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Global Compact for safe, orderly and regular Migration
La grande pianificazione e il diritto internazionale privatizzato
di Francesco Maimone
“Dobbiamo consentire ai migranti di diventare membri a pieno titolo delle nostre società evidenziando il loro contributo positivo”
(Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration)
1 In questi giorni sta tenendo banco sui Social e nei media il tema riguardante l’approvazione del Global Compact for Safe, Orderly and Regular migration (per brevità, GCSORM), ovvero l’accordo promosso in sede ONU e che sarebbe finalizzato a dare una risposta globale al fenomeno della migrazione. Tra le voci che si sovrappongono a favore e contro detto accordo, sembra soprattutto passare inosservato il fatto che il GCSORM non è una misura estemporanea partorita improvvisamente dal nulla, ma costituisce un documento inserito in una logica e ben congegnata “sequenza procedimentale” per dare specifica attuazione ad un disegno molto più vasto che l’Ordine sopranazionale dei M€rcati ha tracciato già da tempo.
2 In questa sequenza, ed evitando di risalire troppo nel tempo (per esempio, alla International Conference on Population and Development tenutasi nel lontano 1994 al Cairo), bisogna innanzi tutto prendere le mosse dalla distopica volontà di “trasformare il nostro mondo” contenuto in quel capolavoro cosmetico chiamato “Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” adottata all’unanimità (quindi anche con il contributo del rappresentante italiano pro tempore) dall’Assemblea Generale dell’ONU con Risoluzione del 25 settembre 2015, entrata in vigore il 1° gennaio 2016 e che ha il compito di orientare i successivi sviluppi per i prossimi 15 anni. Come risulta da documenti parlamentari, l’Agenda “ha sostituito i precedenti Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals) che avevano orientato l’azione internazionale di supporto nel periodo 2000-2015”. La nuova Agenda globale si propone, in particolare, di raggiungere i seguenti 17 obiettivi pubblicizzati alla stregua di un nuovo e meraviglioso paese di Bengodi, obiettivi ai quali sono associati “169 traguardi … che sono interconnessi e indivisibili” (così al punto 18, pag. 6, dell’Agenda):
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Perché dopo la crisi del 2008 l’agenda neoliberale è ancora dominante?
di Massimo De Minicis
La crisi del 2008 ha dimostrato che le politiche economiche mainstream sono dannose e fallimentari, ma la “retorica” neoliberale riesce ancora dominare il dibattito e le istituzioni e ad imporre pericolosamente la sua agenda
Dalla metà degli anni ’90, nel sistema a capitalismo avanzato, una crescente interdipendenza e accresciuta competizione tra le nazioni, identificata nel concetto teorico della globalizzazione ha determinato le basi concettuali per identificare nello stato sociale del periodo post-bellico europeo un lusso non più sostenibile: “nel dibattito svedese, è normale ritenere che l’egualitarismo degli anni ’70 non sia sostenibile e che l’uguaglianza debba, in una certa misura, essere sacrificata sull’altare dell’efficienza” (Crouch, Streek 1996).
Negli stessi anni gli ambienti politici dell’Unione europea hanno rappresentato un costante discorso teorico secondo cui la globalizzazione esponeva i paesi comunitari ad una serie di sfide di fronte alle quali dovevano essere riorganizzate le modalità di governance del welfare e del sistema delle relazioni industriali. Ciò sembra aver determinato una serie di vincoli esterni per le forme istituzionali prodotti attraverso un processo di persistente normalizzazione di tali presupposti teorici. Si è andata, così, consolidando una sorta di traiettoria neoliberale (Baccaro, Howell, 2011) che ha percorso anche i processi di integrazione europea per rispondere in maniera efficace agli imperativi dell’economia globale. Procedendo a rideterminare il peculiare “modello sociale europeo” emerso e consolidatosi nel primo dopoguerra (Hay, 2003). Una serie di posizioni ideali, che prefiguravano nella variante neoliberale di integrazione comunitaria la forma migliore per rispondere ai nuovi imperativi economici, hanno assunto effetti costrittivi e vincolanti per le società europee in assenza di manifeste conferme empiriche: “gli effetti reali dei discorsi economici sulla globalizzazione sono qualcosa di indipendente dalla veridicità delle analisi” (Hay, 2001).
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I gilets jaunes e la soggettività al tempo della crisi
di Franco Romanò
Il documento presentato dai Gilet jaunes alla stampa merita una grande attenzione perché è la prima volta che un movimento di tale ampiezza e consenso sociale arriva alla formulazione di un’agenda politica di rivendicazioni che vanno molto aldilà della causa efficiente che ha dato vita al movimento e cioè le accise sui carburanti le tasse cosiddette ecologiche. L’interesse sta proprio in questa relazione fra una lotta e una piazza reali e non immaginarie, virtuali o di pura opinione e un’agenda politica ampia che nasce nel contesto di quella lotta. Nel merito dei 41 punti presentati due giorni fa in conferenza stampa e che pubblico alla fine di questa riflessione, ognuno potrà farsi una propria idea. Credo sia utile, invece, discutere una questione preliminare e cioè quale tipo di soggetto s’è affacciato improvvisamente nel cuore dell’Europa, con un’azione politica di massa, diffusa e dirompente e circondata dal consenso da parte di un popolo forse meno afflitto di altri da cretinismo legalitario, per ragioni storiche. La questione è prioritaria perché di lotte ne esistono un po’ ovunque in Europa e nel mondo e anche in Italia: dalla nuova ondata mondiale dei movimenti femministi, alle lotte territoriali, dalle fabbriche recuperate e occupate agli scioperi nel settore della logistica e dei riders o a forme più tradizionali di conflitto operaio piuttosto che le mobilitazioni di studenti e insegnanti. In che cosa consiste la diversità del soggetto dei gilet jaunes e anche del tipo di soggettività che si è espresso in Francia in queste quattro settimane? Senz’altro la difficoltà di ricondurlo a categorie certe o almeno note, il che ha messo in crisi un po’ tutti. Lasciamo perdere chi me parla come di un movimento delle classi medie impoverite o addirittura della piccola borghesia e crede con questo di avere chiuso il problema: sono gli stessi che hanno preteso per decenni di sostenere che la lotta di classe era un residuo del passato e poi si scoprono a dare risposte sociologiche classiste del tutto fuorvianti e ridicolmente superficiali.
