigua concezione e connotarla tassativamente come una strada da non scegliere. Vediamo che cosa gli “addetti ai lavori” pensano del problema.
Ad avviso del biologo italiano Boncinelli, intanto, “quello che si richiede a tutte le teorie scientifiche è che siano logicamente ineccepibili, cioè non ambigue e non contraddittorie. Il criterio delle coerenza logica rappresenta una conditio sine qua non per una teoria scientifica”, giacché persino prima di passare all’esame di un qualunque test da parte dell’esperienza (da parte dei fatti: tanto naturali quanto politico-sociali), spiega lo scienziato, “occorre che non ci sia alcuna incongruenza né alcuna ambiguità nel contenuto del suo messaggio. Prima che al vaglio della verifica sperimentale, ogni affermazione scientifica deve (o dovrebbe) passare al vaglio di un esame razionale che ne escluda la contraddittorietà interna e l’ambiguità”. La raccomandazione in oggetto è talmente importante per il sapere scientifico che Boncinelli si fa cura di enunciarla più volte: “Anche prima di passare al vaglio di una verifica sperimentale, occorre che le varie proposizioni teoriche non siano in contraddizione l’una con l’altra. La coerenza logica di una teoria scientifica è un prerequisito essenziale per poter passare alla fase sperimentale. La logica ci dice infatti che dall’errore segue qualsiasi cosa, ex falso quodlibet. Non serve fare esperimenti se le affermazioni che vado a verificare sono già incompatibili tra loro”. Infatti, “una teoria internamente contraddittoria non può essere smentita, cioè falsificata”, e non può dunque essere sottoposta in alcun modo al giudizio della realtà (E. Boncinelli, Il posto della scienza. Realtà, miti, fantasmi, Mondatori, Milano, 2004, pp.53-58).
Per il francese Roland Omnès, poi, un fisico quantistico ai vertici della comunità scientifica internazionale, “la coerenza [logica delle dimostrazioni] è divenuta il più importante carattere della scienza”, al punto che bisogna “essere pronti a sacrificare tutto per essa”, giacché anche “l’apparizione di una sola incoerenza sufficientemente chiara in uno solo dei suoi rami è ragione bastante per considerarlo viziato e sospetto”. Il principio di coerenza e di non contraddizione è dunque talmente rilevante e dirimente che la scienza deve essere disposta anche al proprio “sacrificio espiatorio” pur di conservarne e tutelarne le funzioni insostituibili, che la distinguono da tutti gli altri dipartimenti della cultura occidentale (R. Omnès, Philosophie de la science contemporaine, Gallimard, Paris, 1998, pp.338-340). Il perché è presto detto. Ce lo spiega da par suo un altro fisico contemporaneo, statunitense questa volta: Frank Tipler. In un qualunque discorso, infatti, dunque anche in un ragionamento concernente la geo-politica internazionale ed eventualmente l’economia-mondo, dei set di enunciati che violassero il principio di coerenza metterebbero invariabilmente capo ad “uno stato delle cose logicamente contraddittorio”, circostanza che a sua volta farebbe nascere l’impensabile: “Tale situazione diverrebbe semplicemente un nonsense, perché ogni proposizione può essere dedotta da una contraddizione”. Ecco l’esemplare dimostrazione di Tipler: “Una semplice prova di tutto ciò è data da quanto segue. Sia P qualunque proposizione, e si supponga che tanto A quanto non-A siano vere. Ora se A è vera - e lo è, per definizione - ne consegue che A o P (“o” esclusiva) è vera. Ma in questo caso non può essere A (l’altro lato della contraddizione, ancora per assunzione), perciò è vera P” (F. Tipler, The physics of immortality. Modern cosmology, God and the resurrection of the dead, Doubleday, New York, 1995, p.262). Qualora in una conversazione qualcuno ci chiedesse di additargli un esempio eclatante di tale contraddizione logica, gli si potrebbe replicare: si assuma che P sia la proposizione “Tu non esisti”, questo enunciato paradossalmente sarebbe vero, giacché tutto può essere dedotto da una contraddizione, e chiunque in questa logica sarebbe autorizzato a ricusare ogni discussione con una persona non esistente!