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La frammentazione del lavoro
di Francesco Ciafaloni
Nel corso della sua esistenza terrena, un’idea, sempre e dovunque, opera contro il suo significato originario e perciò si distrugge.
Marianne Weber, Max Weber: A Biography
1. La situazione presente
La frammentazione del lavoro, la sua rarefazione, è sotto gli occhi di tutti. Non è svanita solo la fabbrica tayloristica; sono sparite le aziende come enti giuridici che tengono insieme progettazione, produzione, vendita, gestione del personale, contabilità, come era normale qualche decennio fa. Non solo le piccole aziende fanno gestire la contabilità all’esterno, ma ciò che resta delle aziende grandi è tenuto insieme solo dal marchio e dal controllo finanziario. I singoli stabilimenti possono essere entità autonome, con contratti diversi. Sotto lo stesso tetto, a contatto di gomito, ci sono lavoratori impegnati nella stessa attività produttiva che dipendono da aziende diverse, mentre lo stesso gruppo o conglomerato, lo stesso ente finanziario, può svolgere le attività più disparate.
Molti lavori non sono scomparsi, si sono solo spostati dove il lavoro viene pagato poco o nulla. Anche lavori in cui la lingua è fondamentale, come i call center, vengono trasferiti dove ci sono abbastanza lavoratori in grado di parlare la lingua del paese destinatario. Vale anche per lingue non veicolari, come l’italiano. Lo sappiamo dai giornali, per le vertenze, come quelle di Almaviva, e ce ne rendiamo conto dalle telefonate promozionali non richieste, con un forte accento, che riceviamo.
Si può dire che è il mercato, bellezza! Che è la globalizzazione. Che così va il mondo e a questo dobbiamo abituarci; che così le merci e i servizi vengono prodotti in modo più efficiente, che costano di meno; che se molti posti di lavoro si distruggono con l’automazione e l’informatica, molti altri, più qualificati, se ne creano. È il capitalismo, la distruzione creatrice!
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Il paradosso del doppio legame UE
di Nicoletta Forcheri
Funziona così, l’ingiunzione paradossale. Amami, detto con voce di odio. Abbracciami, detto con le braccia incrociate. Oppure: Aumenta il PIL! Detto con l’ordine di ridurre il deficit/pil e la spesa pubblica netta!
L’Italia si trova sotto ingiunzione paradossale, in quello che gli psicologi chiamano il doppio legame. Io lo chiamerei doppio cappio. Doppiamente illegittimo: anticostituzionale e anti trattati UE. Per uscirne basta evidenziarne il paradosso e la contraddizione di chi, dall’UE, ingiunge ordini cinici e schizofrenici.
Premesso che dai Trattati firmati, come Maastricht in primis e MES, che prevedono un rapporto debito/PIL 60% e un deficit/PIL di massimo il 3%, niente si evince della legittimità dell’obbligo di rimanere sotto il 2% del rapporto deficit/PIL.
Non contenti, i nostri politicanti hanno firmato il Fiscal Compact nel 2012, in Italia con un governo NON eletto, Monti dopo il golpe a Berlusconi, anzi illegittimo e dichiarato tale dalla Corte costituzionale. Il Fiscal Compact, è un trattato aggiuntivo NON inserito nel corpo dei trattati UE e TFUE e a cui, ad esempio, la Repubblica ceca e la Gran Bretagna non hanno aderito. Così come è stato sottoscritto, può senza problemi essere rescisso, a differenza dei trattati UE, la cui revoca è più complessa, non per questo non auspicabile né impossibile, almeno da Maastricht in poi.
Noi abbiamo aderito in situazione di scacco, ricatto e golpe politico: il governo Monti che, ripeto, era illegittimo. Sempre con questo governo imposto dall’alto, è stato adottato dal Parlamento, lo sfregio alla Costituzione nell’articolo 81 con l’obbligo di pareggio di bilancio nei conti pubblici. Sempre il Fiscal Compact (1), introduceva l’obbligo, più severo ancora rispetto ai criteri di Maastricht e al Trattato di Stabilità che istituiva il MES nel 1997, di ridurre di 1/20 l’anno il rapporto debito/PIL.
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Gilet gialli, rossi e Negri
di Militant
Dopo un mese di mobilitazione, è ormai luogo comune entusiasmarsi per le vicende francesi. Se invece del sostegno politico ci spostassimo sulla riflessione cosciente, la cosa meno improbabile è stata scritta da Toni Negri (L’insurrezione francese). Dal punto di vista politico, però, occorre sgomberare il terreno dalle parodie deliro-marxistiche che, come quasi sempre, corrono in soccorso del potere costituito: “non è una rivolta di classe”, ammoniscono solerti difensori di ogni status quo. Come se nelle rivolte di classe fosse mai apparsa, in qualche angolo della storia, quella purezza alla quale tali pensatori rimandano: «si comincia, poi si vede», diceva Lenin riprendendo Napoleone. Ed è dentro questo spirito che tutte le forze rivoluzionarie si sono sempre mosse: nell’occasione, che non è né predeterminata né socialmente definita. Fatta dunque la premessa che in una rivolta politico-sociale ci si sta fino a che la finestra di possibilità rimane aperta, anche fosse un solo spiraglio, se al contrario volessimo tentarne un’analisi occorrerebbe frenare i facili entusiasmi che circolano ormai in tutte le gradazioni della politica, da Forza Italia all’estrema sinistra (esclusa, come detto, la parodia gendarme celata dietro prose marxiste).
E qui Toni Negri coglie nel segno. Negri non ha l’entusiasmo del neofita, che si impressiona di ogni simulacro di rivolta sociale. Riconosce che lo spazio «dell’insurrezione», come lui la definisce, va lasciato aperto, va allargato e organizzato, più che richiuderlo attraverso scomuniche libresche. Eppure ci sono fattori particolari alla base di una rivolta simile che vanno tenuti in considerazione. Questa è una rivolta che ha ragioni generali, legate al processo di straordinario impoverimento determinato dalla fase neoliberale, ma ha anche ragioni specifiche, «francesi», che la rendono difficilmente replicabile altrove. Partiamo dalle ragioni generali.
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C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico
La République en marche ... jaune
di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=AH0Fl09RG-E https://vimeo.com/305306130 (Torino No Tav)
https://www.zerohedge.com/news/2018-12-08/paris-lockdown-watch-live-hundreds-arrested-tear-gas-deployed-during-fourth-week?mc_cid=6e7bf29f37&mc_eid=741abab6a2 (Parigi, Gilet Jaunes, 4. Giornata)
Terrorismo di distrazione di massa
Sempre più grossolani, sempre più faciloni. Tanto c’è la rete mediatica sotto gli spericolati. In Francia è in atto un’insurrezione che, dopo aver bloccato e sconvolto il paese per un mese, non si ferma. Un’insurrezione approvata dai due terzi dei francesi, non di classe, ma di popolo che si è fatto, è stato fatto fare, proletariato. Un’insurrezione che si vuole limitata al rifiuto di un aumento dei prezzi, ma che si è rivelata contro il governo, l’Unione Europea, il neoliberismo, il colonialismo interno ed esterno. Tutti gli occhi, malevoli e benevoli, sono puntati su questo fenomeno di massa dai tratti epocali.
Tutti gli occhi, al quinto giro della lotta, si spostano, vengono diretti, verso Strasburgo, dove, naturalmente, il solito pregiudicato radicalizzato (ricostruito in carcere), naturalmente sotto osservazione per sospetto di terrorismo (!), con la casa piena di granate perquisita il giorno prima (!), assediato in un palazzo e, naturalmente, per miracolo fuggito, fa una nuova strage terroristica, naturalmente in pieno milieu natalizio, di pace e festa, e naturalmente qualcuno lo ha sentito urlare “Allah–U-Akbar”, talché nessuno pensasse che fosse un terrorista basco, o ceceno, o delle FARC, o laico. Naturalmente raccapricciante. Spazza via da occhi, orecchie, coscienza, riflessione, ogni altra cosa, anche la più grossa. Così, ratatatatà-clang!, è scesa la saracinesca su un mondo che, come per altri versi aveva cantato Ivan Della Mea mezzo secolo fa pensando a Mao, da rosso si era fatto giallo.
Repetita juvant
Macron era al 23% dei consensi. Hollande era messo anche peggio quando capitarono Bataclan e affini. In Belgio lo scazzo al vertice è tale che non si riesce più a mettere insieme un governo: ed ecco una bella raffica di attentati.
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Perché il ’68 è stato sconfitto
di Eros Barone
La borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all'ovile.
Antonio Gramsci
Non c’è eredità senza eredi, non si è eredi se non si sa di esserlo e se non ci si situa in prospettiva fra un ieri e un domani, un donde e un dove.
Franco Fortini
Un quesito che spesso mi viene posto dai giovani che conosco è quello concernente le ragioni della sconfitta del ’68. Proverò ad abbozzare una risposta nelle note che seguono.
In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana, che ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc.
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Valori occidentali, valori cinesi e valori universali
di Maria Morigi
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Nel gennaio del 2015 il Ministero dell’Istruzione cinese annunciava l’intenzione di bandire dalle aule universitarie i materiali d’insegnamento che “diffondevano i valori occidentali”.
Le autorità cinesi erano dunque ostili nei confronti dell’occidentalizzazione? Ci si chiede anche se in Cina è riconosciuta una sorta di equivalenza tra valori occidentali = valori liberali, ovvero princìpi di governo e ideali politico-sociali, quali libertà, uguaglianza, autonomia individuale e autogoverno repubblicano, con cui l’Occidente definisce la propria identità liberale e democratica. O forse i valori occidentali erano incompatibili con la “grande rinascita della nazione cinese” con cui erano stati promossi i “valori cinesi”?.
La stampa ufficiale intervenuta tempestivamente (Vedi Guangming online:
“Cosa c’è di sbagliato a non far circolare i valori occidentali nelle università socialiste”, 31-01-2015) chiariva: “I valori occidentali principalmente si riferiscono, nella Cina di oggi, alle idee errate provenienti dal mondo capitalista occidentale e in particolare a quelle idee e valori politici propagandati dai paesi capitalisti occidentali rappresentati in primis dall’America, come la democrazia costituzionale, i valori universali, la società civile, il neoliberalismo, il nichilismo storico…”.
Per capire le dimensioni del problema dobbiamo fare molti passi indietro, perché in Cina la storia contemporanea –a partire dalle Riforme dei 100 giorni (1898) dell'imperatore Guangxu- è segnata da un lato dalla promozione dell’occidentalizzazione, che chiedeva una costituzione e un parlamento per garantire ai cinesi uguali diritti e doveri e per partecipare alla costruzione della nazione; dall’altro lato è segnata dalla difesa dei valori autoctoni. Tale contesa culturale e ideologica era motivata dall’aspirazione a creare un moderno sistema democratico, pur assecondando l’esigenza di conservare un sistema autocratico che fosse espressione della tradizione cinese di Stato-civiltà.
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Fazi e Mitchell, “Sovranità o barbarie”
di Alessandro Visalli
Un libro importante e coraggioso, che affronta alcuni dei nodi fondamentali oggi davanti ai nostri occhi e che bloccano la nostra azione, costruito con un profondo sguardo storico e capace di ripercorrere in poche e dense pagine gli snodi che hanno costituito il presente. Il presente come storia, dunque.