Per quanto siano persino comici, gli effetti del mancato rispetto del principio di coerenza all’interno delle concezioni che ospitano queste infrazioni sono devastanti anche per altre vie. Ad avviso di von Foerster, infatti, un eminente esponente delle teorie scientifiche della complessità, la comprensione della realtà - e dunque, nuovamente, anche del mondo socio-politico ed economico - passa obbligatoriamente per le distinzioni che il pensiero è chiamato a tracciare e disegnare nell’oggetto scrutato dall’osservatore. In questo contesto, allora, conoscere e far capire vuol prima di tutto dire mettere in risalto delle differenze e delle demarcazioni che rendano possibile la connotazione specifica dell’oggetto sotto esame, in maniera che questo sia identificabile (e identificato da sue proprietà tipiche) e sia evitata nel contempo ogni ambiguità nella sua descrizione. Per questo scienziato, in un suo pregnante aforisma di sintesi, “le nostre distinzioni cognitive determinano persino ciò che potrà essere osservato” (H. von Foerster, Understanding systems, Carl-Auer Verlag, Heidelberg, 2002, p.78). Spingendo alle sue estreme conseguenze questa enunciazione, Humberto Maturana, il famoso biologo cileno a cui dobbiamo la teoria dell’autopoiesi, è arrivato addirittura a sostenere che “nulla esiste prima di essere distinto” da un qualche soggetto, “dal momento che tutto ciò che è detto è detto da un osservatore ad un altro osservatore”. Ergo: “Senza osservatori niente può essere detto, spiegato o affermato. Di fatto, senza osservatori niente esiste, perché l’esistenza è definita nell’operazione di distinzione compiuta dall’osservatore” (H. Maturana, Autocoscienza e realtà, Cortina, Milano, 1995, pp.108-112).
Se è forse evidente la stretta parentela concettuale tra queste diverse scuole scientifiche e il principio di non contraddizione, le cose si fanno ancora più stringenti non appena si fa mente locale al fatto che il principio di coerenza risulta indispensabile persino per poter vedere le caratteristiche salienti del mondo in cui viviamo e renderci conto delle loro eventuali proprietà specifiche, quelle cioè che connotano un determinato oggetto e lo rendono tipico solo di una data realtà (ancora una volta o naturale o storica). Ad avviso di François Jacob, ad esempio, ci sarebbe persino impossibile fare osservazioni di qualunque sorta senza disporre prima di un coerente quadro concettuale preventivo: “perché un oggetto sia accessibile all’analisi, non basta scorgerlo”, precisa lo scienziato francese, “bisogna anche che esista una teoria pronta ad accoglierlo” (F. Jacob, La logica del vivente, Torino, Einaudi, 1979, p.25). Di contro all’empirismo esasperato di coloro che sono convinti che esistano prima di tutto i dati sensibili e poi la loro spiegazione, così replica il biologo parigino: “Sarebbe un errore credere che nel dialogo tra la teoria e l’esperienza la parola spetti innanzitutto ai fatti! Una tale convinzione è semplicemente falsa. Nel metodo scientifico, è sempre la teoria che ha la precedenza. I dati sperimentali non possono essere acquisiti e prendere un loro significato che in funzione di tale teoria” (id., Le jeu des possibiles, Fayard, Paris, 1983, p.124). Concludendo in maniera magistrale l’esposizione di questa esemplare progressione concettuale, il matematico René Thom ha potuto infine enunciare un principio epistemologico di prima grandezza. Il seguente: “Se non si ha il concetto di un oggetto, non lo si riconoscerà” (R. Thom, Predire n’est pas expliquer, Eshel, Paris, 1994, pp.93-95). E chiaramente in assenza di un rigoroso rispetto della non contraddizione non sarà mai possibile riconoscerlo, né probabilmente nemmeno sospettarne l’esistenza. Ergo, ammesso che la logica versatile abbia un’origine involontaria e inintenzionale, in pratica tale stile di pensiero finisce con l’incorporare nel proprio modo di ragionare finanche il divieto di poter diventare consapevole della sua natura altamente controversa e in definitiva insostenibile, il che rappresenta in ultima analisi un altro modo di conferirle paradossalmente una patente di legittimità, di confermare al soggetto che se ne serve la bontà delle sue argomentazioni.