A me pare che una delle chiavi interpretative del testo sia da rintracciare nella dialettica delle durate, proposta da Braudel nel 1949[1], tra increspature superficiali, movimenti lenti dati dalle trasformazioni dei rapporti di produzione e mutamenti del sentire collettivo ed evoluzioni tecnologiche[2], e, al fondo, trasformazioni del sistema naturale, lentissime ma potenti. Quel che compiono gli autori, per gran parte del testo, è quel che Cervantes[3] chiama scrivere di storia, “madre della verità”. Storia, cioè, come verità narrata; non ciò che avvenne, ma ciò che giudichiamo essere avvenuto[4]. Una narrazione nella quale compare il problema del nesso tra la volontà dei singoli, nella loro interazione reciproca, e i fattori determinanti inerenti le ‘durate’ più lente, le strutture nella loro dialettica. Quanto valgono i piani dei capi nello svolgimento di una battaglia? Quanto conta che Kutuzov si addormenti mentre altri fanno complessi piani in “Guerra e pace”[5]?
Ancora più, la storia narrata da Fazi e Mitchell è storia militante; serve, la loro narrazione, a scopi evidenti nel testo. Ma il pathos narrativo che appare evidente in ogni pagina (con la loro partecipazione emotiva e la tensione morale) è esso stesso strettamente parte della storia narrata. Perché, come sostengono gli autori, questa storia, la sua verità, ci riguarda e ci contiene.
Si sta parlando dunque del nostro presente, incorporato nell’imperialismo dell’economico e nella onnipresenza di una dinamica di contrazione (e di espansione per pochi privilegiati) che origina nella ‘crisi’ degli anni settanta. O meglio, come scrivono, “almeno” degli anni settanta.
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Il movimento dei “gilet gialli”
di Il Pungolo Rosso
Abbiamo selezionato dei materiali sul movimento dei “gilet gialli” in Francia per i visitatori di questo blog (che riprendiamo dal sito alencontre.org, su cui è presente un’ampia e aggiornata documentazione).
Il primo è un articolo di Alain Bihr, che consideriamo l’analisi più attendibile della composizione di classe del movimento e della sua essenziale spontaneità, e un’altrettanto attendibile presa d’atto della distanza da esso della sinistra liberal-democratica o riformista, ma anche di buona parte della sinistra sindacale e politica che si professa anti-capitalista (questo, a prescindere dal concordare o no con le sue indicazioni e raccomandazioni politiche). Il secondo è un elenco delle rivendicazioni emerse dai diversi comitati (che hanno differenti composizioni sociali).
Questo movimento è partito da una rivendicazione assai limitata (e certo inter-classista) riguardante l’aumento del prezzo del carburante, e ha poi espresso, nel corso del suo ampliamento e della sua radicalizzazione, una serie di rivendicazioni che rispecchiano in pieno il malessere, la rabbia, le aspettative e le istanze di strati sociali appartenenti a due distinte classi sociali (classe lavoratrice/proletariato, piccola borghesia).
E’ un movimento meno ampio di quello contro la Loi Travail, ma più arrabbiato, almeno finora più determinato, se è vero che non è arretrato davanti ad una repressione statale massiccia e non ha ceduto alle prime avances del governo e di Macron. Ma è certamente minato al suo interno da questa eterogeneità originaria, dato che non esistono le indistinte “moltitudini”, né gli indistinti “popoli” evocati dai “sovranisti”. Proprio su questa eterogeneità fa leva l’establishment per provocarne il rinculo e lo sfaldamento.
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La scienza degli “ignoranti” e quella dei “sapienti”. Ovvero, dove sta la vera indigenza cognitiva
di Francesco Coniglione
È interessante fare un’analisi delle reazioni che si hanno su Facebook [questo thread, per esempio] quando si vengono a toccare temi particolarmente impegnativi e che si riferiscono a convinzioni profondamente radicate nei lettori. È quanto accaduto – dopo il mio primo articolo su “Scienza, antiscienza e Barbara Lezzi” – al secondo articolo sull’ignoranza, la scienza e il burionismo: si leggono sulle pagine di FB e nei commenti al post un certo numero di argomenti e atteggiamenti ricorrenti che sarebbe superficiale non prendere in considerazione. La prima cosa che salta agli occhi è che una parte dei lettori esibisce il comportamento del toro cui si sventola davanti il drappo rosso: appena si toccano certi capisaldi delle loro convinzioni gli scatta la compulsione da tastiera e scrivono commenti più o meno piccati, ma che spesso hanno in comune la caratteristica di aver letto male o di aver poco capito (o a volte di non aver letto affatto) quanto è stato scritto. Questi rappresentano quella che si potrebbe definire la “minoranza rumorosa”: la gran parte delle persone che ha letto l’articolo e lo ha condiviso non ha bisogno di argomentare la propria condivisione (gli argomenti sono contenuti già in ciò che si condivide, li si fa propri) e così esprime di solito il proprio apprezzamento che con un “like”. Mentre chi invece non condivide, sente il bisogno di dirlo (non esiste un “I don’t like”), e spesso di urlare la propria disapprovazione. Così, se vogliamo fare i conti, i “critici critici” sono molto più visibili ma in effetti sono spesso una sparuta minoranza rispetto a coloro che hanno “likeizzato” e condiviso, almeno in parte, un articolo.
Inoltre risulta ovvio che ciascuno ha una sua posizione peculiare e che non si può essere d’accordo su tutto. Così nelle risposte io, come anche De Nicolao, abbiamo criticato chi ripete sempre le stesse obiezioni, dimostrando di non aver ben letto quanto scritto oppure scambiando il fuscello per la trave.
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La controrivoluzione del capitale umano
di Daniel Blake
La costruzione del capitalista umano è l’obiettivo delle politiche del workfare. A partire dal libro Capitale Disumano di Roberto Ciccarelli, una riflessione sulla radice teorica delle politiche attive e sulla loro funzione di disciplinamento della forza lavoro
Quelle che seguono sono brevi riflessioni a partire dall’ultimo libro di Roberto Ciccarelli, Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (manifestolibri, 2018, pp. 222, € 16). Un testo che propone un’efficace critica della nozione beckeriana di capitale umano, incardinata all’interno del paradigma neoliberale delle politiche attive. Sin dalle prime pagine si chiarisce che a sperimentare l’alternanza scuola lavoro non sono solo 1,5 milioni di studenti obbligati a partecipare a questo programma (introdotto in Italia nel 2015), ma complessivamente l’intera forza lavoro sempre più spesso incentivata, o talvolta obbligata, a muoversi tra continui momenti di accumulazione di competenze e occupazioni precarie.
Affrontare la critica del capitale umano all’incrocio con le politiche attive ha una serie di vantaggi, tra cui quello di individuare le istituzioni del welfare che contribuiscono a fabbricare socialmente il «capitalista umano». Secondo questa prospettiva, il capitalista umano smette di essere il prodotto spontaneo di una serie di dispositivi economici, sociali, culturali, simbolici – come talvolta viene superficialmente presentato anche in una certa letteratura critica – per diventare il risultato di politiche di workfare che regolano il funzionamento del mercato del lavoro in tutte le economie avanzate.
Proviamo a interrogare il libro a partire da una specifica domanda: all’interno di questo ciclo reazionario globale come stanno cambiando i programmi di politica attiva e come vanno trasformandosi in particolare i dispositivi workfaristici di costruzione del capitale umano?
L’active labour market policy e le teorie del capitale umano
Quando in genere si parla di politiche attive ci si riferisce a un complesso sistema di politiche pubbliche che oltre a promuovere la formazione o altri interventi più rivolti al capitalista umano, hanno complessivamente lo scopo di aumentare i tassi di attivazione nel mercato del lavoro.
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Gilets Jaunes, Macron e i ritardi della sinistra
di Lorenzo Battisti
Pubblichiamo come contributo alla discussione
Il movimento dei gillet gialli, che ha attraversato la Francia nell’ultimo mese ha avuto una grossa eco anche in Italia, accompagnata come sempre da disinformazione e da superficialità. Il movimento è espressione della Francia socialmente periferica. E se rischia di cadere a destra, è solo grazie ai ritardi della sinistra.
L’ecologismo di classe del presidente dei ricchi
Il movimento prende il via da una protesta contro la tassa ecologica sui diesel, volta a finanziare il passaggio ecologico verso automobili meno inquinanti. L’idea di Macron era quella di prelevare dai cittadini che utilizzano auto inquinanti (diesel in particolare) per finanziare il passaggio ad auto elettriche e ibride, con finanziamenti di 4 o 5000 euro per chi avesse acquistato una di queste automobili.
Il problema è che, sotto la patina ecologica, si celava l’ennesima manovra di classe. Chi utilizza queste vecchie auto inquinanti (un tempo peraltro ritenute meno inquinanti di quelle a benzina in termini di Co2) sono cittadini che si trovano in difficoltà economiche e che non possono quindi acquistare auto nuove. Neanche con gli aiuti promessi dal Presidente: anche con 5000 euro di finanziamenti, se ne hai meno di 1000 euro sul conto, non ci fai niente. E, al contrario di quelli che vivono nei centri urbani, non puoi sfoggiare il tuo lato ecologico andando in bici al lavoro e non ci sono metro o servizi pubblici adeguatamente flessibili e veloci da essere un’alternativa all’auto.
L’aumento delle accise si trasforma quindi semplicemente nell’ulteriore imposta sul consumo, che come tutte le imposte indirette (come l’Iva) pesa proporzionalmente di più sui redditi bassi, che hanno percentuali di risparmio più basse e che quindi ne portano il peso molto più dei ricchi. E in più, il gettito sarebbe stato usato per finanziare l’acquisto di auto da parte di chi di soldi li ha. Una vera e propria redistribuzione verso l’altro.
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A lezione da Keynes, ripensando la macroeconomia
Recensione de “La scienza inutile” di F. Saraceno
di Daniela Palma
Francesco Saraceno: La scienza inutile: Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia,Luiss University Press (2018), https://www.luissuniversitypress.it/pubblicazioni/la-scienza-inutile
Tra le conseguenze della crisi che ormai da un decennio sta attraversando l’economia mondiale, non si contano solo fallimenti finanziari e una diffusa stagnazione delle attività produttive. Lo stupore con cui la regina Elisabetta nel novembre del 2008 chiedeva ad autorevoli professori della London School of Economics come mai nessuno fosse stato in grado di prevedere un evento di proporzioni così rilevanti, ci ha avvisati infatti della crisi che stava per investire la scienza economica corrente e segnatamente la macroeconomia. Bene fa perciò Francesco Saraceno con il saggio “La scienza inutile” a lanciare la sua provocazione, per poi subito precisare che si può imparare dall’economia (e molto) purché la si legga con le lenti giuste.
Quella compiuta dall’autore è innanzitutto una scelta di metodo, che però va diritta al merito delle risposte che l’economia intesa come scienza è in grado di fornire. Ed è proprio questo il punto in cui si incardina tutto il ragionamento di Saraceno. Va ricordato infatti che i fenomeni economici non sono l’espressione di “leggi universali che regolano il comportamento umano”, ma si inquadrano in contesti storicamente determinati che condizionano nel tempo e nello spazio l’agire dei diversi soggetti. Respingendo l’approccio storico, la teoria economica tuttora dominante si rifà ai principi della cosiddetta scuola neoclassica, secondo la quale il sistema economico è l’espressione delle scelte ottimizzanti di individui razionali e tende a convergere verso uno stato di equilibrio di piena occupazione delle risorse.