4. Ripensare la scienza


Il principio di non contraddizione è talmente dirimente nel giudicare una data interpretazione del reale, della natura o della società, che persino la scienza, lo si è visto, deve conformarsi alle sue imperiose e intransigenti prescrizioni. Come si dice, quest’obbligo non è negoziabile. Innanzitutto, ovviamente, per il sapere che l’innalza a criterio razionale per eccellenza delle proprie dimostrazioni. Su tale base si deve allora, compito immane ma indispensabile, ripensare l’intera ragione scientifica, sottoporre a più attento esame i fuorvianti cliché correnti in merito al suo carattere e portare alla luce la natura preformata dei suoi complessi paradigmi. Mettere in discussione il suo status privilegiato e contestualmente spiegare tramite quali mediazioni i principi del capitale han potuto ibridarsi, in profondità e nel cuore più intimo della ragione per eccellenza della società occidentale, con la rarefatta logica simbolica della scienza, non è cosa semplice. Comprensibilmente. Prendere le distanze dallo stereotipo della conoscenza oggettiva, super partes, interessata esclusivamente alla progressiva scoperta dei segreti della natura, sapere avalutativo e patrimonio dell’intera umanità, richiede effettivamente un brusco salto, come diceva Jacob, al di fuori dei sentieri abituali della mente. Gli scienziati non sono tutti interessati a tale impresa intellettuale se Odifreddi, ancora oggi, ritiene di poter divulgare la convinzione che “l’assolutismo matematico e scientifico [sia] fondato sulle rocce della dimostrazione e della sperimentazione” (P. Odifreddi, Il matematico impertinente, Longanesi, Milano, 2005, p.9). D’altro canto, non meno impegnativo è figurarsi il modo di produzione capitalistico in maniera completamente distinta da tutte le rappresentazioni che a partire da Marx ancora vivo, tramite soprattutto le sintesi di Engels, ce lo hanno dipinto in modo tradizionale, mediante le molte categorie già viste.
Supponiamo invece che il modo di produzione capitalistico sia nato, a suo tempo, tramite i processi innescati dalla sussunzione prima formale e poi reale del lavoro al capitale, avvenimento cruciale discreto che dà inizio ad una nuova epoca storica ed inaugura una differente società rispetto al passato. Supponiamo altresì che un ruolo di primo piano in questo avvenimento l’abbia svolto, tramite le macchine e i sistemi tecnologici del tempo, la scienza contemporanea. Supponiamo infine che la cooperazione e coevoluzione di pensiero scientifico e capitale abbia ibridato i principi costitutivi di entrambi i domini e abbia fatto entrare l’uno nell’altro: abbia cioè incorporato il primo nel secondo e viceversa. Bene. Logica ci dice allora che le categorie base del capitale dovrebbero trovarsi anche all’interno della razionalità scientifica. Ed effettivamente è possibile osservarle all’opera, avvolte e sepolte in sottili argomenti intimamente versatili, nei sofisticati ragionamenti della fisica classica, quantistica, della biologia molecolare, delle scienze della mente e per finire dell’autopoiesi, la concezione che ha forse spinto all’estremo la propensione della comunità scientifica a presentarsi di fronte all’opinione pubblica del pianeta come la quintessenza della cognizione umana che pensa se stessa in ossequio alla propria autonomia biologica, nella ricorsiva circolarità virtuosa della propria natura.
L’aspetto oltremodo interessante, per noi, di tale correlazione è il fatto che essa dimostra quanto la scienza sia intimamente preformata, nel sostrato più interno del suo pensiero, dal potente vicino con cui condivide il controllo dell’intera società occidentale. Nella fattispecie, non si tratta più di generiche influenze politiche che possano dettare alla scienza un dato indirizzo a fini di potere, come se fosse condizionata, o dall’esterno oppure a priori, nella definizione dei suoi programmi di ricerca da una qualche autorità, di norma governativa (la Big Science, infatti, richiede enormi risorse finanziarie che possono essere erogate, in genere, solo da poteri pubblici, anche sovranazionali, come nel caso del CERN di Ginevra). Benché questi intenti vi siano stati e siano tuttora in atto, non costituiscono tuttavia il volet più rilevante del problema, giacché comunque sia presuppongono sempre la natura avalutativa della scienza e dunque prendono ogni volta le mosse da una sua preliminare interpretazione in guisa di sapere oggettivo in merito al mondo fisico e alle proprietà della materia (che proprio per questo può essere finalizzato a scopi di dominio e controllo della società e dell’ambiente naturale). D’altra parte, ben difficilmente le cose potrebbero andare in modo diverso. Che cosa infatti potrebbe mai avere in comune la logica occasionale e discrezionale dell’agire politico con la razionale geometria intellettuale della conoscenza scientifica?
La posta in gioco della questione, come è evidente, è particolarmente delicata e dirimente, giacché se la ragione scientifica è il pensiero dominante dell’intero Occidente è chiaro che provarne e mostrarne il carattere intrinsecamente condizionato equivale in pratica a confutarne lo status eccellente e riportarla dalla sfera celeste delle idee oggettive al mondo profano della società in cui è nata e di cui porta l’impronta sin dentro i suoi primi principi concettuali. D’altro canto, in pari tempo, visto che è il pillar per eccellenza del capitale, la dimostrazione in causa porterebbe alla luce del sole, tendenzialmente quanto meno, anche le fondamenta più sofisticate e rimaste finora nell’ombra del modo di produzione capitalistico, consentendoci d’impostare infine una critica originale e potenzialmente corrosiva del suo ordine societario più intimo.
La lezione che è possibile inferire da tutto ciò investe del resto anche l’invenzione di nuove forme di organizzazione politica dei dominati, suggerisce le nuove condotte da tenere di fronte agli eventi nazionali e internazionali, suscita virtualmente anche un differente pensiero politico-ideologico nettamente distinto dal passato prossimo e remoto del movimento operaio. Nella misura almeno in cui ci spiega che cosa non bisogna fare quando ci si oppone al capitalismo e in pari tempo ci ricorda, in positivo, quali contegni è indispensabile adottare per fuoriuscire dalla gabbia dorata che ci è stata sapientemente costruita intorno.


5. Capitale finanziario e imperialismo


È indispensabile inoltre ripensare profondamente anche la natura effettiva del capitale finanziario e dell’imperialismo odierni. Entrambi non sono più interpretabili con le vecchie categorie del passato. Per poter capire i caratteri attuali e le tendenze planetarie che questi due pilastri della società capitalistica odierna hanno ormai fatto emergere alla luce del sole, debbono essere ridefiniti con nuove e più originali chiavi di lettura. Rispetto agli inizi del XX secolo entrambi hanno cambiato pelle, hanno subito profonde trasformazioni e si sono sviluppati in maniera drammaticamente originale. Non possono più dunque essere letti con i concetti usati dalla cultura liberale, socialdemocratica o marxista classica del passato. Né Hobson né tanto meno Lenin, o qualunque altro loro epigono più recente, possono schiuderci le porte della loro comprensione. Anche in questo campo di ricerca è quindi imperativo cambiare strada e imboccare nuovi sentieri della conoscenza. Assumendoci i nostri rischi. Del resto, come ha spiegato F. Jacob, “l’inizio di ogni nuovo sapere è sempre un salto nell’ignoto”. Se non lo fosse, come potremmo sperare d’incontrare, nel mare magnum forse senza riva del mondo, il nuovo? Del resto, come mai potremmo andare avanti volgendo sempre lo sguardo all’indietro? La cosa che qui più conta, nondimeno, è disporre sin dall’inizio di alcune dirimenti chiavi di lettura del mondo, in mancanza delle quali non sarebbe possibile neanche immaginare le novità emerse nel corso del Novecento. Da questo privilegiato punto di vista, è chiaro che tutti i fenomeni più recenti emersi all’interno dalla formazione sociale capitalistica mondiale vanno inquadrati in una cornice teorica completamente diversa dalle precedenti. In particolare, bisogna prestare attenzione e sottoporre ad una più fine analisi le seguenti questioni:

►formazione dei monopoli, delle società transnazionali, della finanza globale, delle banche centrali, dei flussi internazionali del credito, inestricabilmente in simbiosi con i circuiti del crimine transnazionale del resto;

►ruolo dello Stato e di Wall Street, della potenza statunitense e del suo espansionismo coloniale e militare, delle grandi istituzioni finanziarie e commerciali planetarie: la FED, IMF, WB, WTO, la BIS di Basilea dominata dagli USA, il Depositary Trust Company di New York - “Member”, come precisa la sua Home Page, “of the U.S. Federal Reserve System” -, che ad esempio, spiega F. William Engdahl, “ha in custodia più di 2.5 milioni di azioni ordinarie statunitensi ed estere, obbligazioni municipali e delle grandi imprese emesse da più di 100 paesi, valutate oltre i 36 trilioni di dollari”. Inoltre, “il DTC e le sue affiliate trattano, all’anno, transazioni di titoli per più di 1.5 quadrilioni di dollari. Il DTC ha il monopolio esclusivo di tale business negli Usa” (F. W. Engdahl, The financial tsunami and the evolving economic crisis, in Globalresearch del 23 gennaio 2008);

►unitamente all’inedito ruolo globale dei servizi di intelligence americani nella finanza internazionale e nel traffico della droga, e più in generale nelle attività illegali del crimine organizzato in tutti i continenti;

►la funzione strategica del dollaro come moneta dei pagamenti internazionali soprattutto per l’import/export del petrolio in tutto il pianeta, l’inflazione pianificata come strumento di controllo (ed eventualmente di rovina delle economie) dei paesi in via di sviluppo, emergenti e dei concorrenti esteri (UE in testa e a seguire Giappone, India, Cina, Russia, ecc.);

►la prossima nascita dell’Amero (US, Canada e Messico come una sola massa economica e finanziaria continentale, naturalmente a egemonia statunitense);

►l’impero delle basi militari all’estero (1000) e sul suolo patrio (6.000), in media 120 per ognuno dei 50 Stati dell’unione, circostanza che fa dell’esercito e della “war machine” USA il più grande consumatore di energia nel mondo (cfr. S. Meyer, The Pentagon and oil, articolo del 24 luglio 2008, in Globalresearch) - dato di fatto che a sua volta intreccia in un solo stretto fascio le strategie finanziarie globali delle élite, il controllo diretto e manu militari delle riserve petrolifere mondiali, il complesso militare-industriale.

Da questo punto di vista, quando si parla di crisi finanziaria, di collasso dell’economia del petrolio, di incombente crisi ambientale, in pratica si omette qualunque analisi di quelle fondamentali variabili, dimenticando bellamente il fatto che le tre presunte incombenti crisi potrebbero benissimo essere una sola colossale frode planetaria, come ha recentemente sostenuto ancora F. William Engdahl, delle attuali oligarchie ormai saldamente al comando del mondo intero per poter conseguire i loro piani globali di dominio. Basti pensare al fatto che, secondo almeno Lindsey Williams, i ciclopici giacimenti petroliferi scoperti in Alaska “potenzialmente potrebbero approvvigionare l’intera economia degli Stati Uniti per i prossimi duecento anni” (si veda un suo video: The energy non-crisis, in Globalresearch del 29 giugno 2008). D’altro canto, per un paese che nel corso del Novecento ha costruito il suo ruolo imperiale su un accorto e spregiudicato potere di controllo dei flussi monetari mondiali, e che a tutt’oggi ha saldamente nelle sue mani tutte le principali leve del sistema finanziario internazionale, pare davvero inverosimile immaginare che possa andare incontro ad una sua spontanea débacle economica, addirittura ad una sua implosione, come paventano alcuni economisti (cfr. ad es. Paul Jorion, Vers la crise du capitalisme américain?), dovuta a imperizia nella gestione del credito da parte dei suoi molossi bancari. Parrebbe più corrispondente al vero pensare il contrario. Che cioè gli Stati Uniti stiano pianificando e preparando un ulteriore mutamento dell’ordine finanziario mondiale a loro esclusivo vantaggio. Ciò sarebbe del resto in linea con i fini perseguiti dalla potenza statunitense almeno fin dall’epoca della presidenza di Theodore Roosevelt. Che poi questa ennesima trasformazione del mondo possa assumere il volto apparentemente catastrofico di uno tsunami economico-monetario planetario, pensiamo che cali ben poco ai circoli dirigenti USA. La cosa importante per loro, possiamo presumere e riteniamo verosimile, è che sia ben preordinato e che scarichi la sua devastante energia sulle economie di paesi terzi (possibilmente su quelle potenze regionali - in primis forse Russia, Cina e India - che potrebbero un domani diventare degli insidiosi concorrenti: tanto vale prevenirne, se possibile, l’ascesa e ridimensionare le loro pretese).
Nondimeno, è chiaro che descrivere il più esattamente possibile questi fenomeni nuovi, cosa comunque da fare se si vogliono gettare le basi di una loro diversa spiegazione, esige comunque e richiede di tener conto delle distinzioni già viste a proposito del potere e dell’economico. Senza le loro demarcazioni non sarebbe possibile orientarsi in modo razionale in quella selva. Dobbiamo fare ricorso ai loro sofisticati significati. Altrimenti cadremmo di nuovo nei divieti precedenti e negli insolubili paradossi che necessariamente implicano. Se ci si entra, non vi è più modo di uscirne. Circostanza che ci consiglia di evitarli accuratamente.