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I gilet gialli. Modernità “à la Macron”, democrazia diretta e ideologia
di Maurizio Gribaudi
Rilanciamo un articolo uscito per storiamestre.it a proposito delle lotte dei cosiddetti “gilet jaunes”, di Maurizio Gribaudi, direttamente da Parigi, . Questo è il primo di una serie di interventi sul tema che Effimera ospiterà, quale occasione di approfondimento riguardo a delle proteste tanto discusse quanto facilmente liquidare e liquidabili nei dibattiti correnti
1. Ecco che persino la Francia, a quanto sembra, comincia a imboccare le stesse strade percorse dai vari demagoghi che hanno occupato la scena pubblica in molte democrazie occidentali. Con uno slancio tanto forte quanto inedito, i messaggi lanciati in rete da cittadini e cittadine disperati hanno dato vita a un movimento nazionale che scuote la maggioranza di governo e preoccupa, a ragion veduta, la Francia umanista e libertaria, inquieta per gli sviluppi che questo movimento potrà avere. Infatti, dietro la massa indistinta dei gilet gialli, alcuni credono di scorgere i foschi contorni della destra conservatrice e reazionaria e dei populismi.
In un contesto del genere, c’è davvero molto su cui interrogarsi. La Francia si sta forse accodando, inesorabilmente, a Orban, Putin, Trump, Salvini, agli inglesi della Brexit o ancora al sinistro Bolsonaro? Interpellato direttamente dai manifestanti, il presidente Emmanuel Macron ha risposto con un messaggio che voleva essere allo stesso tempo fermo e rassicurante. Fermo nell’ostentata certezza di non aver commesso né «errori strategici di governo» né «errori di fondo», e quindi di non dover fare alcun «cambiamento di rotta». Rassicurante nella promessa di impegnarsi, nei mesi a venire, a «riconciliare il popolo francese con i suoi dirigenti».
Eppure il suo messaggio contiene tutte le aporie insite nella visione del presidente, come del resto in quella della quasi totalità dei responsabili politici delle democrazie occidentali.
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Accendiamo una luce sul TAV Torino-Lione?
di Aldo Zanchetta
Cosa sanno gli italiani del Treno Alta Velocità Torino-Lione? Ah no, scusate, del “treno trasporto ad alta intensità di merci” Torino–Lione?
Come, non lo sapevate che è questa in realtà la natura del progetto. L’alta velocità (di trasporto passeggeri) è servita a eccitare la fantasia di quegli italiani, tanti sia destra che a sinistra, ammaliati dal mito del Progresso e dello Sviluppo. Alta intensità di trasporto merci che richiede binari diversi, atti a sopportare grandi carichi, rispetto a quelli per l’alta velocità dei treni passeggeri. Due cose fra loro incompatibili sullo stesso binario.
Ho scritto “progetto” e non “realizzazione in corso”. Anche qui l’informazione corrente ha confuso le idee. Sospendere un “progetto” è ben diverso, dal punto di vista finanziario, che sospendere dei lavori in corso, specie se già avanzati. A parte una serie di lavori accessori, fra i quali il tunnel geognostico di Chiomonte (6 mt di diametro e 7 km di lunghezza; sul significato di questa parola oscura tornerò), nessuna opera di scavo del tunnel è stata fino ad oggi appaltata (sta per esserlo, però) e quindi in caso di cancellazione non c’è nessuna penale da pagare, a nessuno, né alle imprese, né alla controparte francese, solo 500 milioni di euri all’Unione Europea, nulla rispetto ai tanti miliardi per la realizzazione di un progetto inutile, che verrebbero gettati al vento (o meglio, in conti correnti bancari ben precisi).
Inutile trasportare le merci? Ma lo sviluppo, il PIL? Allora iniziamo a vedere meglio le cose.
L’idea di una nuova linea ferroviaria Torino-Lione nacque all’inizio degli anni ’90 del secolo passato nei salotti di casa Agnelli, i grandi patron di Torino. Cioè quasi trent’anni or sono. Coi tempi che corrono 30 anni sono un’eternità. Si prevedeva un ingente aumento di traffico merci con la Francia per cui la linea ferroviaria esistente sarebbe stata presto saturata (ma nessuno ha mai visto le carte su cui era basata la previsione: solo discorsi, non studi circostanziati).
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Italia: Una questione di tassi di interesse e fiducia
di Sergio Cesaratto
Contrariamente all’immagine usualmente trasmessa nei paesi del nord d’Europa, l’Italia non è un paese fiscalmente dissoluto. In verità, l’Italia ha un record di surplus fiscali primari (i saldi del bilancio pubblico che escludono il pagamento degli interessi) dal 1992; solo la Germania può vantare qualcosa di simile (figura 1). Purtroppo, questa serie ininterrotta di surplus di bilancio è stata accompagnata dal 1995 dalla perdita della competitività esterna nella marcia di avvicinamento e poi con l’adozione dell’euro. Questi due fattori combinati hanno costituito la radice ultima della stagnazione di lungo termine dell’economia italiana, in particolare dell’appiattimento della sua produttività.
Figura 1
Fonte: Cesaratto, Iero (2018)
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Gli investimenti pubblici e il "Partito del Pil"
di Leonardo Mazzei
Dopo le buffonate di Confindustria e soci, è possibile discutere seriamente del piano straordinario di investimenti pubblici di cui ha bisogno l'Italia?
Per una strana congiunzione astrale, più esattamente per un'insolita congiuntura politica, sono tornati inopinatamente di moda gli investimenti pubblici. Peccato che tanti li vogliano solo su misura, ritagliati in base ai loro specifici interessi. Generalmente interessi economici, talvolta accompagnati da obiettivi strettamente politici.
Sta di fatto che, all'improvviso, tutti si son messi a parlare di investimenti. Bene, ma un po' d'ordine va fatto. Parla di investimenti il governo, anche se per ora ha messo in cantiere ben poco. Ma ne parlano pure le sfiatate opposizioni, tanto per dire che il governo non gli sta dando la giusta importanza. Parlano di investimenti gli eurofili d'ogni razza e tendenza, giusto per contrapporli a reddito di cittadinanza e "quota 100", sempre dimentichi però del fatto che gli investimenti pubblici son crollati proprio a causa dell'accettazione di quelle regole dell'ordoliberismo euro-germanico che tanto amano.
Nel nostro piccolo, vorremmo parlare di investimenti pure noi, ma per farlo in maniera adeguata dobbiamo prima mettere i puntini su parecchie "i".
Partiremo allora dal contesto politico, arrivando alle cose serie (il piano di investimenti da fare), solo dopo aver liquidato quelle non serie, rappresentate oggi dal pittoresco "Partito del Pil", una delle più disoneste congreghe messe in piedi dall'inizio del secolo, che pure di buffonate ne ha già proposte diverse.
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L'invasione degli ultratabù
di Il Pedante
Ogni civiltà ha i suoi tabù, perché di ogni civiltà è il sacro. Ciò che è sacro è intoccabile, inavvicinabile, perché in origine maledetto. Scrive Pompeo Festo (De verborum significatione) che l'homo sacer è «quem populus iudicavit ob maleficium... quivis homo malus atque improbus». Tra le etimologie proposte, l'accadico sakāru rimanda appunto all'atto del bloccare, interdire, ostruire l'accesso. In una comunità di persone il sacro postula l'indiscutibile, i riferimenti invalicabili dell'identità e dei valori comuni di norma rappresentati nella sintesi di un simbolo o di una formula rituale. L'ambivalenza del sacro è prospettica: nel tracciare un confine inviolabile discrimina ciò che deve restare fuori - il tabù - da ciò che sta dentro e attorno a cui ci si deve raccogliere - il totem. Il binomio freudiano svela così i due volti del sacro: dove c'è un totem c'è un tabù, e viceversa. Se la Repubblica Italiana si rispecchia nel totem dell'antifascismo, il fascismo è un tabù. Se una chiesa fissa il suo totem nel dogma, i tabù sono l'eresia e la bestemmia che lo negano.
Non si ha notizia di civiltà senza tabù, perché il sacro soddisfa un fabbisogno spirituale che si riscontra ovunque. Sarebbe perciò sciocco credere che i tempi laici in cui viviamo si siano emancipati dal sacro e quindi dai tabù. L'errore nasce dalla confusione di sacer e sanctus, dove il secondo rimanda in modo specifico alla sacralità religiosa. Sanctus è participio passato di sancīre, attestato anche nel significato di interdire, separare, dedicare (a una divinità), accomunato a sacer da una possibile radice comune sak-. La convergenza e quasi sovrapposizione nell'uso dei due termini sembra illustrare un processo che dall'era classica a quella cristiana ha progressivamente «relegato» il sacro nelle cose ultraterrene, con il vantaggio di trattare più pragmaticamente le cose umane e della terra, di schivare cioè il rischio di sacralizzarle rendendole così inconoscibili perché inaccessibili al λόγος. Un rischio che si sarebbe confermato e si sta più che mai confermando reale.
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Uno sguardo indietro
Cosa ha significato realmente la “condivisione del rischio” nell’Eurozona
di Marcello Minenna
In questo post sul Financial Times Marcello Minenna, Responsabile dell’Ufficio Analisi Quantitativa e Innovazione Finanziaria della Consob, spiega, dati alla mano, che l’Italia ha sempre dato all’Unione Europea molto più di quanto ha ricevuto, e che i nostri soldi sono andati a vantaggio dei paesi “core” dell’UE, in primis Germania e Francia, anziché aiutare i paesi della periferia che versavano in difficoltà finanziarie. Ribadire in modo informato questi fatti diventa particolarmente importante oggi, mentre il nostro paese subisce attacchi quotidiani da chi ci accusa di avere “vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e di aver approfittato indebitamente della generosità dell'”Europa”
Uno dei dibattiti ricorrenti dopo l’eurocrisi è stato se gli strumenti di stabilità dovessero servire per condividere il rischio tra gli Stati membri o, al contrario, a isolare il rischio all’interno dei singoli paesi. Mentre nella zona euro si discute – rinviandole – su vere misure di condivisione del rischio, come l’assicurazione europea sui depositi, è importante ricordare cosa è successo quando i rischi sono stati condivisi e chi ne ha effettivamente beneficiato.
Condividere i rischi quando necessario
La narrazione comune è che i programmi di salvataggio avrebbero aiutato paesi in grave difficoltà ad evitare la bancarotta sovrana o fallimenti bancari diffusi. In realtà, nell’evitare tali esiti estremi, questi programmi proteggevano anche le banche dei paesi core – Germania e Francia, in particolare – che avevano accumulato enormi esposizioni verso la periferia prima della crisi. In quel momento, la condivisione del rischio (per quanto sgradevole) era la migliore opzione disponibile per i governi dei paesi core. Li ha salvati dall’intervenire direttamente (a spese dei loro contribuenti) per sostenere i propri sistemi bancari nazionali.
La “condivisione del rischio”, a partire dalla crisi, è sempre stata un “doppio salvataggio”. Un salvataggio per le banche della periferia, che a sua volta offriva un altro piano di salvataggio alle banche del centro.
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Spread, mutui e crisi: come funziona la gabbia dell’Europa
di coniarerivolta
Un recente contributo dell’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard lancia l’allarme: la manovra economica dell’attuale Governo potrebbe rappresentare un caso di espansione fiscale restrittiva. La questione è interessante perché Blanchard, uno dei più autorevoli ed ascoltati economisti mainstream contemporanei è stato, in tempi recenti, sostenitore della necessità di un intervento dello Stato nell’economia, per uscire dalle secche di una recessione come quella nella quale siamo invischiati ormai da dieci anni. Probabilmente tormentato da scrupoli di coscienza e sensi di colpa per avere raccomandato per decenni dosi da cavallo di austerità, Blanchard ha infatti scoperto che i moltiplicatori fiscali possono essere maggiori di 1. Quindi, un euro di spesa pubblica può stimolare la produzione in maniera maggiore dell’euro speso dallo Stato. Volgendo la sua attenzione al corrente dibattito italiano, però, Blanchard mette in guardia il lettore: nonostante il tentativo dei gialloverdi di rilanciare la produzione ricorrendo a spesa finanziata in deficit, la produzione potrebbe addirittura contrarsi. Già questo breve accenno potrebbe farci sospettare che Blanchard sia totalmente fuori strada. Sappiamo, infatti, che la manovra presenterà verosimilmente un 2% del PIL di deficit complessivo. Interpretati correttamente, però, i numeri ci parlano di un avanzo primario (l’ultimo di una lunga serie) di circa l’1.5%: in altri termini, l’ennesima misura di politica fiscale restrittiva e quindi neanche una traccia della politica espansiva di cui Blanchard parla.