6. Stato e potere politico


Dobbiamo spiegare in maniera nuova e distinta da tutto il pensiero pregresso e attuale dell’intero Occidente cosa sono lo Stato e il potere dei dominanti. Qual è la logica interna di questi due istituti e come organizzano le loro funzioni complessive. Le forme del politico e della politica sono modi d’espressione anch’esse del capitale come tale e come tutti i fenomeni, conformemente al loro nome, debbono presupporre una qualche loro causa. Se con la prima rubrica intendiamo la logica dello Stato e dello statuale, e con la seconda il contegno consapevole e in genere razionale delle classi nell’ambito della società e dei suoi diversi sottosistemi, alcuni distinguo s’impongono. In questo ultimo livello, la mediazione del principio volontà e l’esistenza degli individui come funzionari del capitale è decisiva. Attraverso la convinzione, profondamente radicata nella mente dei singoli, che il loro agire discrezionale e finalistico discenda e derivi da loro autonome decisioni in merito alle condotte da adottare nei confronti del mondo sociale, ai soggetti è vietato persino poter immaginare di rappresentare una differente fonte. Nonché non poterne avere cognizione, nemmeno possono immaginarla. Il che li rapporta in maniera attiva a quel fondamento. Il libero arbitrio è precisamente l’ambiguo tramite che media l’intima doppiezza del soggetto: un individuo in grado di assumere dati contegni sua sponte e nello stesso tempo una persona asservita ad un ben diverso meccanismo.
D’altra parte, una volta messi al mondo come individui senzienti, gli agenti e le creature dominanti del capitale generano di continuo, tramite l’agire discrezionale e pianificato che concresce con la loro autoreferenza, una pluralità di mondi fittizi e artefatti in cui far vivere come in una serra le classi subalterne e le moltitudini metropolitane, di modo che queste ultime non possano rendersi conto (e sia finanche vietato ad esse di poterlo fare) del mondo dissimulato in cui vengono fatti nascere e crescere in vitro: dalla fecondazione dell’uovo, via lo stadio larvale, all’età adulta. Qui le diverse agenzie di cui dispongono i dominanti per poter conseguire questi scopi, cruciali per la loro sicurezza e la riproduzione indefinita del loro potere, svolgono un ruolo primario: arcana imperii o servizi di spionaggio e intelligence, Network globali e Megamedia, potenti apparati di dissuasione (militari, polizieschi, concentrazionari, di detenzione e reclusione, ecc.), simbiosi scellerata e ormai stabile col crimine organizzato, e così via, disegnano un contesto in cui l’inganno, il depistaggio, la confusione sollevata ad arte, l’informazione preconfezionata, la sostituzione dei fatti con castelli in aria, persino l’invenzione dal nulla di una realtà immaginaria, in sostanza interi mondi di fumo, sono gli ingredienti pressoché esclusivi con cui si fa letteralmente nascere dal blu l’opinione pubblica di cui c’è bisogno e si nutre la mente della plebe moderna (qui vi sono almeno per gli italiani tre testi di riferimento: G. Casarrubea, M. J. Cereghino, Tango connection; D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato; S. Lodato, R. Scarpinato, Il ritorno del Principe). A ulteriore integrazione di questo impressionante dispositivo, la logica della tecnica e del calcolo razionale incarnata dagli apparati amministrativi dello Stato - che come una capillare rete a maglie fittissime, lo ricordiamo, si stendono su tutta la società - tende a incasellare il comportamento degli individui in norme e prescrizioni preordinate in modo da poter disciplinare i loro contegni e poter prevedere in tal modo le loro condotte future. Se le diverse pratiche degli individui introiettano tali regole, ecco che essi tenderanno a funzionare da soli come soggetti conformi. Proprio ciò di cui il potere aveva bisogno per assicurarsi la riproduzione tendenzialmente standard, innocua dal punto di vista politico, della moltitudine metropolitana. D’altro canto, non si creda che contegni difformi impensieriscano più di tanto il capitale, o che da soli siano in grado di mettere in discussione alcunché. Nella misura infatti in cui il potere li addita alla pubblica riprovazione, li confina in nicchie emarginate e rinforza, per converso, il conformismo degli altri. D’altro canto, nella misura in cui li approva e li favorisce, ad esempio tramite la diffusione e il commercio della droga (business da cui, del resto, trae lauti introiti), per un verso neutralizza una parte consistente delle nuove generazioni e dei movimenti giovanili, screditandoli e condannandoli alla marginalità; per l’altro li innalza ad esempio luminoso per tutta la pubblica opinione di quello che non bisogna fare se si vuol conservare lo status di cittadini esemplari e irreprensibili.
Un ruolo di primo piano in tutto questo, lo svolge di sicuro la doppia natura dello Stato. Da una parte, infatti, la dottrina del diritto tende a presentare il potere politico per eccellenza come una macchina formale e un sistema legale di norme all’interno dei quali i singoli possono muoversi in genere come pesci nella loro acqua e perseguire, sotto il primato e il governo della ragione giuridica impersonale e astratta, i loro interessi legittimi. Finanche a livello internazionale, mediante la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo fatta propria dall’ONU e l’ordinamento costituzionale dei rapporti tra i diversi Stati. La finzione democratica e i riti partecipativi danno infine ai diversi soggetti l’impressione di poter decidere e scegliere in prima persona, sulla base di un loro insindacabile giudizio, le classi dirigenti e il ceto politico a cui verranno delegate le funzioni di rappresentanza del bene comune e degli interessi generali. Che poi i Network e i Megamedia abbiano radicalmente trasformato la nozione stessa di pubblica opinione, creandola e organizzandola intorno ad un’agenda fissata in anticipo dai dominanti, non ha fatto altro che sublimare e rendere vieppiù sofisticata la gestione del consenso, il cui significato è oggi completamente mutato rispetto a quello che aveva in altre epoche storiche del capitale.