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Monti e l’arrivo dell’ “effetto Tsipras”
Il tempio del potere
di Alessandro Visalli
Sul “Corriere della Sera” Federico Fubini ha pubblicato una intervista al senatore a vita ed ex premier Mario Monti nel quale quest’ultimo ha prodotto una serie notevolissima di affermazioni e minacce.
Inizia chiamando “realtà oggettiva” la “realtà internazionale”, con i suoi rapporti di forza e la divisione del lavoro che comporta[1], e quindi apparenza fittizia la condizione materiale nella quale vive la maggioranza del paese, con la quale questo governo, nel bene come nel male, ed in entrambe le sue componenti, è in contatto come non accadeva da decenni, più precisamente ha paragonato lo stato delle forze politiche che dall’opposizione sono giunte nelle stanze dei bottoni (o, meglio, come vedremo, nella sua anticamera) a “l’equivalente politico di una bolla speculativa”.
Leggiamo:
“Vede, credo che le forze che sostengono questo governo non avessero mai avuto veri momenti di confronto con la realtà oggettiva, con la realtà internazionale. Vivevano nell’equivalente politico di una bolla speculativa”.
Cosa succede adesso secondo Monti? Molto semplicemente, che la realtà si è presentata.
“Ora mi pare che l’impatto con la Commissione europea sia stata la prima vera occasione di scoperta della realtà, per politici che avevano in testa solo una propria versione di essa tutta costruita per demonizzare il passato”.
La “realtà” è dunque incarnata nella Commissione Europea, questa ne è il sancta sanctorum.
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Il populismo e il grande complotto rossobruno
di Lenny Benbara
Ormai dall’inizio dell’estate è in corso un’offensiva ideologica per demonizzare quello che è generalmente definito “populismo di sinistra”. Accusata di mescolare le frontiere ideologiche con l’estrema destra, se non addirittura di condurre ad una deriva autoritaria o analoga al cesarismo, l’ipotesi populista sarebbe un pericolo mortale per la democrazia [1]. Peggio ancora, per coloro che si identificano con la sinistra, il populismo significherebbe abbandonare la “società” in favore del “sociale”. Dando la priorità alla questione sociale e gerarchizzando le “lotte” si verrebbe a creare la necessità di rivolgersi all’elettorato popolare del Front National mettendo nell’armadio il femminismo, i diritti LGBT, l’ecologia, la lotta contro il razzismo, ecc. Questo dibattito ci porta in realtà completamente fuori strada.
* * * *
La Francia è immersa nel vecchio dibattito tra la sinistra giacobino-marxista e la seconda sinistra [2] .
La Francia non ha ancora digerito l’innovazione intellettuale della scuola populista, della quale si parlerà più avanti. Innanzitutto è necessario affrontare il contesto ideologico attuale. La sinistra giacobino-marxista viene regolarmente opposta alla seconda sinistra, figlia della critica del Maggio ’68 e della nascita di nuovi movimenti sociali come il femminismo e i diritti LGBT, per citarne solo alcuni.
La prima accusa la seconda di essere stata integrata nel neoliberalismo, che assume come proprie una parte delle nuove richieste di uguaglianza e di democrazia. Questo processo è poi culminato con la nota di Terra Nova [3] del 2011 che ha reso un conglomerato di minoranze il centro della maggioranza elettorale della sinistra detta “liberale-libertaria” e individualista.
La seconda critica la prima per la sua visione ormai antiquata di Stato e organizzazione, per il suo patriottismo, ma anche per il suo riconoscimento tardivo delle rivendicazioni di uguaglianza delle minoranze. In breve, si utilizza il termine “rossobruno” per identificare l’unione di posizioni sociali progressiste con idee più o meno reazionarie sul piano dei valori.
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L’insurrezione francese
di Toni Negri
Ragioniamo su quanto avvenuto in queste ultime tre settimane in Francia. Si può chiamare insurrezione? Dipende da come s’intende la parola insurrezione – certo, comunque la si intenda, qualcosa del genere c’è stato. E probabilmente continua. E non son tanto, a mostrarlo, i violentissimi scontri che ormai da due sabati si verificano nella metropoli parigina. Non sono le barricate, gli incendi di automobili sulle strade del centro parigino a mostrarlo e neppure le jacqueries che qua e là si hanno in Francia e i blocchi stradali che si distendono ovunque. Lo dicono quei due terzi di francesi che approvano il movimento generale che l’aumento del prezzo della benzina ha determinato. E questa approvazione va molto al di là dell’eventuale condanna dei disordini accaduti. Interessanti sono a questo proposito gli accenni di insubordinazione che animano gli stessi comportamenti dei pompieri e dei corpi di polizia.
Certamente, c’è ormai in Francia una moltitudine che insorge violentemente contro la nuova miseria che le riforme neoliberali hanno determinato. Che protesta per la riduzione della forza-lavoro al precariato e per la costrizione della vita civile nell’insufficienza dei servizi sociali pubblici, per la bieca tassazione di ogni servizio del welfare, per i giganteschi tagli alle finanze dei governi municipali ed ora, sempre di più, per gli effetti (che si cominciano a misurare) della Loi Travail, e si preoccupa per gli attacchi prossimi al regime di pensionamento ed al finanziamento dell’educazione nazionale (università e scuole secondarie). C’è in Francia, dunque, qualcosa che insorge violentemente contro la miseria e fa seguire a questo un “Macron, démission!” – un attacco cioè alle scelte del banchiere Macron a favore delle classi dominanti. Gli obiettivi dell’insurrezione sono Macron e le tasse.
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