Dall’altra parte, tuttavia, in sinistra simbiosi con la finzione democratica, lo Stato s’identifica anche con un apparato di potere fornito di grandi mezzi occulti ed extralegali che vengono usati in funzione di una Realpolitik che si nutre di un nichilismo senza limiti e senza alcun riguardo per le disposizioni legali e costituzionali (tanto meno per la vita e l’incolumità dei soggetti che l’autorità pubblica, tramite giuramento sulla carta costituzionale, avrebbe dovuto tutelare). Gli ipotetici custodi della Legge diventano coloro che per primi la infrangono. Sistematicamente. Con metodo e continuità. Nondimeno, la cosa da mettere in risalto è il fatto che i due lati della questione sono profili diversi di uno stesso volto, due facce della stessa moneta. Non sono affatto in contrasto, né sono occasionali o riformabili. Rappresentano piuttosto il frutto naturale - la polpa e il nocciolo duro, in un certo senso, se li consideriamo parti di un solo organismo - della società del capitale. In altre parole, lo Stato contemporaneo, oltre all’apparente meccanismo impersonale del sistema legale, includendo in questo le regole del gioco democratico, incorpora stabilmente nelle proprie istituzioni la logica ben più bellicosa e illegittima dell’agire in segreto, extragiuridico e anticostituzionale, in aperta e conclamata violazione della sua stessa presunta natura etica e universalistica, ma in ossequio realistico ad una politica di potenza legibus soluta, al di sopra della giustizia, del diritto e di qualunque ordinamento normativo. E Genova nel luglio 2001 ce ne ha dato credo, nel seno stesso di una delle democrazie occidentali europee e direttamente dall’interno degli apparati ufficiali dello Stato, una fulgida, drammatica e eloquente insieme, dimostrazione (cfr. M. Portanova, Inferno Bolzaneto. L’atto d’accusa dei magistrati di Genova, Melampo, 2008).
Questo sinistro stato delle cose non dipende da nessuna tara storica locale - geopoliticamente determinata, cioè, e dipendente magari da date condizioni al contorno contingenti - del sistema né da circostanze esterne e occasionali, eventualmente emendabili. Non è affatto, in sostanza, un fenomeno patologico. Niente di tutto questo. In quanto funzionari del capitale, i dominanti possono ragionare solo mediante il principio volontà che media il loro agire intenzionale. È il loro intelletto decisionistico che sin dall’inizio li rende liberi di scegliere quale migliore soluzione adottare di fronte al conflitto con i loro consimili e ai rapporti di potere e di forza - con le classi subalterne, con altre e diverse loro frazioni interne ed estere - in cui sono immersi sin dalla nascita in quanto personificazioni e incarnazioni della loro causa. Poiché sin dagli esordi vivono e possono vivere solo in un ambiente ostile popolato da classi antagoniste e soggetti avversi da poter fronteggiare in modo versatile, adottando i contegni di volta in volta più convenienti, ecco che i dominanti possono svolgere adeguatamente le funzioni loro assegnate solo se gli è consentito di mettere in campo tutti i mezzi atti all’uopo. Solo la decisione, ci ricorda Carl Schmitt, il famoso giurista nazista, fonda il diritto e dà origine alla cornice legale delle società occidentali. E certamente lui se ne intendeva.
Oltretutto, la doppia natura dello Stato, così conveniente per far vivere tranquillamente gli individui nel mondo (dis)simulato, offre ai dominanti, tramite in genere la legislazione emanata dal suo personale politico, e il caso Bush è qui davvero esemplare, la opportunità di garantire ai suoi servitori, è proprio il caso di dire, una comoda impunità di fronte alla legge, nel mentre allo stesso tempo si possono servire del diritto per adottare preventive misure repressive, anche draconiane, nei confronti dei dissidenti e ridurre al silenzio gli oppositori. Al limite, possono sospendere l’ordinamento costituzionale e al colmo del paradosso instaurare legalmente un governo dispotico e autoritario. Se poi si pensa al fatto che la moltitudine è di regola ingabbiata nella logica della tecnica e dello “smoking screen” costruito dai Network e dai Megamedia (privati o pubblici, poco importa), si avrà un’idea forse più adeguata della realtà odierna. Il tutto, e al culmine di questo universo surreale e grottesco, nella costante, ripetuta ma inosservabile violazione del principio di legalità dello Stato di diritto, nella sistematica infrazione di quel governo delle norme che avrebbe dovuto sancire la democraticità del potere e la riduzione al minimo dell’arbitrio! Decisamente, i dominanti hanno un senso dello spirito molto sviluppato. Se poi, per concludere in bellezza, si fa mente locale all’intreccio potere-criminalità organizzata, si avrà l’ultima pennellata al quadro sopra disegnato. Del resto, l’epitome massima e la migliore dimostrazione della “deep politics” all’opera nello Stato, per riprendere qui un’idea di Peter Dale Scott, è proprio l’11 settembre 2001, mentre per l’Italia, che è stata a lungo, insieme ad altri paesi è vero, una sorta di laboratorio del Dott. Caligari per gli USA, sono senz’altro da vedere, quanto meno, i saggi di Casarrubea-Cereghino, Ganser e Lodato-Scarpinato, prima menzionati. Gli studi di Sergio Flamigni sulle Brigate Rosse sono un’altra autorevole prova dello stato delle cose descritto.
A modo loro, e cioè in maniera drammatica e abrupta, quasi una catastrofe nel senso di René Thom, queste constatazioni ci fanno lucidamente capire il fatto che oggi, nelle attuali condizioni interne e internazionali, in particolare dopo e con l’11 settembre 2001, il modo di produzione capitalistico è ormai entrato in una fase storica apertamente criminale senza più alcun riguardo per norme etiche di alcun tipo, superiori principi di civiltà o diritti inviolabili della specie umana, tanto meno per quelli della biosfera. Si è ormai di fronte al completo tramonto di tutta la cultura liberal-borghese della società moderna e dei suoi secolari valori civili. Questa nuova realtà, a sua volta, ha fatto letteralmente strame della “Rule of Law”, del principio di egemonia, della categoria classica di consenso, della opinione pubblica ed in genere di qualunque ragione illuministica moderna, comunque declinata (in termini sociologici, politico-ideologici, filosofici, ecc.). Niente di tutto questo ha più senso, oggi, nell’aperto dominio degli atti e della natura criminali delle attuali élite planetarie. Se quei gusci vuoti ancora sopravvivono, apparentemente, nelle discussioni pubbliche.- ovunque mediate, lo si ricordi, dalle molte agenzie del potere - è perché vengono ancora ritenuti utili simulacri per mezzo dei quali continuare a nutrire la mente della moltitudine. È un universo virtuale, alla Matrix, nel quale ci si vorrebbe far vivere come in una società reale. E del resto è sufficiente leggere la stampa, nazionale o mondiale, per capire in quale surreale mondo alla rovescia noi si sia confinati. Bush che accusa Putin di golpe per la guerra in Ossezia, oppure la UE che piange sul latte versato della legalità internazionale, sono lo specchio grottesco di tale stato delle cose. La realtà dis-simulata del mondo odierno creata dai Network giganti e dai Megamedia delle attuali oligarchie, in cui tutti noi passiamo la maggior parte della nostra esistenza, è in pratica all’origine del mutamento sopra descritto, ovvero rappresenta la precondizione che lo ha reso possibile. Protetta e resa invisibile da tale formidabile Macchina(zione), che secerne a gettito continuo l’acquiescenza attiva dei soggetti sociali, la condotta scopertamente criminale dei dominanti ha potuto finalmente emergere con virulenza dichiarata alla luce del sole. Il loro personale deus ex machina fa infatti letteralmente sparire il backstage e per converso fa apparire unicamente il davanti - fittizio al massimo grado - della scena, in maniera che la moltitudine possa fare esperienza unicamente di quest’ultimo. In tal modo, ha potuto venire allo scoperto, e osare l’impensabile, senza più alcuna mediazione formale o meccanismo procedurale di legittimazione (le famose regole del gioco, dissoltesi ormai nel nulla), perché si era ormai assicurata, con la plebe planetaria in sua balia, una immunità politica di partenza a prova di bomba, portata poi al parossismo dai successivi provvedimenti legislativi varati dall’esecutivo USA. Il potere di fatto, tramite i Megamedia e i Network, in una sorta di tripudio narcisistico della volontà sovrana, si convalida dunque da solo, senza aver più bisogno di alcuna copertura da parte di nessuna dottrina, di nessun sistema di controllo super partes della legalità delle decisioni assunte, di nessun collegio giudicante a norma di legge, tanto meno ovviamente dell’approvazione preventiva dei suoi governati, divenuti infine, in una sorta di colossale e grottesca regressione antropologica di massa, sudditi di un altro imperatore, ben più sofisticato ed efferato di tutti quelli che lo hanno preceduto.
Si tenga presente alla mente, infine, un altro dirimente dettaglio, probabilmente sempre esistito nella storia del capitalismo occidentale, ma venuto oggi drammaticamente in primo piano soprattutto negli Stati Uniti, la cuspide del resto della piramide imperialistica mondiale odierna e dunque in grado di additare a tutte le altre nazioni il modello da seguire. I funzionari di vertice delle grandi banche statunitensi, della grande finanza e di Wall Street, in simbiosi a loro volta con le Giant Firm industriali americane, civili e militari, si trovano direttamente all’interno delle istituzioni dello Stato e occupano posizioni preminenti di potere nell’organigramma dell’esecutivo Bush. Di fatto, come è ormai ampiamente documentato, sono al governo di tutti i ministeri che controllano l’economia statunitense e planetaria, e di conseguenza decidono in prima persona le strategie da adottare nei confronti tanto delle congiunture ed eventuali emergenze metropolitane (presunta crisi dei subprime, inflazione, disoccupazione, ecc.), quanto dei paesi e delle aree geografiche continentali che rientrano nella sfera d’influenza della potenza USA oppure che sono a quest’ultima esterne, ma comunque (s)confinanti con il suo raggio d’azione. Da questo punto di vista, sia è caduta qualunque linea di confine, se mai ve ne è stata una, tra le diverse frazioni della classe dominante, tra gli strati più alti di quest’ultima e il suo personale politico, sia le élite dirigenti gestiscono adesso in prima persona e deliberatamente le attività criminali del potere informale sottostante alla finzione democratica, divenuta ormai un vero guscio vuoto in parte decisamente trasparente (almeno per chi ha gli occhi per vedere).


7. Una conclusione per iniziare

In guisa d’inizio del tutto provvisorio, si potrebbe forse dire che gli argomenti esposti rappresentano tutto sommato, oltre che un’analisi di alcuni problemi ritenuti preminenti, anche un programma di studio ambizioso e di lunga durata. Per poter anche solo sperare di riuscire a portarlo in porto c’è bisogno di un lavoro collettivo. Per poter fare politica e insieme produrre conoscenza, due lati di una sola attività in fin dei conti, bisognerebbe lavorare in équipe o quanto meno in modo coordinato, stabilendo di dar vita a dei simposi o forum permanenti - uno o due all’anno - in cui ritrovarsi e discutere assieme dei risultati conseguiti da ciascuno nel frattempo.
Tali agorà impopolari, da noi così provvisoriamente definite per demarcarle da tutto il resto, dovrebbero poter dar vita alla formazione di un nuovo modo di ragionare. Nuovo in tutti i sensi. Per lo stile innanzitutto: fine dei discorsi ex cattedra, di ogni ricorso a presunte autorità (alla larga dai maître à penser!), di ogni narcisismo intellettuale (tanto arrogante quanto “nulla dicente”, per citare una battuta al vetriolo di Totò). In una formula, dialogo per la formazione di una nuova mente collettiva, in cui tutto viene discusso e dimostrato (o anche non provato, se del caso) alla luce della solidità e originalità degli argomenti addotti. Per gli oggetti inediti messi al centro dell’analisi. Per le differenti interpretazioni del mondo fatte emergere. Per le categorie con cui ci rendiamo intelligibile la realtà. Per l’originale distinzione rispetto a tutta la cultura, professionale e professorale insieme, tipica della società capitalistica.
Già questa sarebbe una nuova forma politica di conoscenza. ► Ogni condotta pratica (di movimento, di opposizione, di contrasto delle decisioni assunte dai dominanti, ecc.) e ogni agire volontario diventano infatti, diversamente da quanto di solito si pensa ancora oggi, cieco pragmatismo dell’esperienza, muto dal punto di vista della comprensione delle cose, se prima non hanno alle loro spalle una chiara interpretazione del reale. ►(E che cosa è stata tutta la storia del PRC, dal 1989 in avanti, al di là dei personalismi e delle pose da casta del suoi funzionari e amministratori, se non un luminoso esempio di tale pragmatismo senza principi? Un’identità senza personalità. Finita come è finita. Semplicemente pietoso. Ma insieme esemplare ed eminentemente didattico, assolutamente da non imitare).◄ Da questo angolo visuale, inoltre, analisi e discernimento del mondo odierno, differentemente da quanto si è sempre creduto e probabilmente si crede tuttora, non rappresentano affatto le ancelle o i presupposti intellettuali dell’azione ragionata tesa alla trasformazione della realtà, né dei suoi eventuali istituti organizzativi. Piuttosto sono politica in forma cognitiva e costituiscono l’humus su cui solo può crescere un agire consapevole e scientemente finalizzato al raggiungimento di dati scopi. Nella chiusura ricorsiva della conoscenza caldeggiata dalla scienza odierna e nel definitivo tramonto del vecchio materialismo ontologico, quella antica dicotomia, diventata quasi un luogo comune nella storia del movimento operaio internazionale, non ha più senso e deve essere abbandonata se vogliamo intraprendere nuove vie della conoscenza, incomparabilmente più originali e sofisticate di tutte le precedenti. Se farlo significa dar vita ad una sorta di rivoluzione antropologica, quanto meno nel regno della mente, ebbene non ci resta che affrontare tale periglio. Il tempo ci dirà se avevamo ragione.

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